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Finalmente è giunto il momento di scoprire se il Frankestein di Dear / Boyle merita il clamore suscitato in patria oppure no.
La faccio breve…sì ragazzi. Se abitate nei dintorni di una delle città baciate dall’iniziativa di Nexo Digital e il teatro non vi spaventa, è proprio il caso di alzare i sederi dai divani di casa e di poggiarli per un paio d’ore sulle poltroncine del cinema.


Sapete cosa mi spaventa? L’idea che se non mi stufo prima di scrivere qui, nel giro di qualche anno non potrò usare i miei pipponi cavalli di battaglia subito dopo il cut. Tipo quello dedicato a quanto io non regga Danny Boyle come regista e di come lui continui a creare film che in un modo o nell’altro mi tocca sempre vedere (tipo, nel prossimo c’è James McAvoy, che bastardo!). O come di quella volta che avevo escluso il buzz su 127 ore dalla mia vita perché ero parecchio scocciata dallo stesso e sono andata al cinema senza sapere cosa avrei visto nella seconda parte del film ed è stato bruttissimo, bruttissimo. Quindi capirete subito la portata del talento di Boyle se vi dico che questo spettacolo c’ha una regia coi controcazzi, una macchina da guerra, anche se ovviamente il fatto di vederla mediata dalla regia cinematografica aiuta molto.

Partendo però a monte, non dimentichiamoci che il lavoro principale l’ha fatto Nick Dear (quello che ha adattato Persuasion del 1995 e ci ha vinto un BAFTA). Ammetto di non leggere da parecchio il libro di Mary Shelley ma da quel che ricordo, lo spettacolo ricalca in maniera morbida le ambientazioni e la storia dell’originale, lasciando spazio ad un protagonismo più marcato della creatura e rendendo mooolto più forte la dicotomia e la tensione emotiva tra lui e il suo creatore e lo scontro tra Fede e Scienza che prescinde alla sua creazione. E’ il racconto estremamente fisico di crescita della Creatura e solo in una fase molto avanzata della storia si acutizza lo scontro con il suo padre putativo; il focus è tutto lì nella prima parte (forse le più bella), in cui assistiamo passo passo alla crescita emotiva ed intellettiva della creatura. Il che richiede parecchio tempo prima di arrivare al punto in cui si pone le domande fondamentale sulla sua nascita e la paternità della stessa.

Il perno della vicenda è la Creatura, che occupa in maniera quasi esclusiva il palco per almeno una mezz’ora. Un lavoro quasi prettamente fisico, dato che non è ancora in grado di articolare un linguaggio vero e proprio (e da quando lo farà, le dicotomie di questo classico entreranno prepotentemente in azione e con esse, un fitto dialogare molto, molto teatrale per tematiche universalistiche e modus operandi. Voglio dire, quando mai vi capita di urlare “Mr X, questo è il TUO universoooo!”).
E qui c’è da togliersi il cappello, alzarsi in piedi e fare una standing ovation per Benedict Cumberbatch che è fenomenale. Davvero, questa interpretazione sale in testa a tutte le precedenti, validissime performance. E’ quel tipo di esperienza che quando finisce ti senti grato di aver condiviso e vissuto.
La potentissima scena iniziale della nascita della creatura, del suo sforzo solitario di respirare, muoversi ed infine alzarsi in piedi presenta un lavoro così certosino eppure così naturale nella disarticolazione del movimento, nella convulsione dei muscoli, nella devastazione dei lineamenti che suscita emozioni molto amplificate. Un po’ come si assistesse ad un parto vero. Non sto nemmeno ad elogiare la consumata bravura con cui il corpo del personaggio ricorda costantemente l’artificialità della sua nascita, come ogni battuta riproduca perfettamente le difficoltà linguistiche di chi strascica ogni lettera sibilata e le vette di pura bravura a calcare il palcoscenico nei confronti teatrali con Frankestein. E’ veramente un’esperienza che dovete fare da voi.

(Sarebbe però carino vedere lo spettacolo a parti invertite, perché la storia si focalizza solo nella tarda seconda parte sul dottor Frankestein, e comunque di riflesso alla Creatura stessa. Insomma, qui Cumberbatch ha modo di rapire il pubblico, ma sarei curiosa di vedere cosa potrebbe combinare Jonny Lee Miller con le stesse possibilità, dato che al National Theatre vengono portate in scena entrambe le versioni).

Riguardo alla regia, mi ha ricordato quelle grandi produzioni che facevano allo Strehler per i classici greci, quelle in cui la bravura degli attori concorreva con quella degli scenografi e del regista, che meravigliavano con le loro invenzioni sceniche, regalando un brivido di grandeur che al cinema difficilmente proverete, perché c’è sempre un vetro tra voi e qualsiasi cosa possa suscitare meraviglia.
In questo caso l’intero spettacolo sfrutta un palco circolare, con una circonferenza più piccola divisa in due (con tutti gli apparati meccanici di movimento del caso), su cui vengono montati i vari elementi dei set, abbastanza minimali, eterei (vedi la casa dai muri di tulle) ma dalle rese sempre volutamente, un po’ lecchinamente elegantissime.
Ad un certo punto c’è una scena in cui l’incontro con la civiltà della Creatura, con la Città, viene rappresentato dall’arrivo in una locomotiva e dal suo frastornante rumore, riprodotto in toto dalle voci degli attori, fino a scomporsi nel vociare di un’officina. Lì ci ho visto, potentissimo, Danny Boyle. Sempre nelle pensate che funzionano, l’onda di lampadine e punti luce montate su un fondo bronzeo riflettente che rappresentano ora l’artificialità del laboratorio, l’Elettricità, la Scienza, ora il cielo stellato, la Via Lattea, l’anima ardente della creatura.

Un aspetto che invece mi ha infastidito e di cui imputo la paternità a Boyle (perché è veramente da lui) è la presenza di due attori di colore in un cast non solo interamente bianco, ma anche fortemente collocato geograficamente, con ogni accento al suo posto (vedi parte ambientata in Scozia e rendiamo grazie ai sottotitoli), per non dire cronologicamente fedele al romanzo (niente trasposizioni, l’epoca è quella). Non amo il white washing, ma neanche tutto questo siamo tutti uguali volemose bbbbene (sparo a caso, il  racial colouring?) ! Non trovo razzista non includere attori di colore in una produzione ambientata in un periodo in cui un magistrato nero in Europa eh, quanto sincero. Spero di prendere io una cantonata clamorosa e che qualcuno se ne esca dicendomi che no, ma che stai dicendo, anche nel libro è così, autorivelandomi cugina dei babbei che contestavano le scelte di cast di Hunger Games. Nel post visione si è anche discusso di una possibile mossa per avvicinare Frankenstein ancora di più alla creatura sottolineandone la frattura visiva con i suoi congiunti, ma, coff coff, il fratellino biondo con gli occhi azzurri, ops.

Altra polemica, perché sono così dannatamente polemica oggi. Il biglietto costa 10 euro, ovvero più o meno quel che si paga per assistere in diretta alla trasmissione di uno spettacolo del Bolshoi nel circuito cinema. Secondo me li vale tutti (e i diritti non saranno costati uno scherzo) ma sarebbe anche ora di smetterla di prenderci in giro con questi prezzi alti perché “è un’anteprima”. Ma ante-che? Lo spettacolo è del 2011, la versione video ha già fatto il giro dei cinema inglesi l’anno scorso (ed il giro dell’internet, ovviamente), questa distribuzione limitata mondiale non è partita dall’Italia e la distribuzione italiana non è cominciata oggi a Milano…smettiamola di prenderci in giro.
Insomma, come consumatrice, cliente e (mi pare) sostenitrice dell’iniziativa, non essendoci ponti satellitari da supportare o casini di fusi orari ect ect, avrei percepito come equo un prezzo di qualche euro inferiore (il ridotto era di 8 euro).

Ho finito di lamentarmi. In coda, volevo dire che se anche qua e là i conflitti e gli attriti sono un po’ estremizzati a livello elementare per renderli più efficaci, non importa perché IL FINALE! Un vero finale! Un finale potente, efficace, epico, magnificamente realizzato, e che esprime proprio una fine fine fine!! Commozione!

Lo vado a vedere? Sì, se ti basta il sottotitolo in inglese, cosa che purtroppo non è chiarissima dal manifesto. Il sottotitolo è in inglese, non in italiano, occhio! Sì, se non ti spaventa il mezzo teatrale. Corri in questo istante se ami il teatro inglese o se ammiri Benedict Cumberbatch.
Ci shippo qualcuno? Qui c’è ben altro per cui esaltarsi ma no, non faccio fatica ad immaginarvi ad immaginare qualcosa del genere.
Coefficiente la nudità è arte al servizio del Palcoscenico? Mica tanto. Il make up mostruoso tende a coprire parti rilevanti del corpo del Cumberbatch, a cui hanno messo un mutandino per salvare le apparenze nella versione per la tivvì, o almeno mi hanno riferito così.