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Christoph Waltz, damsel in distress, fangirlism, Gardy the problem solver, Jamie Foxx, Kerry Washington, Leonardo DiCaprio, MA-TI-PREGO, Quentin Tarantino, Samuel L. Jackson, shippabbestia
Dato che sono abbastanza sicura che, ad esclusione di alcuni haters di mia conoscenza, praticamente l’universo mondo abbia visto Django Unchained, evito di fingere di stare recensendolo e scrivo una considerazione (stavo per scrivere breve, ma non voglio rischiare) personale. Spoiler? Eh, se non l’avete visto, decisamente sì.
Il film mi è piaciuto.
Ma.
Django Unchained l’ho vissuto come la cosa più vicina al divertissement che Quentin Tarantino abbia mai fatto.
Personalmente ammiro molto il regista da tempi non sospetti e mi ha stupito un po’ vedere come un cinematografaro assolutamente irrecuperabile come lui sia riuscito a diventare una sorta di momento irrinunciabile per recarsi al cinema per una fetta vastissima di pubblico italiano. Diciamo più o meno da “Bastardi senza gloria”. Non mi riferisco alla fama in sé, ma proprio all’appartenenza a una sorta di orizzonte culturale percepito dalla stragrande maggioranza come irrinunciabile, quasi esperienziale. Si va a vedere Django Unchained, perché sì. Che, ti vuoi perdere l’ultimo di Tarantino? Insomma, solo un quinquennio fa non funzionava proprio così.
Credo che la sintesi perfetta per tutto il groviglio di intricati ragionamenti che questo film mi suscita me la abbia fatto una mia conoscenza marginale, che mi ha detto questa frase assolutamente ispirata ed illuminante “Eh, Tarantino è diventato un grande narratore.” Com’è vero!!
Django Unchained è un film irrefrenabilmente spassoso, che sa divertire e intrattenere pur basandosi su una storia esilissima, talmente risibile che riempie i vuoti col mito per far prima.
La stessa dinamica esiste anche in “Bastardi Senza Gloria”, che non a caso con Django si posiziona a mille miglia dalla produzione precedente di Tarantino. Entrambi i film sono tarantiniani e hanno il momento “alla tarantino” (altresì detto la strage), ma a trama moooolto avanzata. Una volta tutto avveniva in funzione della sposa che arrivava in Giappone e faceva danni, adesso, dopo aver fatto succedere tutto, c’è anche il tempo per una sparatoria con tutti i crismi. In quel “tutto” ci ritroviamo un po’ di…tutto: scenari, atmosfera di genere, personaggi e loro storia, mentre di fondo la storia in sé e per sé è quasi un contorno.
Personalmente però trovo che Django Unchained sia un paio di gradini al di sotto del suo predecessore. Sicuramente su questo giudizio avrà influito la mia sostanzialmente indifferenza verso il genere western, ma credo ci sia dell’altro, sul piano personale e qualitativo. Non voglio dire che Django sia peggio (in toto, perché su alcuni aspetti di cui tratterò dopo, sì, è involuto parecchio) solo…è meno brillante. L’impressione è che se in passato Tarantino alternava pietre miliari a pellicole dimenticabili, adesso gli riescano bene anche i film meno riusciti e lo stacco sia meno netto che in passato.
Andando sul pratico; Django Unchained sembra veramente una sorta di pausa relax di Tarantino, che si cimenta in un genere che ama e nella riproposizione di un personaggio che ammira senza il pressante bisogno di dimostrare qualcosa. Così ecco Django che cerca la sua amata, aiutato dal suo carismatico e irresistibile salvatore. Django è assolutamente monocorde, come lo sono stati tanti miti western del passato. Chi, come, dove, cosa; non conta. Sa sparare bene, vuole indietro la donna. Fine. Fortunatamente Tarantino affida a Christoph Waltz un personaggio a rischio ridicolaggine altissimo e lui ne tira fuori qualcosa di pazzesco, qualcosa che quando tu lo guardi sai già che è stilema, che è destinato a durare. Anche Leonardo DiCaprio se la cava con un personaggio incredibilmente interessante per quello che non dice (la sorella? l’amante? l’esatto rapporto con il capo di casa?) ma lascia intravedere. Tutto intorno? Praticamente il nulla.
Il punto è: manca completamente di ardore, nel senso proprio che i film fino ai due volumi di “Kill Bill” ardevano, letteralmente, dal punto di vista della regia.
Storie bellissime, ok, ma c’è più volontà di essere dimostrare il proprio valore in una sequenza a caso del Volume 1 che in tutto “Django Unchained”. Ci sono sì scene memorabili, ma più per quello che succede che per come succede, elemento che prima era un cardine attorno a cui girava quasi tutto il resto. Esempio: la battaglia contro gli 88 folli. Ogni volta che la rivedo (e siamo a parecchie ri-visioni) è autenticamente emozionante perché parliamo di una decina di minuti con una scelta registica più iconica dell’altra. Un’intera sequenza iconica formata da microsequenze iconiche anch’esse. Quella potenza lì Django non la va mai a scomodare, perché appunto Tarantino è comodo.
Forse è questo che mi scoccia veramente: è fisiologico per tutti i registi perdere l’ardore iniziale, la voglia di strafare per farti vedere quanto sono fottutamente dei geni della regia. In genere già alla seconda/terza pellicola questa fiamma non è che un lumicino. Quentin Tarantino ha sfolgorato così a lungo da quel punto di vista (quello che fa esaltare i fattoni come me che passano le ore a discutere ogni cavolo di microsequenza) che pensavo sarebbe stato eterno. Forse ha smesso, forse no, ma è come rendersi conto che l’adolescenza è finita una seconda volta.
Sei adulto, magari non è poi male, ma un certo numero di sfumature ti sono precluse, PER SEMPRE, ed è il peso irrevocabile di quella negazione a ferirti a tradimento.
Tarantino sembrava sarebbe rimasto registicamente (e non solo) adolescente per sempre: la sua crescita fa male perché era un vivere di riflesso una nuova giovinezza cinematografica e un erede di quel calibro non capita poi tutti i decenni.
Tornando ai Bastardi (e a tutta la produzione precedenza), qui si apre un mondo: non sempre i protagonisti sono i personaggi più interessanti, però è anche vero che anche nei suoi film peggiori Tarantino è sempre riuscito a piazzare comparse e comprimari mai banali.
Qui invece c’è veramente pochino, specie sul versante femminile. Ora voi potrete dirmi che sono fissata io (magari sì) ma Broomhilda Von Shaft è una (gnocca, ne convengo) damsel in distress (fanciulla in difficoltà) antologica, una sorta di Peach di colore che viene rapita ad inizio avventura, nessuno la vede, nessuno ne sente la mancanza. Quando poi ci viene presentata, le vengono messi in bocca solo urli di sorpresa/dolore/paura e qualche sparutissima battuta. Tanto che quando Schultz dice a Django che si capisce perché ci tenga tanto a recuperare la moglie, uno pensa “No scusa, spiegami che non ho capito”. Gnocca è gnocca, ma Schultz non sembra mai così superficiale, no?
Mi sembra persino superfluo scomodare quel personaggione di Shoshanna, interpretata da una magistrale Mèlanie Laurent. Il confronto non esiste neppure perché Broomhilda non è un segreto da svelare, è un segreto che non c’è (e non è neppure degna di una citazione da “Contessa”).
Adesso voi starete massacrando la vostra tastiera furiosi, per dirmi che prima di Shoshanna, non è che Quentin Tarantino fosse proprio il paladino dei personaggi femminili positivi (anzi, si vantava del contrario). Fermi, se mi diceste che di fondo Tarantino è un bel maschilista di merda, non avrei poi tanto da controbattere.
Tuttavia bisogna riconoscergli che si sia sempre posto verso i suoi personaggi femminili in maniera molto più onesta e permissiva di altri.
Mia Wallace è di fondo una sciocchina piena di leggerezza, la Sposa di fondo non è che Bill c’avesse tutti i torti ad avercela con lei, le tipe di “Grindhouse” di fondo sono delle dementi? Sì. Però pur con tutti i loro difetti e il loro essere leggere, vuote, Quentin le ha sempre ritratte come personaggi iconici quanto la loro compagine maschile. Mia Wallace e il suo caschetto sono ammaliantissimi perché è Tarantino a mostraceli così ed è solo ad un secondo esame che uno ci riflette e dice “Eh, ma Mia è davvero cretina”.
Tarantino le ha ritratte desiderabili, citabili, da ammirare nella pienezza dei loro difetti e questo è incredibilmente più lusinghiero di una serie di “fidanzate di” piantate lì a forza. Broomhilda invece è totalmente inutile al di fuori del suo essere un espediente narrativo e incarnazione mitologica di colore.
Ci shippo qualcuno? Personalmente no, ma questo film è una cosa indegna per quanto è fraintendibile su una marea di livelli e la colpa è principalmente della moglie di Django.
Non fornendo la benché minima motivazione plausibile del perché uno si dovrebbe prendere uno sbattito simile per recuperarla (ah no, scusate, lei scappa. Eh, allora.) si giustifica chi la considera una mera scusa per coprire il vero scopo del film (nella sua mente malata): lo shipping abbestia.
Il salto peggiore è quello su Shultz perché lui, di motivi per spendere spaventose cifre di denaro e lasciarci le penne per Broomhilda,non ne ha proprio, come lui stesso dice ad un certo punto, sparando poi quella giustificazione inascoltabile del nuovo Sigfrido. Ma-ti-prego.
Se però io persona (quasi) normale percepisco una trascuratezza narrativa per arrivare al dunque che interessa allo sceneggiatore-regista, al cervello della fangirl richiede circa 2 secondi l’operazione di formulare questo pensiero: “ovviamente lo fa perché è colpito da Django e farebbe di tutto per rimanere in sua compagnia” e siamo onesti, non suona nemmeno così pazzesco.
Altri due dettagli da non trascurare: il momento di scopertura addominale nel loro primo incontro e la faccina sorpresa di Schultz che è davvero combustibile su un una pira che verrà poi accesa e (quello che è veramente peggio) l’intermezzo alla “Brokeback Mountain”, campeggio, neve, cavalcate infinite sul una delicata palette cromatica e sguardi complici inclusi. Cazzo, non solo l’ho pensato io che vabbè, diciamo che sono sgamata, l’ho sentito dire da persone al di sopra di ogni sospetto (e la cosa mi ha rincuorata tantissimo, lo ammetto…mi sono sentita normale).
Tutta la piega (deludentemente prevedibile, peraltro) che prende il tentativo di salvataggio a Candieland e le scelte completamente in contrasto col personaggio pre-incontro con Django di Waltz sono una condanna.
Diciamo che smollo subito un paio di Ship Sheep e evito di entrare nell’intero capitolo DjangoxCandie perché lì partiamo da presupposti così perversi nel film che non ne ho veramente la forza. Fateci caso da soli, per favore.
Seguo e amo Tarantino da 18 anni (Dio mio come son vecchia!), e gli ultimi due sono stati entrambi grosse delusioni. Sono film di un Tarantino che cerca di fare Tarantino, copiando male se stesso. E infatti proprio ora il grande pubblico lo acclama…
Ancora ancora, in Inglorious Basterds la scena iniziale e quella della locanda erano LUI erano il sano spietato Tarantino, e i dialoghi… ti ci perdevi in quei dialoghi. Ma in Django… a parte il momento in cui lui fa lo spelling del suo nome (unico attimo in cui ho pensato, “Hey, ma è Tarantino!”) il resto è fuffa.