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Dato il tempo trascorso dall’uscita in sala e la mia spontanea avversione verso Ang Lee, coronata in un quadruplo insulto carpiato durante la cerimonia degli Oscar 2013, ho pensato di prenderla alla larga e di parlare del rapporto tra libro (che vi stra-consiglio) e film (che vi consiglio un po’ meno).

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Il post ha avuto una gestazione parecchio lunga e complicata, quindi preparatevi al wall of text (non per volere usare termini stranieri a tutti i costi, ma papiro secondo me non rendeva l’idea…diciamo che è sicuramente non posso rassicurarvi e dirvi che non è nemmeno un rotolo). Non assicuro nemmeno che non parta l’insulto a un certo punto…voglio dire, è sempre un film di quel piacione di Ang Lee. La prossima volta parlerò di qualcosa che non mi generi l’insulto automatico, promesso.

Occhio, spoiler consistenti da entrambi.

IL LIBRO

Vita di Pi ha reso celebre il suo creatore, Yann Martel, travolto nell’anno della pubblicazione sia dalla vittoria al Man Booker Prize 2002 sia dall’accusa di plagio.

[Lunga parentesi quadra sulla questione: l’accusa nasce da una dichiarazione di Martel di aver preso ispirazione per la storia di un uomo intrappolato su una scialuppa con una fiera dalla trama letta su un giornale di un libro brasiliano. Urla e accuse senza fine, motivate soprattutto dal fatto che l’articolo sul giornale indicato sembra non essere mai apparso. Rimane il fatto che “Max and the Cats” è un titolo tutt’oggi oscuro ai più, con flebili punti di contatto con la complessità di “Vita di Pi”, anche considerando il significato di “plagio” molto ampio adottato nel mondo anglosassone. Dopo aver letto vagonate di materiale sulla vicenda, la mia idea è che ci sia veramente poco su cui avanzare accuse, a differenza di altri casi più celebri quali “Atonement” di Ian McEwan.
Fermo restando che, è crudele, sì, puoi avere l’idea migliore del mondo e fartela rubare e rimanere comunque un oscuro scrittore, perché non scrivi con McEwan o Martel: è quello il discrimine.]

“Vita di Pi” offre una varietà tale di approcci, data la sua ricchezza, che non so nemmeno bene da dove cominciare. Diciamo che, a spanne, possiamo dividerne i contenuti in due grandi nuclei tematici: la storia biografica di Pi e l’allegoria.
Il primo, più semplice e immediato è la storia di Pi Pathel, un ragazzino indiano che dopo un naufragio si ritrova solo su una scialuppa di salvataggio, in mezzo all’oceano, con una tigre di nome Richard Parker come passeggero. Anche questa versione “ufficiale” non rende assolutamente la storia del protagonista, perché trascura il fatto che prima del naufragio c’è più di un centinaio di pagine (a spanne, un 1/4 del libro) dedicato a farci conoscere appieno il protagonista, spiegandone carattere, attitudine, background culturale e religioso (punto fondamentale, ci torneremo poi) e soprattutto cosa perde Pi, nel naufragio: la famiglia, i legami affettivi con i propri parenti e con gli animali.

io e la mia fascinazione per le illustrazioni, di nuovo.

io e la mia fascinazione per le illustrazioni, di nuovo.

Tutto il troncone pre-naufragio infatti è dedicato alla vita di Pi con la sua famiglia nello zoo del padre, circostanza che spiega:
1-la presenza di una tigre a bordo della nave
2-la conoscenza del mondo animale di Pi (e per conoscenza non si intende la piatta esposizione di luoghi comuni sulla vita degli animali, ma una profondissima conoscenza dell’istinto primordiale, delle abitudini e del comportamento di molte specie, tra cui ovviamente primeggia l’analisi della tigre in questione).
Uno dei motivi per cui “Vita di Pi” è un romanzo meritevole è proprio l’approccio che ha sull’intera questione mondo animale, lontano anni luce da quell’etica animalista o giù di lì in stile “gli animali sono migliori di noi, gli animali hanno un sacco di sentimenti”. Pi è profondamente consapevole del fatto che se vuole portare a casa la pelle non dovrà mai commettere lo sbaglio di umanizzare Richard Parker, così come il suo autore, che non molla mai su questo punto. Anche quando Pi disperato vorrebbe che il suo compagno di viaggio si rivelasse mosso da qualcosa in più della loro semplice convivenza forzata, la tigre rimane mossa dall’istinto della tigre, fino a creare una scena straziante come quella dell’addio di Richard Parker.

Altro punto cardine del libro è quello religioso, anche nella storia di base. Pi di fondo è la versione aggiornata dell’indiano che rivela allo sbadato uomo occidentale le meraviglie della spiritualità indiana. Sin da subito Pi si rileva così ammaliato dalle religioni a sua disposizione, induismo, cristianesimo e islamismo, da praticarle in contemporanea, dando vita a una sorta di scontro tra i suoi tre mentori (per me, di gran lunga la parte più impacciata e meno raffinata del libro). A questo rapporto pieno di meraviglia e curiosità verso queste tre concezioni del mondo viene accostata anche una visione atea e scientifica, senza alcun intento moralizzatore, con tanto di “maestro” e fascinazione dell’allievo.

Questo nel preambolo: il punto di svolta è ovviamente il naufragio e il disperato tentativo di Pi di sopravvivere in condizioni sempre più precarie, con il costante memento mori di una quintale e rotti a due passi di distanza. Ovviamente il discorso religioso qui si fa più forte: bloccato solo in mezzo al nulla, in balia dell’indifferenza della natura e del capriccio degli eventi meteorologici, con unica compagnia una tigre che da una parte attenta costantemente alla sua vita, dall’altra sembra l’unica possibilità di Pi di lottare per vivere (attraverso la sua volontà di non farla morire) e mantenere la propria sanità mentale, ovviamente rimane un sacco di tempo per farsi domande su chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando. Ancora una volta, l’approccio non è mai banale e tocca picchi di crudo abbraccio della natura umana. Pi, pur essendo profondamente religioso e profondamente rispettoso degli altri esseri umani, attraversa un soffertissimo spettro di posizioni, dall’autoconvincimento, alla disperazione alla rassegnazione, all’approccio attivo all’arresa alla morte, dal dubbio alla disperazione contro Dio, alla certezza che Dio ci sia o non ci sia, fino alla regressione al nucleo più ferale, andando vicinissimo alla follia. Nel descrivere la natura umana, soprattutto ai limiti della sopravvivenza, Martel non fa più sconti di quando si confronta con il regno animale.
In definitiva, analizzando il libro sulla semplice base di quanto avviene esplicitamente al suo interno è un buon libro, che mi sentirei sicuramente di consigliare. Partendo da un personaggio piuttosto prevedibile (un ragazzino indiano che ama gli animali, è rispettoso della famiglia che in età adulta scommette con uno scrittore occidentale in cerca di sé di potergli regalare una storia che gli farà credere in Dio) Pi esprime opinioni spesso molto lontane dalle posizioni comuni, squisitamente articolate, così come l’intera ricerca riguardante il mondo animale, i dettagli della nautica e della sopravvivenza in mare aperto.

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Il problema è che è estremamente difficile ignorare i livelli successivi, quelli giusto un po’ meno espliciti, che vengono palesati nelle ultime 30-40 pagine del libro. Succede, ma la cosa mi lascia un po’ stordita.
Il lettore più smaliziato noterà con facilità che alternato all’estremo realismo della situazione fisica in cui si trova Pi, molti frangenti si prestano facilmente a una lettura biblica (immagino ce ne siano molti legati ad induismo e islamismo, ma purtroppo non ne ho così ampia conoscenza da coglierne se non qualche vaghissimo riferimento). L’accostamento di Pi a figure bibliche, per esempio. Il rapporto con il fratello rimanda chiaramente al tradimento di Caino e Abele. Molti i punti di contatto con la figura stessa di Gesù. Questo senso di “significato altro” nascosto da qualche parte cresce man mano che la storia procede, coronando nell’arrivo all’Isola da parte di un Pi vicino alla morte, dopo un incontro con un sopravvissuto francese dai contorni parecchio macabri (cannibalismo, intendo. Ehi, cibarsi del corpo, dove ho già sentito quest’espressione?).

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Un’isola, dicevo. Un’isola formata da un intricato groviglio di alberi, in mezzo al mare, abitata da migliaia e migliaia di suricati inconsapevoli del pericolo di vivere lì sopra, dato che l’isola si sostenta avvelenando qualsiasi cosa giaccia sulla sua superficie inferiore al calare della notte e “corrodendola”.
Al centro dell’isola c’è un albero, l’unico con dei misteriosi frutti. Pi ne apre uno e vi scopre un dente umano; a lui ora la decisione. Rimanere per sempre sull’isola lontano dagli affanni del mare aperto, consapevole che finirà prima o poi risucchiato dalla stessa, o tornare in mare, scampando questa mera attesa della morte ma rischiando di soffrire. A questo punto il parallelo con l’Eden e l’albero della conoscenza è piuttosto chiaro, così come i lemuri che rappresentano un popolo di “ignari” che vive nel suo tran tran quotidiano, senza porsi domande, accettandone la realtà.
Fin qui però sono paralleli, metafore, sparse a decine tra le pagine del libro. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che Pi è tutto tranne un narratore attendibile, in quanto la sua storia viene mediata da una lunga serie di passaggi. La storia del giovane Pi viene narrata dal Pi ormai adulto a uno scrittore in cerca di una storia, con qua e là degli interventi che sembrano opera più dello stesso Martel che del narratore fittizio.

Quando Pi viene tratto in salvo e Richard Parker scompare nella foresta, comincia l’ultima parte del libro. Qui Pi fornisce una seconda versione “più realistica” a due giapponesi venuti a indagare sul naufragio della nave e sconcertati dal racconto di Pi e dalla mancanza di prove (Richard Parker non c’è, nessuno sa dell’Isola e via dicendo). Pi allora propone di raccontare una seconda versione della storia e lascia ai giapponesi la scelta di decidere quale trasmettere in via ufficiale. Qui la prima storia viene smontata come una versione metaforica: la tigre non è altri che un Pi costretto sulla barca con altre persone (che nella storia iniziale erano animali sopravvissuti all’incidente) e, privato della madre da un cuoco francese che la uccide dopo aver eliminato e mangiato un naufrago ferito, lo uccide a sua volta e, per sopravvivere, se ne ciba. La storia risulta coerente in ogni suo punto esattamente come la prima; Pi chiede alle persone di scegliere quale preferiscono, così come fa Martel.

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Insomma, solo finendo tutto il libro sarà chiara la sua vera portata, quella di una gigantesca allegoria. Alla fine, non si tratta di un libro che co-esiste splendidamente su più livelli: quello della mera storia del naufragio E quello che parla al lettore non di religione, ma del suo rapporto con la religione. Al momento di credere in una versione, propenderete per la prima suggestiva e possibilista, coronata dalla speranza ma talvolta poco coerente o per la sua versione disadorna, realistica ma mortalmente disperante? Insomma, preferite abbracciare una visione del mondo divina con le sue incoerenze o una sterilizzata da ogni intervento extra-umano ma più brutale e angosciante?
Il classico caso in cui una rilettura successiva permette di abbracciare la vera grandezza della storia, un naufragio della fede di un credente, che in una condizione disperata si ritrova faccia a faccia con la sua parte più primordiale, capace di cose terribili per garantirsi la sopravvivenza, rappresentata dalla presenza di Richard Parker. Sulla sempre più stretta scialuppa della sua fede, Pi naviga per i continui timori e le disperazioni verso un Dio che lo lascia in balia di una natura ora benevola ora brutale con le sue tempeste e i suoi pericoli, brutale perché completamente indifferente. L’isola sembra un rifugio sicuro, ma è solo un’attesa della morte incurante, senza un vero scopo, sospesa in una routine quotidiana senza senso. Tornato a lottare nell’incertezza della fede, Pi è salvo, ma la tigre, la sua natura più brutale, lo abbandona, ora che nella societa umana non è più costretto a scelte drammatiche per sopravvivere. In realtà quella parte “malvagia” (anche se la connotazione morale non c’entra) viene solo ridotta dalla società: la figlia di Pi ha un gattone arancione. Quella parte in grado di compiere atti tremendi per sopravvivere è sempre presente.
In questa chiave, nelle sue infinite sfumature interpretative ma soprattutto nel parlare al lettore della sua stessa natura facendogliela conoscere mentre pensa di giudicare l’operato di un altro, può far scomodare parole da usare con cautela. Capolavoro? A giudicare da come la recezione del “vero senso della storia” cambi da persona a persona, mi sento di poter lasciare aleggiare quel termine.

Vita di Pi di Yann Martel, Pickwick, 2013, 336 pp., 9,90 euro.

IL FILM

Il best-seller di Martel e la sua fama (e la sua “oscarabilità”) facevano evidentemente gola agli studios, ma l’impresa era tanto ardua e rischiosa (anche se poi coronata da un successone planetario) che si parlava di “libro impossibile da trasporre al cinema”. Come la storia insegna, tutti i libri sono inadattabili finché qualcuno non smentisce l’assunto alla prova dei fatti.

 

Il punto è cosa sia impossibile da trasporre e in base alla vostra risposta è facile indovinare se l’opera di Ang Lee vi sia piaciuta o meno. Vi dico subito che non l’ho trovato brutto in toto, anzi, ho apprezzato molto alcune scelte e in generale non mi è dispiaciuto (molto meno di altre pellicole del regista), tuttavia per me manca completamente il punto.
La difficoltà di “Vita di Pi” per molti sta nella situazione parecchio statica di gran parte della storia, dell’unico protagonista in scena, della tigre (cosa che si è ovviamente risolta con la computer grafica, senza nemmeno un Andy Serkin) delle scene al limite con il meraviglioso e delle conseguenti difficoltà di realizzazione tecnica. Punto.
Ammetto che non sia cosa per tutti, ma in un mondo in cui con la grafica computerizzata puoi far più o meno tutto e due decenni dopo “Titanic”, non è che mi sembra tutto questo insormontabile problema prendere un green screen, girarci il film e realizzarci sopra il resto. Per questo motivo mi fa *incazzare* il premio alla fotografia, perché nella mia mente è più difficile gestire luci, ombre, filtri e cromatismi in un ambiente reale (con una villa che va in fiamme, cof cof) che non partendo da qui, creando i fondali e poi schiaffandoci sopra le luci. Infatti non è possibile trovare 2 fotogrammi della stessa scena con la stessa palette cromatica, perché una volta creata artificialmente, il ritocco è un attimo. Andate su Google Images e ditemi che sbaglio. Poi magari è solo un mio punto di vista ma ehi, è il mio blog (no, in realtà sto ancora cercando il parere di una fonte autorevole sull’argomento).

Life Of Pi

Tornando al film, io credo che il punto di difficoltà non sia quello, dato che qualche anno fa è nato una sorta di filone con interi film di gente bloccata in mezzo all’oceano, sotto terra, sulle seggiovie…quel genere di film in cui te la devi giocare bene (e che sono alimento per ogni fobia che uno non aveva mai pensato di avere). Se ce la fanno misconosciuti registi di film indipendenti, un primo della classe come Ang Lee non dovrebbe poi avere troppi problemi.
Per me il problema principale sta nell’allegoria, che è il vero valore aggiunto nel film. Se al lettore si può chiedere uno sforzo interpretativo in più data la quantità ragguardevole di particolari forniti, al cinema la partita è più complicata, spesso giocata esclusivamente sul piano visivo. Se sulla carta la scelta di Ang Lee era tra le più quotate proprio per la sua abilità di creare queste scene immaginifiche, meravigliose, sognanti, nella pratica vanifica ogni tentativo allegorico. Semplicemente perché, per il tipo di cinematografia che ha alle spalle, se vedi un isola di lemuri, una balena che “salva” Pi in un mare pieno di pesci fosforescenti e tutto il corredo di immagini meno collegate alla realtà (quelle che fanno partire l’allarme sottotesto), pensi “ah, guarda la sensibilità artistica di Ang Lee, che genio dell’immaginario magico”.

La sceneggiatura poi non aiuta, appiattendo i lati più controversi di Pi e (punto che mi ha infastidito notevolmente) ficcando nella prima parte tutta una storia d’amore con una ragazzina del tutto inedita, che apparentemente non ha alcuno scopo (non è che alla fine, chessò, è la moglie e allora si incede nel buonismo di lui che la ritrova dopo il naufragio, manco quello! Che senso ha?).
Opinione piuttosto impopolare, trovo che nemmeno l’interpretazione di Suraj Sharma sia d’aiuto. Si tratta di un’interpretazione basilare, sì, rende l’idea delle sue sofferenze da naufrago, ma non rimanda all’estrema complessità, al’articolatissima psicologia e al conflitto interiore del protagonista. Tutto questo lo fa invece il dimenticatissimo Irrfan Khan, che in pochissime scene rende alla perfezione quella giocosa ambiguità di Pi, che cela la ritrovata felicità ma la continua coscienza del suo tormento interiore. Siccome poi son tutti qui a dire quanto è bravo Ang Lee che sceglie attori dell’etnia adatta, vorrei segnalare il paraculismo assoluto di scegliere Gerard Depardieu per fare il cuoco francese burbero e Irrfan Khan per fare l’indiano saggio, banalità a galloni!

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Per farla breve, ancorato com’è al racconto biografico di Pi, il film quando nella conclusione rivela la seconda versione e vira più decisamente sul religioso, sembra sgraziato e completamente fuori contesto. Perciò, “Vita di Pi” rimane un buon film di Ang Lee basato sulla parte “bella e basta così” del libro, che manca completamente di adattare il lato meno evidente del libro, non sfruttando quindi il potenziale veramente dirompente della fonte di partenza. Però oh, che scene meravigliose eh, questo Ang Lee, altro che i registi occidentali!
Se ripenso all’Oscar 2012 come miglior regia, mi sento male.

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