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Ang Lee, delicate palette cromatiche, fotografia leccatissima, Gérard Depardieu, i nostri amici arabi, immaginifico sognante e tutte quelle menate lì, Irrfan Khan, post di pubblica utilità, Richard Parker, Suraj Sharma, Yann Martel
Dato il tempo trascorso dall’uscita in sala e la mia spontanea avversione verso Ang Lee, coronata in un quadruplo insulto carpiato durante la cerimonia degli Oscar 2013, ho pensato di prenderla alla larga e di parlare del rapporto tra libro (che vi stra-consiglio) e film (che vi consiglio un po’ meno).
Il post ha avuto una gestazione parecchio lunga e complicata, quindi preparatevi al wall of text (non per volere usare termini stranieri a tutti i costi, ma papiro secondo me non rendeva l’idea…diciamo che è sicuramente non posso rassicurarvi e dirvi che non è nemmeno un rotolo). Non assicuro nemmeno che non parta l’insulto a un certo punto…voglio dire, è sempre un film di quel piacione di Ang Lee. La prossima volta parlerò di qualcosa che non mi generi l’insulto automatico, promesso.
Occhio, spoiler consistenti da entrambi.
IL LIBRO
Vita di Pi ha reso celebre il suo creatore, Yann Martel, travolto nell’anno della pubblicazione sia dalla vittoria al Man Booker Prize 2002 sia dall’accusa di plagio.
[Lunga parentesi quadra sulla questione: l’accusa nasce da una dichiarazione di Martel di aver preso ispirazione per la storia di un uomo intrappolato su una scialuppa con una fiera dalla trama letta su un giornale di un libro brasiliano. Urla e accuse senza fine, motivate soprattutto dal fatto che l’articolo sul giornale indicato sembra non essere mai apparso. Rimane il fatto che “Max and the Cats” è un titolo tutt’oggi oscuro ai più, con flebili punti di contatto con la complessità di “Vita di Pi”, anche considerando il significato di “plagio” molto ampio adottato nel mondo anglosassone. Dopo aver letto vagonate di materiale sulla vicenda, la mia idea è che ci sia veramente poco su cui avanzare accuse, a differenza di altri casi più celebri quali “Atonement” di Ian McEwan.
Fermo restando che, è crudele, sì, puoi avere l’idea migliore del mondo e fartela rubare e rimanere comunque un oscuro scrittore, perché non scrivi con McEwan o Martel: è quello il discrimine.]
“Vita di Pi” offre una varietà tale di approcci, data la sua ricchezza, che non so nemmeno bene da dove cominciare. Diciamo che, a spanne, possiamo dividerne i contenuti in due grandi nuclei tematici: la storia biografica di Pi e l’allegoria.
Il primo, più semplice e immediato è la storia di Pi Pathel, un ragazzino indiano che dopo un naufragio si ritrova solo su una scialuppa di salvataggio, in mezzo all’oceano, con una tigre di nome Richard Parker come passeggero. Anche questa versione “ufficiale” non rende assolutamente la storia del protagonista, perché trascura il fatto che prima del naufragio c’è più di un centinaio di pagine (a spanne, un 1/4 del libro) dedicato a farci conoscere appieno il protagonista, spiegandone carattere, attitudine, background culturale e religioso (punto fondamentale, ci torneremo poi) e soprattutto cosa perde Pi, nel naufragio: la famiglia, i legami affettivi con i propri parenti e con gli animali.
Tutto il troncone pre-naufragio infatti è dedicato alla vita di Pi con la sua famiglia nello zoo del padre, circostanza che spiega:
1-la presenza di una tigre a bordo della nave
2-la conoscenza del mondo animale di Pi (e per conoscenza non si intende la piatta esposizione di luoghi comuni sulla vita degli animali, ma una profondissima conoscenza dell’istinto primordiale, delle abitudini e del comportamento di molte specie, tra cui ovviamente primeggia l’analisi della tigre in questione).
Uno dei motivi per cui “Vita di Pi” è un romanzo meritevole è proprio l’approccio che ha sull’intera questione mondo animale, lontano anni luce da quell’etica animalista o giù di lì in stile “gli animali sono migliori di noi, gli animali hanno un sacco di sentimenti”. Pi è profondamente consapevole del fatto che se vuole portare a casa la pelle non dovrà mai commettere lo sbaglio di umanizzare Richard Parker, così come il suo autore, che non molla mai su questo punto. Anche quando Pi disperato vorrebbe che il suo compagno di viaggio si rivelasse mosso da qualcosa in più della loro semplice convivenza forzata, la tigre rimane mossa dall’istinto della tigre, fino a creare una scena straziante come quella dell’addio di Richard Parker.
Altro punto cardine del libro è quello religioso, anche nella storia di base. Pi di fondo è la versione aggiornata dell’indiano che rivela allo sbadato uomo occidentale le meraviglie della spiritualità indiana. Sin da subito Pi si rileva così ammaliato dalle religioni a sua disposizione, induismo, cristianesimo e islamismo, da praticarle in contemporanea, dando vita a una sorta di scontro tra i suoi tre mentori (per me, di gran lunga la parte più impacciata e meno raffinata del libro). A questo rapporto pieno di meraviglia e curiosità verso queste tre concezioni del mondo viene accostata anche una visione atea e scientifica, senza alcun intento moralizzatore, con tanto di “maestro” e fascinazione dell’allievo.
Questo nel preambolo: il punto di svolta è ovviamente il naufragio e il disperato tentativo di Pi di sopravvivere in condizioni sempre più precarie, con il costante memento mori di una quintale e rotti a due passi di distanza. Ovviamente il discorso religioso qui si fa più forte: bloccato solo in mezzo al nulla, in balia dell’indifferenza della natura e del capriccio degli eventi meteorologici, con unica compagnia una tigre che da una parte attenta costantemente alla sua vita, dall’altra sembra l’unica possibilità di Pi di lottare per vivere (attraverso la sua volontà di non farla morire) e mantenere la propria sanità mentale, ovviamente rimane un sacco di tempo per farsi domande su chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando. Ancora una volta, l’approccio non è mai banale e tocca picchi di crudo abbraccio della natura umana. Pi, pur essendo profondamente religioso e profondamente rispettoso degli altri esseri umani, attraversa un soffertissimo spettro di posizioni, dall’autoconvincimento, alla disperazione alla rassegnazione, all’approccio attivo all’arresa alla morte, dal dubbio alla disperazione contro Dio, alla certezza che Dio ci sia o non ci sia, fino alla regressione al nucleo più ferale, andando vicinissimo alla follia. Nel descrivere la natura umana, soprattutto ai limiti della sopravvivenza, Martel non fa più sconti di quando si confronta con il regno animale.
In definitiva, analizzando il libro sulla semplice base di quanto avviene esplicitamente al suo interno è un buon libro, che mi sentirei sicuramente di consigliare. Partendo da un personaggio piuttosto prevedibile (un ragazzino indiano che ama gli animali, è rispettoso della famiglia che in età adulta scommette con uno scrittore occidentale in cerca di sé di potergli regalare una storia che gli farà credere in Dio) Pi esprime opinioni spesso molto lontane dalle posizioni comuni, squisitamente articolate, così come l’intera ricerca riguardante il mondo animale, i dettagli della nautica e della sopravvivenza in mare aperto.
Il problema è che è estremamente difficile ignorare i livelli successivi, quelli giusto un po’ meno espliciti, che vengono palesati nelle ultime 30-40 pagine del libro. Succede, ma la cosa mi lascia un po’ stordita.
Il lettore più smaliziato noterà con facilità che alternato all’estremo realismo della situazione fisica in cui si trova Pi, molti frangenti si prestano facilmente a una lettura biblica (immagino ce ne siano molti legati ad induismo e islamismo, ma purtroppo non ne ho così ampia conoscenza da coglierne se non qualche vaghissimo riferimento). L’accostamento di Pi a figure bibliche, per esempio. Il rapporto con il fratello rimanda chiaramente al tradimento di Caino e Abele. Molti i punti di contatto con la figura stessa di Gesù. Questo senso di “significato altro” nascosto da qualche parte cresce man mano che la storia procede, coronando nell’arrivo all’Isola da parte di un Pi vicino alla morte, dopo un incontro con un sopravvissuto francese dai contorni parecchio macabri (cannibalismo, intendo. Ehi, cibarsi del corpo, dove ho già sentito quest’espressione?).
Un’isola, dicevo. Un’isola formata da un intricato groviglio di alberi, in mezzo al mare, abitata da migliaia e migliaia di suricati inconsapevoli del pericolo di vivere lì sopra, dato che l’isola si sostenta avvelenando qualsiasi cosa giaccia sulla sua superficie inferiore al calare della notte e “corrodendola”.
Al centro dell’isola c’è un albero, l’unico con dei misteriosi frutti. Pi ne apre uno e vi scopre un dente umano; a lui ora la decisione. Rimanere per sempre sull’isola lontano dagli affanni del mare aperto, consapevole che finirà prima o poi risucchiato dalla stessa, o tornare in mare, scampando questa mera attesa della morte ma rischiando di soffrire. A questo punto il parallelo con l’Eden e l’albero della conoscenza è piuttosto chiaro, così come i lemuri che rappresentano un popolo di “ignari” che vive nel suo tran tran quotidiano, senza porsi domande, accettandone la realtà.
Fin qui però sono paralleli, metafore, sparse a decine tra le pagine del libro. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che Pi è tutto tranne un narratore attendibile, in quanto la sua storia viene mediata da una lunga serie di passaggi. La storia del giovane Pi viene narrata dal Pi ormai adulto a uno scrittore in cerca di una storia, con qua e là degli interventi che sembrano opera più dello stesso Martel che del narratore fittizio.
Quando Pi viene tratto in salvo e Richard Parker scompare nella foresta, comincia l’ultima parte del libro. Qui Pi fornisce una seconda versione “più realistica” a due giapponesi venuti a indagare sul naufragio della nave e sconcertati dal racconto di Pi e dalla mancanza di prove (Richard Parker non c’è, nessuno sa dell’Isola e via dicendo). Pi allora propone di raccontare una seconda versione della storia e lascia ai giapponesi la scelta di decidere quale trasmettere in via ufficiale. Qui la prima storia viene smontata come una versione metaforica: la tigre non è altri che un Pi costretto sulla barca con altre persone (che nella storia iniziale erano animali sopravvissuti all’incidente) e, privato della madre da un cuoco francese che la uccide dopo aver eliminato e mangiato un naufrago ferito, lo uccide a sua volta e, per sopravvivere, se ne ciba. La storia risulta coerente in ogni suo punto esattamente come la prima; Pi chiede alle persone di scegliere quale preferiscono, così come fa Martel.
Insomma, solo finendo tutto il libro sarà chiara la sua vera portata, quella di una gigantesca allegoria. Alla fine, non si tratta di un libro che co-esiste splendidamente su più livelli: quello della mera storia del naufragio E quello che parla al lettore non di religione, ma del suo rapporto con la religione. Al momento di credere in una versione, propenderete per la prima suggestiva e possibilista, coronata dalla speranza ma talvolta poco coerente o per la sua versione disadorna, realistica ma mortalmente disperante? Insomma, preferite abbracciare una visione del mondo divina con le sue incoerenze o una sterilizzata da ogni intervento extra-umano ma più brutale e angosciante?
Il classico caso in cui una rilettura successiva permette di abbracciare la vera grandezza della storia, un naufragio della fede di un credente, che in una condizione disperata si ritrova faccia a faccia con la sua parte più primordiale, capace di cose terribili per garantirsi la sopravvivenza, rappresentata dalla presenza di Richard Parker. Sulla sempre più stretta scialuppa della sua fede, Pi naviga per i continui timori e le disperazioni verso un Dio che lo lascia in balia di una natura ora benevola ora brutale con le sue tempeste e i suoi pericoli, brutale perché completamente indifferente. L’isola sembra un rifugio sicuro, ma è solo un’attesa della morte incurante, senza un vero scopo, sospesa in una routine quotidiana senza senso. Tornato a lottare nell’incertezza della fede, Pi è salvo, ma la tigre, la sua natura più brutale, lo abbandona, ora che nella societa umana non è più costretto a scelte drammatiche per sopravvivere. In realtà quella parte “malvagia” (anche se la connotazione morale non c’entra) viene solo ridotta dalla società: la figlia di Pi ha un gattone arancione. Quella parte in grado di compiere atti tremendi per sopravvivere è sempre presente.
In questa chiave, nelle sue infinite sfumature interpretative ma soprattutto nel parlare al lettore della sua stessa natura facendogliela conoscere mentre pensa di giudicare l’operato di un altro, può far scomodare parole da usare con cautela. Capolavoro? A giudicare da come la recezione del “vero senso della storia” cambi da persona a persona, mi sento di poter lasciare aleggiare quel termine.
Vita di Pi di Yann Martel, Pickwick, 2013, 336 pp., 9,90 euro.
IL FILM
Il best-seller di Martel e la sua fama (e la sua “oscarabilità”) facevano evidentemente gola agli studios, ma l’impresa era tanto ardua e rischiosa (anche se poi coronata da un successone planetario) che si parlava di “libro impossibile da trasporre al cinema”. Come la storia insegna, tutti i libri sono inadattabili finché qualcuno non smentisce l’assunto alla prova dei fatti.
Il punto è cosa sia impossibile da trasporre e in base alla vostra risposta è facile indovinare se l’opera di Ang Lee vi sia piaciuta o meno. Vi dico subito che non l’ho trovato brutto in toto, anzi, ho apprezzato molto alcune scelte e in generale non mi è dispiaciuto (molto meno di altre pellicole del regista), tuttavia per me manca completamente il punto.
La difficoltà di “Vita di Pi” per molti sta nella situazione parecchio statica di gran parte della storia, dell’unico protagonista in scena, della tigre (cosa che si è ovviamente risolta con la computer grafica, senza nemmeno un Andy Serkin) delle scene al limite con il meraviglioso e delle conseguenti difficoltà di realizzazione tecnica. Punto.
Ammetto che non sia cosa per tutti, ma in un mondo in cui con la grafica computerizzata puoi far più o meno tutto e due decenni dopo “Titanic”, non è che mi sembra tutto questo insormontabile problema prendere un green screen, girarci il film e realizzarci sopra il resto. Per questo motivo mi fa *incazzare* il premio alla fotografia, perché nella mia mente è più difficile gestire luci, ombre, filtri e cromatismi in un ambiente reale (con una villa che va in fiamme, cof cof) che non partendo da qui, creando i fondali e poi schiaffandoci sopra le luci. Infatti non è possibile trovare 2 fotogrammi della stessa scena con la stessa palette cromatica, perché una volta creata artificialmente, il ritocco è un attimo. Andate su Google Images e ditemi che sbaglio. Poi magari è solo un mio punto di vista ma ehi, è il mio blog (no, in realtà sto ancora cercando il parere di una fonte autorevole sull’argomento).
Tornando al film, io credo che il punto di difficoltà non sia quello, dato che qualche anno fa è nato una sorta di filone con interi film di gente bloccata in mezzo all’oceano, sotto terra, sulle seggiovie…quel genere di film in cui te la devi giocare bene (e che sono alimento per ogni fobia che uno non aveva mai pensato di avere). Se ce la fanno misconosciuti registi di film indipendenti, un primo della classe come Ang Lee non dovrebbe poi avere troppi problemi.
Per me il problema principale sta nell’allegoria, che è il vero valore aggiunto nel film. Se al lettore si può chiedere uno sforzo interpretativo in più data la quantità ragguardevole di particolari forniti, al cinema la partita è più complicata, spesso giocata esclusivamente sul piano visivo. Se sulla carta la scelta di Ang Lee era tra le più quotate proprio per la sua abilità di creare queste scene immaginifiche, meravigliose, sognanti, nella pratica vanifica ogni tentativo allegorico. Semplicemente perché, per il tipo di cinematografia che ha alle spalle, se vedi un isola di lemuri, una balena che “salva” Pi in un mare pieno di pesci fosforescenti e tutto il corredo di immagini meno collegate alla realtà (quelle che fanno partire l’allarme sottotesto), pensi “ah, guarda la sensibilità artistica di Ang Lee, che genio dell’immaginario magico”.
La sceneggiatura poi non aiuta, appiattendo i lati più controversi di Pi e (punto che mi ha infastidito notevolmente) ficcando nella prima parte tutta una storia d’amore con una ragazzina del tutto inedita, che apparentemente non ha alcuno scopo (non è che alla fine, chessò, è la moglie e allora si incede nel buonismo di lui che la ritrova dopo il naufragio, manco quello! Che senso ha?).
Opinione piuttosto impopolare, trovo che nemmeno l’interpretazione di Suraj Sharma sia d’aiuto. Si tratta di un’interpretazione basilare, sì, rende l’idea delle sue sofferenze da naufrago, ma non rimanda all’estrema complessità, al’articolatissima psicologia e al conflitto interiore del protagonista. Tutto questo lo fa invece il dimenticatissimo Irrfan Khan, che in pochissime scene rende alla perfezione quella giocosa ambiguità di Pi, che cela la ritrovata felicità ma la continua coscienza del suo tormento interiore. Siccome poi son tutti qui a dire quanto è bravo Ang Lee che sceglie attori dell’etnia adatta, vorrei segnalare il paraculismo assoluto di scegliere Gerard Depardieu per fare il cuoco francese burbero e Irrfan Khan per fare l’indiano saggio, banalità a galloni!
Per farla breve, ancorato com’è al racconto biografico di Pi, il film quando nella conclusione rivela la seconda versione e vira più decisamente sul religioso, sembra sgraziato e completamente fuori contesto. Perciò, “Vita di Pi” rimane un buon film di Ang Lee basato sulla parte “bella e basta così” del libro, che manca completamente di adattare il lato meno evidente del libro, non sfruttando quindi il potenziale veramente dirompente della fonte di partenza. Però oh, che scene meravigliose eh, questo Ang Lee, altro che i registi occidentali!
Se ripenso all’Oscar 2012 come miglior regia, mi sento male.
Complimenti,bellissimo a post,aspettavo parlassi di Vita di Pi!
Io ho amato tantissimo il libro,me lo sono divorato e ancora ci ripenso. Avevo assoluto bisogno di qualcuno che mi spiegasse il discorso dell’isola e dei suricati,mi sono scervellata per capire e forse la tua interpretazione ha fatto un pò più di luce.
Detto questo,mi sono avvicinata al film con timore,ma devo dire che sono rimasta abbastanza soddisfatta:Oscar alla regia a parte,trovo che tutto ciò che si “vede” sia davvero molto bello e scenografico. Non ho apprezzato la storia della ragazzina,non ne ho capito il senso,nè il fatto di eliminare quasi totalmente il rapporto di Pi con le religioni.
In ultimo [SPOILER],ho trovato che il finale sia stato troppo “uno spiegone”:mi sono resa conto che le persone intorno a me al cinema,che presumibilmente non avevano letto il libro,sono rimaste motlo confuse. Il fatto che Pi racconti in lacrime “la seconda versione” fa sì che tutti gli credano,eliminando in questo modo il dubbio che invece caratterizza il finale del libro,e al quale ancora non ho saputo dare una risposta.
Un saluto!
OT:cosa intendi con questione Atonement?
Intravedo solo ora la domanda finale.
La “questione Atonement” deriva dal sospetto (e dalla successiva mezza ammissione) che McEwan abbia etto un manoscritto di un’autrice sconosciuta che a grandi linee narrava la storia di “espiazione” di una ragazzina, riscrivendolo e rendendolo un capolavoro.
Il plagio riguarda la prima parte del libro, quella prima della guerra.
Nonostante ormai esistano numerose edizioni critiche di Atonement con tanto di notazioni e saggi dedicati all’argomento, non si è mai capito fino a che punto McEwan abbia veramente copiato quel manoscritto. Sicuramente c’è più materiale qui per un’accusa di scopiazzatura che nel ridicolo scandalo montato su “Vita di Pi”.
Ho visto il film senza aver letto il libro. Vi assicuro che sono rimasto letteralmente estasiato. Del resto è un argomento sempre aperto quello che lega la lettura di un libro e la sua trasposizione cinematografica. Non per difendere il regista, ma essendo il tema trattato con molte sfaccettature è inevitabile che venga “filtrato” tramite la personalità del regista/sceneggiatore. Anche a me è capitato di restare deluso da qualche film dopo aver letto il libro, ma a questo punto credo che dipenda dal tipo di romanzo. Mi spiego, quando la chiave di lettura è chiara e univoca, allora ne segue che il film (a meno che il regista non sia proprio una capra 🙂 ) sarà fedele all’idea che ci siamo fatti durante la lettura. Di fronte a un film di questo tipo invece, è molto più difficile “accontentare” tutti. Se ci sono tanti aspetti da trattare è inevitabile che nella necessità di sintetizzare tutto in 2 ore, venga dato più o meno risalto alle varie parti. Quello che posso dire io è che mi è sembrato molto equilibrato, ma non ho dubbi che le vostre considerazioni siano corrette. Del resto non avendo letto il libro non posso dire altro nè posso avere una visione più completa.
Condivido appieno… Però mi sembra quasi ovvio e scontato, almeno in base alla mia esperienza, che un film possa raggiungere la profondità di un libro…
All’inizio sembra uno sdolcinato e melenso film francese, alla fine un macabro film horro americano (quando Pi racconta come sono andate veramente le cose).
Meno male che c’è la parte centrale del film!
Sinceramente, una persona che mi dice che l’inizio di “Vita di Pi” sembra uno sdolcinato e malenso film francese (evviva i pregiudizi: la storia del cinema francese non è soltanto “baci e Tour Eiffel”, anzi, è caratterizzata da geniali capolavori che hanno reso e rendono questa categoria probabilmente la migliore a livello di originalità e profondità. Tutt’oggi) e che la fine è, addirittura, un macabro film americano (senza la presenza nè di baci, nè di abbracci, nè dall’altra parte di sgozzamenti. Non si vede neanche una goccia di sangue in tutto il film!) mi fa capire che non hai colto molto il senso del film e tutta la sua storia, e un altro paio di cose.
Non sentirti offeso/a, non è la mia intenzione questa perchè non ce l’ho con te.
Ce l’ho con la tua risposta, che è una cazzata.
Sono capitato casualmente sulla tua recensione del film “Vita di Pi” girando su interne alla ricerca di una qualche illuminazione per capire meglio il film.
E devo dire che le tue righe sono state decisamente chiarificatrici.
In particolar modo ti dico che, non avendo letto il libro prima della visione delle film, mi sono trovato a provare proprio quel misto di sensazioni scritte da te.
Capisco che l’intento della storia è darti una metafora sulla fede all’interno della vita di un uomo. Lo capisco perché all’inizio questo obiettivo è chiaramente espresso dal narratore, quindi ci sono pochi dubbi.
Purtroppo però andando avanti nel film questo intento si perde. Ci si bea intorno alle immagini evocatrici, ai colori, allo stupore e alle meraviglie della computer grafica. Ma in tutta sincerità tutto questa distrae dal senso del film, distoglie dal vero obiettivo.
La regia andando avanti dimentica il senso del percorso che doveva compiere, secondo me finendo per non fornire allo spettatore gli strumenti utili per capire la metafora.
Ed è quello che è successo a me. Io ho percepito che il messaggio che doveva uscire dal film era riguardo la fede, ma questo messaggio alla fine non mi è arrivato. Ora io probabilmente non sarò uno sveglissimo, ma secondo me il regista ha abbastanza toppato.
Il poco risalto che si da alla storia verosimile del naufragio (quella con il cuoco e la madre), il poco spazio donato alla fase conclusiva, quella in cui si dovrebbero tirare le somme, non aiuta. Lo spettatore negli ultimi minuti viene mandato in overdose di informazioni. Per un’ora e mezza si è goduto le immagini dei fantastici viaggi del ragazzo, si è perso dietro a balene fosforescenti e fiori fluo… poi in quattro e quattro otto ti viene detto che forse è un’allegoria e che quindi devi rivedere in ottica diversa tutto il film. Ma è troppo tardi! Nel mentre non si legge l’evoluzione psicologica del ragazzo, non si hanno preamboli di quella che sarà effettivamente la conclusione.
L’ho visto con degli amici e alcuni addirittura si dispiacevano che la tigre a fine naufragio non si gira a salutare il ragazzo. Cioè se gli spettatori vanno così tanto fuori strada significa che c’ qualcosa che non va.
Ultima cosa ho letto nel tuo resoconto che nel libro viene scritto che la figlia del protagonista ha un gattone arancione. Ecco, secondo me sarebbe stato un elemento molto molto importante nella comprensione della storia e poteva essere usato per un finale più evocativo. Invece? Appena appena citata l’esistenza e poi dimenticato.. bho…
Da quanto mi pare di capire peccato che un libro così particolare con una morale così profonda non sia stato reso adeguatamente nel film che, a mio parere, si ferma sul lato estetico e scenografico del film. A me non è arrivato altro, se non adesso leggendo il tuo commento
Ciao! ho letto anche io la tua recensione, inizialmente ammetto in modo un po’distratto, ma poi sempre più intensamente.
Io la vedo un po’come David Lynch: non c’è bisogno di “spiegare” i film perché ogni spettatore ne darà la propria interpretazione. Però in questo caso ho capito, io che non ho letto il libro, per quale misterioso motivo il protagonista durante l’ultima buriana si metta a invocare Dio e la sua presenza manifestata nei fulmini.
In realtà, se ho inteso bene, il protagonista nel libro è una persona tormentata e complessa, anche nel suo lato spirituale, dal film si direbbe soltanto in preda ad una bizzarra e un po’ridicola confusione su quale culto seguire. (anche io come Sebastiano ho fatto fatica a cogliere la metafora della fede).
Quindi ti ringrazio per questi spunti che mi porteranno senz’altro a leggere il libro che mi permetterà di avere un’esperienza più approfondita.
Riguardo al personaggio della fidanzatina iniziale, non potrebbe essere funzionale alla scena del fiore che il ragazzo raccoglie nella foresta? (lei ballando fa un gesto che il ragazzo interpreta come “il fiore di loto che si nasconde nella foresta”)
Non ho letto il libro, ho apprezzato il film nella sua meraviglia e curiosità.
Snello
A me è piaciuto molto il film, forse per quel po’ di cultura classica che mi è rimasta, ho colto l’allegoria e sono rimasta in bilico sulle due realtà, in una verità di mezzo. Di scenografia mi intendo poco e. non avendo ancora letto il libro, non mi sbilancio. Concordo sul fatto che il finale sia un’ overdose, e che, specialmente per i meno attenti, crei confusione e tolga l’aria di lento film d’avventura che criticavano un momento prima… (io l’ho visto con amici.. ed è piaciuto solo a me). La tua recensione ha confermato le mie idee e offerto ulteriori spunti.
letto il libro e visto il film, ma ho comunque un dubbio.
Quale versione scelgono i giapponesi ?
Alla fine del loro rapporto dicono che Pi è sopravvissuto per tantissimi giorni, più di qualunque altro naufrago, e nessuno di essi era in compagnia di una tigre del Bengala.
Avevo capito invece che loro avessero preferito riportare la seconda di storia, ma quella frase finale fa nascere una contraddizione, oppure, successivamente è stata ritrovata la tigre, per cui cambiano idea e optano per la prima versione ?
I giapponesi dovrebbero rappresentare la razionalità, che però è tentata dalla versione più affascinante, anche se apparentemente non razionale.
mi piace l’articolo e le riflessioni sulle metafore, molto interessante tutto.
Vidi il film, mi piacque moltissimo, ma sono intenzionata a comprare il libro sicuramente.
Ma permettimi di dissentire su una cosa sola.
La lettura dell’articolo è piena di argomentazioni che rivelano una persona con una buona cultura, ma quando sono giunta al passaggio della critica del premio alla fotografia sono rimasta molto delusa.
Mi sono occupata in parte anche di grafica al computer, grafica non fotografica ma artistica, e ti posso assicurare che il lavoro fatto in questo film è incommensurabile, e quando leggo che basta mettere uno sfondo e fare gli effettini speciali capisco quanta ignoranza e pregiudizio ci siano ancora su un lavoro che , nelle dovute differenze ed anche sostanziali, non ha niente da invidiare , nè per capacità creativa nè per difficoltà tecnica, alla fotografia classica.
Ho voluto, pur essendo stata una modesta grafica per un periodo, spezzare una lancia a favore della categoria 🙂
Grazie per il tuo commento, mi piace sapere di essere letta da professionisti!
Le difficoltà tecniche del film sono state molte, ma lavorare dentro i pinewood studios e risolvere con luci ipersature e sfondo verde non è proprio come starsene su un set open e sistemare chiaro scuri e menate con comparse e magari in digitale, dove il tuo lavoro rischia di finire annacquato da un filtro post produzione (quello che io ho percepito in Pi).
Ho letto parecchi direttori di fotografia che hanno difeso il premio (alla fine sono loro che votano!) ma credo vada più a meriti grafici, come tu sottolinei. Gli effetti, anche se tanto vivaci e saturi, sono notevoli, ma non sono la fotografia, cavolo.
Quell’anno c’era Roger Deakins per Skyfall. Un lavoro pazzesco, in esterna, fuoco, ghiaccio, acqua. È divino. Guardalo, davvero.
Ciao 🙂 recensione interessante, mi ha dato diversi spunti di riflessione e mi hai sicuramente invogliata a leggere il libro, soprattutto per cercare di fare chiarezza in tutta la questione “religione-fede”. Aggiungo per te e per tutti quelli che si sono chiesti il perché del ruolo della ragazzina danzante:
Nel romanzo non esiste la danzatrice Anandi di cui si innamora il giovane Pi. Il personaggio è nato anche perché Ang Lee voleva inserire nel film la danza tradizionale Bharatanatyam, da lui “scoperta” grazie al documentario di Louis Malle “Phantom India” del 1968.
Ohhh, grazie per l’informazione!
Interessante recensione: condivido in toto la critica al film e all’appiattimento e, oso dire, banalizzazione della storia narrata nel libro, dai personaggi ai significati. Non ho visto (e ho studiato teologia!) tutti i riferimenti biblici a cui accenni nel libro. L’allusione al cannibalismo come segno dell’eucaristia credo sia addirittura fuori bersaglio!
Ho trovato, come evidenzi, bellissimo il climax che arriva all’alternativa finale: “quale delle due storie è la più bella?” Nel libro rimane molto più indecisa la risposta alla domanda (il particolare delle banane galleggianti) rispetto al film e secondo me lì è contenuto il messaggio in favore della fede: la storia “vera” (la cronaca) non si perde forse per strada tanta parte del senso della storia di Pi, che l’altro racconto invece riesce a trasmettere?
I riferimenti biblici sono stati confrontati con le interviste e le dichiarazioni rilasciate negli anni dall’autore, quindi giro a lui il fuori bersaglio.
E’ troppo chiederti un link (di una recensione di 3 anni fa..lo so!)? A questo punto vorrei leggere cosa ne ha detto..
Le recensioni esistono anche per questo: condensare dichiarazioni di parecchie interviste.
Con google e un paio di parole chiavi in inglese però non dovresti fare assolutamente fatica a trovare quello che cerchi.
Grazie!