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kaguya1Mentre lo studio Ghibli vive un difficile momento di riassetto post (supposto) addio al cinema di Hayao Miyazaki, arriva nei cinema italiani l’ultimo lavoro di quella che ormai è un’istituzione dell’animazione mondiale, un progetto scritto e diretto da Isao Takahata, dopo una difficile gestazione decennale.
La storia della principessa splendente è il campione dell’amarcord animata, con il suo stile squisitamente pittorico e un sapiente uso in sordina delle tecnologie più innovative, che entrano prepotentemente in scena solo nei picchi narrativi della storia. Non solo: è l’omaggio di un uomo e un’artista a una delle mitologie fondanti la cultura stessa del Giappone, i cui echi sono rintracciabili in una marea di prodotti culturali del Sol Levante, da più rigorosi ai più pop.

La storia della principessa splendente è la trasposizione di una delle opere cardine della letteratura giapponese classica, il Taketori Monogatari (che vanta una bellissima edizione italiana edita da Marsilio, QUI). Sul nucleo mitologico di un’essere fatato disceso dalla luna sulla terra sono nate numerose versioni, che vedono protagonista ora la principessa, ora il tagliatore di bambù, ora un pescatore in svariati gradi di esito narrativo, dal lieto fine al dramma più spinto.
Il progetto di Isao Takahata mette al centro la vicenda meravigliosa della piccola bimba splendente rivenuta da un anziano tagliabambù all’interno del fusto di una pianta, salvo poi ricollegarsi a numerose altre versioni, ora per accenni (il pino marittimo che s’intravede a metà film) ora fondendo assieme varie mitologie riguardanti la veste piumata che consentirebbe alla giovane di tornare sulla luna.

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Il progetto si rivela essere da subito uno dei più imponenti senza Miyazaki; è infatti il film più lungo realizzato dallo studio Ghibli e tra ideazione, doppiaggio e realizzazione ha richiesto più di un decennio di lavoro (not so fun fact: ci hanno messo talmente tanto che alcuni realizzatori e doppiatori nel frattempo sono morti). Il risultato è un film squisitamente giapponese, un’omaggio non solo a una delle storie più amate del Sol Levante, ma anche alla cultura classica dello stesso. Lo stile visivo scelto per raccontare questa storia è l’aspetto più evidente di questo omaggio e a molti ricorderà i celebri dipinti di Hokusai o gli acquerelli minimalisti di carattere naturalista a cui spesso vengono associate le arti pittoriche cinesi e giapponesi in Occidente. Personalmente ho trovato che il rimando più forte fosse ai rotoli pittorici tipici dell’epoca abbastanza indefinita ma “medioevale” in cui è ambientata la vicenda, rotoli che non a caso fanno una breve apparizione anche nel film, e alle vicende di corte di un altro classico della letteratura giapponese, il Genji Monogatari.

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Il film di Isao Takahata è una versione digitale di uno di quei rotoli, dove l’azione scorre lentamente (talvolta troppo lentamente), per immagini giustapposte, slegata da quel rapporto stretto di causa/effetto che traccia la più netta divisione tra narrativa occidentale e orientale. In un paio d’occasioni il racconto subisce una brusca impennata, come se appunto qualcuno spingesse via il rotolo facendolo srotolare a folle velocità, imprimendo una qualità cinematografica a un film che altrimenti ne è quasi privo, innamorato delle sue immagini poetiche e del suo stile raffinatissimo ma davvero dimentico della necessità di rendere partecipe lo spettatore.

Nel caso di uno spettatore occidentale poi la visione è resa ulteriormente difficoltosa da una gap culturale che rende alcuni passaggi un’enigma e da tematiche e messaggi tutto fuorché universaliste, ovvero manca l’approccio di Miyazaki che ha saputo negli anni parlare con suoni e immagini giapponesi di tematiche esistenziali radicate in ogni parte del mondo.
Insomma, un tripudio di contrapposizioni classiche (vita di città/campagna, naturalismo, aspirazioni personali vs dovere sociale) e tematiche favolistiche, sicuramente ricercato e qualitativamente eccellente ma riservato a un pubblico ben selezionato che non ne teme lo scarso ritmo e la narrativa poco inclusiva. Insomma, la mia principessa splendente rimane questa.

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Lo vado a vedere? No, non alle condizioni a cui è stato proposto in Italia. Molto sinteticamente: 1-Perché Lucky Red deve far pagare a prezzo maggiorato l’uscita di un film del 2013 che ha avuto una release internazionale quest’anno ed è entrato nella rosa dei candidabili agli Oscar 2015? Perché dovrei pagare un obolo anche questa volta, per un film che rientra nella normale programmazione e non è né un evento speciale, né una riproposizione inedita, né un adattamento rinnovato? Inoltre qui si persevera con la nefesta scelta di un doppiaggio aulico ai limiti dell’ermetico, una traduzione quasi letterale di forme grammaticali giapponesi che non hanno corrispondenti in italiano. Il film non è adattato, è solo tradotto da una commissione di nazisti della purezza linguistica. Il risultato è che tra “Ohibò” e “s’appropinquarsi” il film risulta ridicolo in molti passaggi e assolutamente improponibile per il pubblico dei più piccoli.
Ci shippo qualcuno? Naaaa.