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Amy Adams, Autocompiacimento registico, bellissime inquadrature di robe normalissime che ti fanno commuovere, chiamare le cose col loro nome, effetto Terrence Malick, film col dramma dentro, film PESO, fotografia leccatissima, Joaquin Phoenix, ma anche no, Paul Thomas Anderson, Philip Seymour Hoffman, Ship Sheep, spiego finali, tristezza a palate
Vi avverto da subito: parte come una recensione e poi va di riflessione sul mio mondo interiore. Vedi, a darsi al cinema d’autore, poi che succede!

La scena è grandiosa, ma non riesco a togliermi dalla testa la sensazione che faccia anche molto pubblicità di un profumo di Dolce&Gabbana
Diretto: The Master non mi è piaciuto.
Forse è una ritorsione per il fatto che in anni e anni di studio quando uno veniva premiato con un buon voto perché ci aveva provato, io me la prendevo a morte perché sì ok, ci ha provato, ma comunque non c’è riuscito.
Cinematograficamente parlando, ultimamente è l’esatto opposto: finisco per difendere a spada tratta gente che ci prova e ci crede tantissimo, anche se il risultato poi è un mezzo disastro. Di contro, è diventato per me quasi intollerabile quando un film mi pianta lì realizzazione + attori col pedigree e poi sento che o non ci crede, o peggio, sta tentando di fregarmi in qualche modo.
The Master mi ha dato quella precisa sensazione. Messo lì sul piatto, non gli puoi contestare praticamente niente. La regia è molto buona. Quello che strabilia, più che il movimento di camera, è la composizione delle immagini, la loro esaltazione estetica. Poi mi stupisco che mi faceva Terrence Malick da un chilometro. Potrei starvi a spiegare come ci si sente sottilmente idioti a contemplare una ripresa PAZZESCA della scia di una nave che fa ribollire l’oceano azzurrissimo al suo passaggio, pensare “oh, ma è stupendo!” e poi, a mente fredda, pensare “cazzo, mi stavo commuovendo per una fottuta inquadratura di onde, maledetto!”. Se però avete familiarità con gli ultimi lavori di Malick, già lo sapete. Ovviamente bisogna aggiungere al filotto una fotografia pazzesca anch’essa, di nuovo, da Malick. Potrei star qui per almeno altre tremila battute a tentare di capire se si tratti di puro genio spontaneo o voglia di infiocchettare (sfoderò comunque la tag “fotografia leccatissima”), ma lascio giudicare a voi, mettendovi qui sotto un’immagine veramente rappresentativa del film, che non a caso hanno usato quasi tutti come immagine civetta negli articoli.

Non so darvi la risposta alla domanda sopra, ma vi confesso che avrei scritto anche solo due righe pur di poter usare quest’immagine.
Paul Thomas Anderson è l’uomo da incensare o distruggere, in quanto anche autore della sceneggiatura e produttore. Se per la regia non gli si può contestare niente, sulla sceneggiatura personalmente ho delle riserve. Leggenda vuole che Anderson abbia spiluccato (e riciclato, per sua stessa ammissione) cose qui e lì, basandosi su racconti sull’alcolismo dei suoi attori, su testimonianze dei culti più estremi (da qui l’errata dicitura “il film che parla di Scientology”), riscrivendo e rimaneggiando dopo un iniziale rifiuto per farsi accettare il film. Ecco, in sé la storia è davvero attraente; un personaggio, Freddie Quell, che racchiude in sé un numero impressionante di poli negativi (l’alcolismo, la violenza, esperienze familiari traumatiche, il trauma della guerra, una dipendenza dal sesso, l’incesto) che viene affascinato e plagiato da un tipo bonario ma da subito dipinto con le tinte fosche della setta simil religiosa che ha fondato e sulle cui basi mostra più di un tentennamento.
La scelta che fa Anderson è coraggiosa (e di nuovo, vedi Malick): più che un racconto didascalico, ci vengono proposti una serie di momenti frammentari, a volte apparentemente non essenziali, che ci danno brevi lampi di comprensione dei vari personaggi. L’intento è evidentemente quello di lasciare piuttosto sfumato il giudizio sul capo setta Lancaster Dodd, alternando scene pregne della sua potenza magnetica (quando Freddie lo ritrae in varie fotografie) a momenti di brusco tentennamento della sua sicurezza (su tutti, la scena rivelatrice con Helen), fornendoci al contempo una prospettiva sempre più sfaccettata sull’abisso interiore di Freddie, che, pur nella sua depravazione, sa dimostrarsi talvolta il più amabile di tutti (quando si dice contento per la realizzazione affettiva di Doris).
La mia personale impressione è che la frammentarietà più che un approccio possibile sia dovuta alla sostanziale esiguità della storia stessa. L’intero procedimento e fine della setta sono opachi. Forse per renderlo universale e applicabile a molte casistiche del genere, ma l’impressione è che non si avesse qualcosa di saldo su cui appoggiare tutto il racconto, che coronasse la storia con un climax. Senza un culmine emotivo e narrativo, il film diventa una riproposizione di frammenti sempre più lunga e poco appassionante, almeno fino alla visione finale di Freddie, che col finale risolleva un po’ il giudizio, ma è comunque troppo poco per l’ennesimo film che dura quasi due ore e mezza, pur sembrando non aver troppo da dire.
Altro dubbio: il cast. Prima che imbracciate il fucile, non metto in dubbio l’abilità di Joaquin Phoenix (abilissimo a tratteggiare con estrema naturalezza un personaggio veramente borderline) e Philip Seymour Hoffman (che ancora una volta riconferma la sua impressionante capacità di restituire ambiguità allo spettatore, stavolta facendo leva anche sulla propria fisicità e sul proprio lato comico e affabulatore rispetto al suo ruolo più standard di Personaggio Malvagio). Amy Adams non ha molto spazio a disposizione, ma ci regala anche lei un personaggio bellissimo, forse il più sorprendente per come sa passare da scena a scena da manipolata a manipolatrice. Soprattutto quella scena lì che se la descrivo poi mi arriva un sacco di gente per i motivi più sbagliati, magistrale.
Il punto è che mentre lo vedevo e ci riflettevo (e quindi altro punto a sfavore, è particolarmente scostante, dato che il mio processo di empatizzazione è molto più veloce della media eppure ero così poco coinvolta da rifletterci su), pensavo: e se Anderson fosse solo diventato più bravo a fregarmi? Cioè, lui è il tizio di Magnolia, film tanto iconico e potente (checché adesso sia una gara a “ah, ma Magnolia e la sua scena finale li trovavo ridicoli pure NEL 1999“, sì, COME NO!) quanto incomparabilmente leccaculo e a caccia di premi. Detto questo, quando metti lì la visione della pioggia apocalittica, oh, cazzo, sarai un’arrivista ma c’hai pure ragione.
Se ci pensiamo, quanto è borderline Freddie, in chiave premi? Tanto (e infatti). Pensate a quanta roba nel film è quello che fa sciogliere le giurie tecniche (e prima che diciate Oscar, io vi rammento che The Master è stato a tanto così da prendersi il Leone d’Oro strappandolo a Pietà di Kim Ki Duk) E se fosse semplicemente che, a differenza di Spielberg (che ormai è quasi imbarazzante) lui fosse diventato più bravo a mascherare questo versante, ma nel farlo abbia perso il sentimento, quello che ancora oggi fa apprezzare un tot di cose di Magnolia anche se è ruffiano da morire? Ecco, il punto fermo è che io l’ho trovato un bellissimo involucro vuoto, ma di cui non intuivo per quale contenuto fosse stato progettato.
Tornando a Pietà, forse è meno bello? Non direi, dipende più che altro dalle vostre propensioni cinematografiche. Ma quello che è sicuro è che in ogni minuto di quel Kim Ki Duk traspare la volontà di dirti qualcosa, di arrivarti al cuore, alla pancia, al cervello. Ehi, anche lì incesti, violenza, manipolazione mentale. Ma tanto, tanto sentimento.
Invece The Master è quella ripresa della scia della nave. Poetica, piena di meraviglia, ma dopo un po’, comincio a sentire il bisogno di vedere la nave che la sta disegnando.

Eh. Dovevo metterla.
Lo vado a vedere? Siccome so che non mi è piaciuto ma non riesco nemmeno io a capire appieno perché, dato che sotto molti aspetti è mostruosamente ben fatto, stavolta tocca proprio leggersi il pistolotto qui sopra e fare il paragone tra i vostri e i miei gusti/percezioni medie, decidendo di conseguenza. Tenete presente che comunque a un sacco di gente è piaciuto, ma al gruppo meno numeroso a cui non è piaciuto, non gli è piaciuto proprio per niente.
Ci shippo qualcuno? E’ talmente anaffettivo che nonostante l’intero rapporto tra Phoenix e Seymour Hoffman si presti ad essere frainteso e fornisca scene in cui un lieve coinvolgimento affettivo è palese (parentesi spoiler con le scene cult: Freddie che fa le foto a Lancaster, Freddie e Lancaster che vanno di abbracci melodrammatici, Freddie e Lancaster che si rotolano nell’erba, Lancaster che nella visione di Freddie esordisce la telefonata con un “Mi Manchi”, tutte le scene in cui Lancaster si rende conto di aver un interesse ossessivo nei confronti di Freddie), non ha la potenza che uno si potrebbe aspettare. Mh, metto una pecorella Ship Sheep, ma fate conto che è una pecorella molto altera. C’è TANTISSIMO, ma manca di emozione. Se avesse l’emozione, starei già a cercare le fanfiction.
Significato scena finale The Master? Sento che qualcuno cercherà anche questo. Freddie, dopo aver mollato Lancaster e cercato Doris, realizza di averla persa per sempre. Ha quindi una visione (è aperto a interpretazione, ma è presupponibile sia una visione, dal momento che negli anni ’90 avrei pagato oro per una prolunga tale per il filo del telefono fisso. E anche perché come faceva a sapere dove fosse Freddie, sì anche quello. Ma la prolunga di più.) in cui Lancaster lo implora di andare da lui in Inghilterra (sentite come risuona prompt da fanfiction, vero?). Freddie lo raggiunge e trova il figlio miscredente ancora al suo posto e Elizabeth esplusa dal movimento. Lancaster lo riceve, ma stavolta la fascinazione di Freddie su di lui è esaurita, forse influenzata da anni di continui discorsi della moglie, finalmente in grado di sminuire pienamente Freddie senza stimolare la reazione contraria e avversa del marito. Lancaster dà l’ultimatum a Freddie: o crede nella Causa e si dà da fare, o se ne va e allora non lo rivedrà mai più. Nell’amplesso finale, Freddie (slegatosi dal movimento) sembra slegarsene anche emotivamente, mettendo in evidenza l’aspetto più ridicolo del processo di circoscrizione del trauma, utilizzandolo durante il proprio amplesso sessuale.
Essendo un film d’autore, potete tranquillamente tirarci fuori un’interpretazione consistentamente diversa, ma, suvvia: almeno ne avete una spendibile.
- Della colonna sonora non parlo manco sotto tortura. Mi è stato spiegato che esprimere meno che entusiasmo per qualcosa in cui centrino i Radiohead è mortale quanto ammettere che si apprezza Batman & Robin di Joel Schumacher (coff, coff, ehm, sì, dunque, aaaaah, errrr, si diceva?).
- Momento magico del fantacasting: Freddie lo doveva fare Jeremy Renner, che poi ha dato buca per The Avengers, poi si è rischiato di passare a James Franco. Ho i brividi.
Grazie per la splendida recensione.
Ora, io ho un rapporto controverso nei confronti di PTA: lo apprezzo soprattutto come regista, ma negli ultimi tempi ha preso un andazzo che mi piace poco. E questi miei timori sono stati ampiamente confermati dalla tua recensione, quindi No, non lo andrò a vedere questo The Master. Lo recupererò con calma.
E non ti dico quanto mi è piaciuta la parentesi su Pietà!
Grazie a dio.
Pensavo di essere l’unica anima che si è sentita fregata guardando The Master, calcola anche che io me lo son pippato a Venezia69 ed erano tutti, tutti esaltati dalla performance degli attori, da Anderson regista che, diciamocelo, non ha toppato eh, solo che non mi ha smosso niente.
A tratti l’ho trovato addirittura noioso. Insomma, caro The Master, no.
Attendo che tu metta le mani sull’ultimo di Malick XD