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Tra pochi giorni sarà disponibile anche nelle librerie italiane il secondo capitolo della saga fantasy A Land Fit For Heroes, prima incursione di Richard K. Morgan nel genere dopo un passato marcatamente fantascientifico.
Come ricorderete, il primo libro della fin qui supposta trilogia, The Steel Remains, mi aveva assolutamente esaltato, pur riconoscendone i limiti e i difetti. Per chi si fosse perso il primo capitolo, rimando a qui, qui, qui e qui (l’avevo detto, “assolutamente esaltato”).
Come al solito, il commento procede per diversi gradi di analisi e spoiler, perciò aprite il cut tranquilli, vi verrà segnalato quando le anticipazioni su trama e personaggi saranno consistenti.

Adesso che ci troviamo nel caldo abbraccio del cut, posso dismettere il tono professionale e riprendere il mio tono tendente allo sfaso. Il punto è: c’è ancora da sfasare ed esaltarsi, in questo secondo tomo, o Morgan si perde per strada?

Cominciamo subito da un paio di premesse fondamentali, che equivalgono all’incirca anche ai maggiori punti a sfavore del libro:

  1. The Cold Commands è un seguito, un capitolo secondo, nel senso più stretto del termine. 
    Già in molti lamentavano di venire letteralmente catapultati ad inizio saga nell’universo di Ringil e soci in maniera spiccia, senza preamboli o spiegone introduttivo di sorta. “The Cold Commands” segue una macrostruttura pressoché identica al suo predecessore, utilizzando nel suo incipit un punto di vista (POV da qui in poi, contrazione di Point of View) inedito e lasciandoci da subito capire che dovremo indovinare cosa sia successo nei mesi trascorsi dalla precedente conclusione. Non c’è il benché minimo sforzo di riprendere e riassumere quanto avvenuto nel primo tomo, né per quanto riguarda i protagonisti né per quanto riguarda le principali direttive del mondo in cui si muovono e dei suoi antefatti guerrafondai. È impossibile cominciare la saga dal secondo volume. Se non avete letto “The Steel Remains”, desistete. Avete i numerosi post qui e altrove dedicati al primo volume, fatevi un’idea e cominciate da lì. 
    Per chi invece il primo volume l’ha letto, vi avviso: vi verrà richiesta un’ottima conoscenza/memoria di quanto accaduto, soprattutto per quanto concerne i livelli “superiori” a quelli delle beghe tra Impero e città della Lega in cui sono invischiati i nostri protagonisti. L’ideale sarebbe poter leggere i due libri a stretto giro, perché è bene ricordarsi molto dettagliatamente tutte le diatribe riguardanti i Kiriath e il loro scontro con Dwenda, e ancor di più gli interventi nel mondo di Takovash e degli Sky Dwellers e il loro rapporto ambiguo e contraddittorio rispetto alle mosse del Dark Court. 
    Io stessa mi sono ritrovata a rileggere certi punti del primo libro o a consultarmi con chi lo aveva letto perché certe svolte narrative sono diretta conseguenza di quanto accaduto lì e non in questo volume. 
  2. The Cold Commands è il fratello gemello di The Steel Remains. 
    Il vostro giudizio su questo libro dipende in larga parte dal vostro grado di apprezzamento per il precedente. Se vi era piaciuto, ve lo consiglio senza indugi, ma non cercate la redenzione del primo volume nel secondo se per qualche motivo non vi era più che piaciuto.

    dragon tooth dagger ringil

    Io me lo facevo meno chic, il dragon tooth dagger.

Sbrigata la questione della scrematura preliminare e rimasti solo noi fattoni delle prodezze di Ringil, veniamo ai contenuti di The Cold Commands (TCC). Segue breve sunto della trama con lievi spoiler, manco lontanamente pericolosi come una qualsiasi quarta copertina italiana.

Come già accennato, la struttura del libro è identica, quindi dopo un paio di capitoli introduttivi seguiamo l’arco narrativo di Ringil Eskiath alternato a un capitolo dedicato a Egar e uno ad Arceth. I tre si ritrovano in luoghi diversi e perseguitati da fantasmi del loro passato di natura differente, ma è abbastanza intuibile che presto si riuniranno.

Il focus principale rimane su Ringil, stavolta di una parabola discendente e distruttiva. La cicatrice non è l’unica testimonianza del suo ritorno dall’incubo dei Grey Places; il suo aspetto, l’aggravarsi delle sue scelte distruttive (ora volte a sovverchiare la fiorente attività schiavista tra Lega e Impero) e ancor di più il non superamento della tragica conclusione del suo rapporto con Seethlaw. Infatti Ringil continua a recarsi nei Grey Places, alla ricerca di una delle ombre possibili di Seethlaw. Il suo percorso narrativo è di fondo un lunghissimo vagabondare senza meta e risoluzione emotiva, fino a quanto l’intervento diretto di varie divinità, di oscure profezie e di alcuni nuovi personaggi (Hjel e Rakan su tutti) lo portano nella fase finale a raggiungere un nuovo status, il superamento definitivo sia dell’eroe non riconosciuto sia della pedina minore nei giochi tra dwenda e istituzioni umane. Soprattutto, si sblocca finalmente quel circolo di profezie cominciato con l’incontro con la chiromante nel primo libro e ribadito dai merroigai secondo cui Ringil ha un potenziale enorme da usare, nel momento in cui saprà riconoscerlo e accettare ciò che comporta.

Stavolta le vicende dei suoi compagni d’armi sono molto più che accessorie, soprattutto per quanto concerne Egar. Se all’inizio è legato al crescente senso di insofferenza verso il tangibile avanzare della vecchiaia e l’altrettanto palpabile distacco dal mondo tribale (per cause ben più soffuse e complesse da quelle che lo hanno portato a fuggire dalla steppa), seguendo uno sviluppo molto volto all’azione si ritrova di fatto a compiere lo stesso percorso di Ringil nello scorso libro. Arriva quindi a intuire quanto il Dragonbane ormai sia un’attribuzione che appartiene al mito e che non racconta chi lui sia più del suo aspetto ibrido tra Majak e rasato mercenario di Trelayne. Il parallelo con Ringil è estremamente importante, perché il rapporto tra i due è il punto focale degli ultimi, concitatissimi capitoli.

Archeth invece gode invece dello sviluppo più equilibrato e appena sbavato dalla scarsa attenzione sul finale, dove invece gli altri due personaggi calano gli assi nella manica. Il merito è essenzialmente della continua contrapposizione con un ben più che marginale Jhiral che, se già avevo molto apprezzato in TSR, qui ho adorato. L’imperatore ossessionato da attentati e complotti, crudele, ninfomane, infantile ma anche astuto, provocatorio e consapevole della disfatta del suo impero costituisce il contraltare perfetto per l’ultima Kiriath. Archidi è divisa in un drammatico conflitto tra l’ipocrisia generata dal compito lasciatole dal padre e il legame con il mondo degli uomini, un misto di speranza e alla superstizione ereditate dalla madre. L’introduzione di un terzo, ambiguissimo helmsmen e i flashback sulla difficile unione dei suoi genitori permettono di comprendere così a fondo l’esule e superstite tanto da non farla scomparire quando contrapposta a Ringil, che a differenza nostra sembra cogliere solo gli strati più superficiali di questo conflitto interiore, simboleggiato dalla tentazione del corpo di Ishgrim e dall’astinenza autoindotta di krizanz.

Se siete rimasti affascinati dal primo volume, vi consiglio senza indugio di recuperare anche il secondo, disponibile dal 16 marzo nelle librerie italiane con il titolo di “Esclusi”, sempre edito dalla Gargoyle Books (più info qui). Sinceramente preferivo il primo titolo comparso sul sito e poi abbandonato in favore di questo, più sulla falsa riga del precedente “Sopravvissuti”.
“Ordini spietati” non solo suonava meglio, non solo aveva una certa risonanza con l’originale inglese, ma soprattutto evocava un nucleo di difficili scelte tra coscienza e senso del dovere verso ciò in cui credono che spettano ai tre protagonisti.

Detto questo e appurato che continuo a consigliarvi Richard Morgan (con o senza K puntata), TCC è meglio o peggio del suo predecessore? 
Questa è la domanda che temo di più e la risposta comprende qualche spoiler più consistente.

grazie a questa cover, con un minimo di sforzo quella italiana non rischia di sfigurare. E contate che io adoro le illustrazioni.

La verità è che a questo proposito non ho preso nemmeno io una decisione ben precisa. Sul fronte dei punti deboli, TCC contiene gli stessi esatti passi falsi del suo predecessore.
Preparatevi già a una lunga parte centrale (dal capitolo 11 al capitolo 27) con Ringil che vagabonda nei Grey Places che metterà a dura prova la vostra pazienza e la vostra fiducia. Sì, tipo che sentirete crescere in voi il dubbio che Morgan si sia veramente perso per strada, però avete già qualcuno che ci è passato e può dirvi “lo so, è dura, non arrenderti”.
Non so se in italiano si mantenga la stessa percezione, ma la qualità narrativa inglese nei capitoli grey-places-centrici sembra veramente il racconto di qualcuno sospeso tra allucinazione e realtà, inconsapevole della distinzione tra le due. Se la prosa è oggettivamente più ardua nel primo volume, nei capitoli di TCC dedicati a Ringil si continua a non essere mai pienamente consapevoli di cosa stia veramente facendo e dicendo il protagonista, il che può anche essere frustrante, specie se mezze frasi smozzicate nel pieno di allucinazioni diventano poi fondamentali per capire il senso del finale. Insomma, la parte centrale sembra sfilacciarsi (non è così) ed essere dispersiva (lo è): confrontando la mole dei due libri, questa sezione centrale meno focalizzata è leggermente più estesa e più scoraggiante del passato.
Se chiedete a me, ho deciso che ciò è dovuto al fatto che lo scrittore vi si è dedicato nei fine settimana, in un periodo così stressante come quello successivo alla nascita di un figlio, come ha detto sul suo blog. Non mi stupirei però se ci fosse dietro anche del sadismo nel nascondere rivelazioni e colpi di scena sotto il naso del lettore, annacquandoli in 50 pagine di deliri mentali del protagonista.

Parlando di finale (dal capitolo 28 al 45), è comunque un po’ affrettato, o meglio, il contrasto netto di questo terzo blocco narrativo rispetto al precedente è fortissimo. Il lettore dopo centinaia di pagine in cui vagava senza apparente meta viene catapultato  in un rapidissimo succedersi di rivelazioni, colpi di scena, tradimenti, uccisioni e vera e propria battaglia ad un ritmo da tachicardia, con un crescendo veramente efficace. Solo, dopo tanti capitoli dilatati, il contrasto è veramente forte, è come ricevere un pugno in pieno volto. La conclusione è sicuramente meglio riuscita che in “The Steel Remains” (non che ci volesse molto); le vicende si susseguono velocemente, sì, ma non sono incoerenti, vengono descritte con la dovuta attenzione e soprattutto fanno rivalutare parte del blocco precedente sotto la nuova luce della consapevolezza.
Leggendo un po’ di commenti in giro, appare chiaro che giunti a quel punto, è un vero è proprio page turner, efficace termine inglese che sintetizza quella capacità ipnotica di certi libri di continuare a farti girare pagina dopo pagina, impossibilitato a smettere prima di arrivare alla fine e chiudere il libro. Ho avuto la sfortuna di arrivare alla prima di una lunga serie di rivelazioni in treno, prorompendo in un “ma vaffanculo Richard!” in un vagone pieno di gente.
La verità è probabilmente vi fregherà così come ha fatto con me, mettendo tutte le tessere in bella vista e poi limitandosi a spingere il primo domino contro il secondo, lasciandovi lì ad osservarli cadere uno dopo l’altro, fino all’ultima pagina, fino alle 3 di mattina. Il mio consiglio è di arrivare nei pressi del capitolo 28 nel primo pomeriggio di una giornata senza troppi impegni…la tirata corredata di continui “noooooo!” “ahhhhh!” “mavvaiaquelpaeserichardtiodiooooo!” è impagabile.

Se i primi due punti si bilanciano perfettamente (TSR ha un finale peggiore ma si perde di meno nel mezzo e viceversa), The Steel Remains vince anche sul fronte della coesione. Non perché TCC sia troppo dispersivo, ma la sua natura di “secondo volume di” lo rende una storia senza un inizio e una fine così netti, bensì un lungo tratto di strada volto ad unire il prologo con il gran finale.
Questo tratto però è più che ben fatto, il che dovrebbe favorire la creazione di un fantasmagorico terzo libro della trilogia, perché se fino ad ora ho sottolineato con dovizia di particolari i suoi limiti, ci tengono a mettere in chiaro un concetto: The Cold Commands è un ottimo corpo di trilogia, che risolve i problemi ereditati dal suo prologo e consegna al colpo di coda finale una vicenda evoluta, finalmente coerente, con delle zone volutamente rimaste più nell’ombra, un numero sufficiente di presagi per cominciare a indovinare qualcosa e una riflessione sulle sue tematiche cardine ormai in fase avanzata.
La speranza è che, liberato dal bisogno di porre i presagi e i paletti per l’ultima svolta, l’imminente The Dark Defiles sappia essere all’altezza di quest’eredità e mantenere il lettore col fiato sospeso dal principio, dando risposta ad ogni interrogativo sapientemente seminato in precedenza.

Qui concludo l’introduzione, il commento meno approfondito e il generale invito alla lettura di The Cold Commands, di cui vi lascio il suggestivo book trailer, anche se, sinceramente? Frasi a caso.

Il modello che interpreta Ringil però vale la visione, soprattutto se chi ve lo consiglia vi linka il making of in cui si vede la realizzazione del trailer, in cui si scopre il nome del bel tipo.

Da qui in poi parte la vera e propria analisi/sfaso per chi il libro lo ha letto, quindi attenzione ai consistenti spoiler, anche visivi, perché accludo le non esaltanti ma quantomeno interessanti illustrazioni prese dal blog di Vincent Chong, che si è occupato di realizzare la copertina che vi ho riportato qui sopra. Occhio.

Waaaaaahhhhhh, ma quanto è esaltante la parte finale di TCC, quanto? Ci ho fatto veramente mattina leggendola e poi fissando il vuoto dopo averla finita.
Ammetto che anche questa volta, come direbbe Ringil, Richard mi ha proprio fottuto in pieno…e dire che non mancavo di ribadire quanto Quilien non la raccontasse giusta, lei e i suoi tentativi di seduzione di Gil (e i pensieri del nostro durante le sue avances, che sono da antologia).
A parte i colpi di scena e la concitazione finale, ho apprezzato moltissimo (più a fine lettura che durante) che Morgan abbia un po’ abbandonato la frenesia e l’ardore narrativo del cosa succede per spiegarci il come. Non che il libro non sia ancora vigoroso, potente, senza compromessi e molto violento; semplicemente a questo tono non vengono sacrificate le tematiche più simboliche.
Insomma, meno parolacce e meno scene grafiche, perché l’impatto più forte è affidato alla reazione verso le grandi tematiche: religiose, gender-based, sociali.

Impossibile non notare come la religione, da elemento usato a mo’ di clava per opprimere e impalare nel primo libro, qui sia sottoposta ad un’analisi più sfaccettata e meno oltranzista, pur esplorando un punto di vista nettissimo. Così accanto alle purghe della Citadel ci sono anche la nostalgia di Egar, che sente nella conversione ai nuovi Dei dei giovani Majak la fine dell’identità culturale del suo popolo e della sua giovinezza. Non è più lui a fare d’avanguardia recandosi a Trelayne e disprezzando l’arretratezza culturale delle sue origini, anzi, il suo è un essere sospeso tra due mondi ibridandosi in un prodotto finale lontanissimo dai nuovi mercenari majak, che aderiscono non solo ai riti e alle opportunità della città, ma anche al suo modo di pensare.

Anche Galat incarna una visione positiva della Rivelazione, meno violenta ed assolutistica; sono i giochi di potere che Menkarak, Jhiral e la Citadel hanno giocato negli anni ad aver spinto quest’ultima a scegliere la linea purista, in attesa del momento ideale per prendere il controllo della sfera non religiosa. Il crollo dell’edificio portante della Rivelazione e l’ingenuità dimostrata dal suo capo testimoniano come anche delle pallide visioni, se incastonate in un rituale oppressivo e totalizzante sulla vita del fedele, possano portare profondi cambiamenti (negativi) nella società.
Eppure anche chi rigetta del tutto la sfera religiosa finisce per scontrarvisi dolorosamente: Ringil, costretto a chiedere l’aiuto di dei di cui non si sente debitore e il padre di Archeth, attratto dalla moglie ma respinto dalla sua fede nella magia e negli spiriti, per lui perfettamente spiegabili come prodigi della tecnologia.
La loro figlia, Archeth, è la sintesi perfetta di questo mondo; una base razionale e solidamente tecnologica con una sorta di speranzosa fiducia nel sovrannaturale e sovrarazionale, negli incantesimi e negli interventi divini. Non è chiaro dove stia il confine, perché a seconda delle prospettive si tratta di stregoneria o di cold commands, di entità legate a universi paralleli o untold possibilities, di divinità che giocano con destini degli uomini, confuse e sfumate in una folla di razze aliene che tenta di fare lo stesso; chi si avvale veramente della magia e chi solo della propria superiorità genetica o tecnologica? Difficile stabilire dove finisca il tecnologico (il fantascientifico?) nel mondo di Ringil e dove cominci il magico (il fantasy) se alla fine anche i dwenda sono mossi da consuetudini e riti di un lontanissimo passato, che si perde nella leggenda e nei loro ricordi, irrimediabilmente compromessi dalla natura beffarda dei Grey Places.

the cold commands the creature

Ancor più che nel primo volume, non bisogna faticare per trovare tracce della manipolazione dei corpi e della loro immagine, specie per il genere femminile. Così Imrana fa di sè un’arma, tentando di preservare un aspetto fisico che le consente non di fidarsi, ma per lo meno di appoggiarsi ai suoi alleati a corte, malleando il suo corpo (rendendo i suoi tratti meno duri e mascolini) e preservandolo da declino del tempo perché solo conformandosi a quello che ci si aspetta da una donna di corte può usufruire dei benefici della sua posizione.
Archidi invece è incastrata in un complesso rapporti di poteri, ruoli psicologici e ricatti morali con l’imperatore; lei ha visto crescerne i predecessori, ne è stata guardiana e sorella maggiore, eppure il suo ruolo le impone di esservi sottomessa, di sottostare ai giochi di potere di Jhiral, sempre pronto a usare il suo essere donna (e lesbica) per metterla in difficoltà e spingerla ad esporre i suoi veri sentimenti, le sue vere propensioni. Il gioco del gatto col topo s’interrompe con slanci improvvisi di calcolato riguardo imperiale o sincero desiderio e paura per le coseguenze del semplice toccare una Kiriath? Pur essendo scomparso il padre, Archeth è comunque incrastata nel ruolo di figlia obbediente, costretta ad assistere un desposta che la ripugna ma per cui prova anche comprensione e compassione.
La sua soddisfazione sessuale è poi frenata dalle convenzioni morali di cui è portatrice la sua razza e il libro è per lei un lungo cammino di contegno e rinuncia, fino alla liberazione, che equivale a una creazione del suo tallone d’Achille, del suo punto debole, umano.

Se posso spendere un’altra efficace definizione inglese, quello che rende veramente unica l’esperienza di TCC (specie se come me avete la fortuna di leggerlo e commentarlo con qualcuno) è il suo essere totalmente e profondamente character-driven. Non saprà equilibrare il ritmo o concludere efficacemente i suoi tomi, ma Richard K. Morgan sa costruire eccome le sue pedine, sbozzarle dalla marea di stereotipi da cui le fa nascere, renderle tanto uniche che, quando il ritmo latita, si continua a leggere perché si vuol sapere sempre qualcosa in più su di loro.
TCC in questo senso ha due meriti: inserisce nuove figure interessanti e che non si esauriscono nell’arco del singolo tomo e allarga la scala dell’interazione.
Mi spiego: lo sfondo è sempre quello di un mondo da millenni sospeso tra guerre, tregue e attesa della battaglia successiva. Il punto è che se nel primo tomo l’attenzione è sul livello più terreno, qui in più di un frangente si sottolinea come Gil e i suoi siano in un certo senso costretti nel loro percorso, perché fanno parte di un gioco ben più complesso, mosso dai dwenda e dai kiriath, alle cui spalle e al fianco intervengono assai ambiguamente intere schiere di dei.

L’apporto degli dei induce a più riflessioni, affascinante e irritante al tempo stesso; il lupo e il sale nel vento sono sempre lì, a un passo da Ringil e Egar. Di fondo, è dall’inizio che gli dei intervengono, ma a quale scopo? Come interpretare il loro gioco, se prima fanno di tutto per portare Gil nelle mani di Risgillen per essere torturato e distrutto (e la scena in cui il dwenda gli mangia la faccia, beh, compensa tutta la quota parte di brutalità che sembrava mancare) ma poi occultano il suo presunto passaggio del Dark Gate, consegnandogli la vittoria e i Cold Command? E il passaggio c’è stato, Gil ha pagato, ha veramente i Cold Command a suo servizio?

Impossibile capirlo, perché come Gil stesso spiega, è impossibile tentare anche solo di capire fini e scopi di creature ben oltre la portata umana. Così come Anasharal, la cui ambiguità le fa meritare un paragrafo a se stante. Artefatto kiriath eppure di cui lo stesso Angfal non si fida (rivelando poi le costrizioni e le predilezioni spiccatamente umanoidi degli stessi helmsmen, oltre al loro irritante modo di fare), aliena tra Kiriath così come Archidi tra i purosangue. Da dove viene e soprattutto, qual è la sua vera missione? È interessata alla distruzione o al risveglio del Dark Lord (che ovviamente, essendo indiscutibilmente legato a Ringil in qualche modo, non ci viene detto come si chiama, ma sappiamo già che aveva un amante maschio XD)? Difficile capirci qualcosa, ma i suoi dialoghi con Jhirail, Archidi e Gil permettono la costruzione all’interno della profezia della chiromante di un intero capitolo mitologico senza farne percepire la brusca apparizione (isole che scompaiono, Kiriath superstiti, Dark Lord in attesa del bacio del risveglio) In più con il ticchettio di un suo arto o una sua risposta evasiva restituiscono un carattere mille volte più sottile e sfaccettato di tanti personaggi in carne e ossa. C’è gente che venderebbe l’anima al diavolo per riuscire a creare un personaggio così, mentre Morgan può permettersi di piazzarlo tra i comprimari.

Nel campo Dark Lord e affini, bisogna per forza citare i contraltari amorosi e caratteriali di Ringil. Hjel bisognerebbe apprezzarlo solo per il suo ruolo risolutore ed esplificativo, eppure il suo rapporto con Gil (una volta pienamente compreso, è quella la parte difficile!) gode di una simmetria sorprendente e suggestiva. Di fatto, Hjel è Gil nobile senza il suo lato guerriero e primitivo, il lato che sta prendendo il sopravvento su di lui. Non solo, Gil lo conosce nei Grey Places, un’ombra che seduce Gil rivelandogli che in quella versione di untold possibilities lo ha già amato, mentre poco dopo Ringil stesso ricambia il favore al vero Hjel, quello che ancora non gli ha aperto il suo cuore e i segreti dell’ikinri ‘ska.
Rakan al momento è più un trastullo da fangirl che altro, eccettuato per il potenziale che ha in divenire. Rakan non sembra avere le qualità per trasformare la sua affezione emotiva, non solo fisica, verso Ringil in un punto debole come Ishgrim diviene per Archeth. Ringil è parecchio preso dagli eventi, appena consapevole che Rakan non sguscia via dal suo letto come tutti i suoi predecessori. Quello che invece non sfugge a me è che Rakan è un po’ il Neville Paciock della situazione: con i suoi natali, il suo addestramento all’accademia, la sua inclinazione sessuale e la sua presenza nella spedizione verso nord delle Ironish Isles, si mimetizza perfettamente come successore/amante/fattore risvegliante/incarnazione del Dark Lord.
Il parallelo tra Ringil e l’oscuro signore (suona malissimo, lo so) è così marcato e forte che se non fosse per la mia predisposizione al ricamare sulle untold possibilities del terzo volume, per dirla così, mi sarebbe sfuggita questa traccia sottile.
La verità è che io mi sono già prefigurata tutto uno possibile sviluppo basato su profezie e voli pindarici miei…se ve ne fossero di vostri, sarei curiosa di sapere quale ruolo pensiate che Rakan possa ricoprire.

I gusti in fatto di architettura paesaggistica dei dwenda lasciano un po’ a desiderare.

Sospetto di poter fare nomi, cognomi e nickname di chi avrà protratto la sua lettura fino a questo estremo confine, perciò a voi riservo il mio sfaso fangirlistico, ovviamente a tema Egar.
Innanzitutto vorrei ritirare parte dei miei insulti a chi ha curato la copertina inglese, perché che ci sia il pugnale intagliato da Egar e donato a Ringil è forse la miglior sintesi di tutto il libro. Libro in cui il machissimo ed eterissimo Egar non fa che pensare alla sua amata checca (perenne dubbio di traduzione: l’utilizzo di faggot con questa connotazione quasi affettuosa, sarà meglio reso con checca, ricchione o altro? Prego chi lo leggerà in italiano di farmi sapere come verrà risolta la questione) in stile “sei io mio BFF, quanto mi manchi mio più caro amico”. E già qui, anche se vorrei chiarire che NON shippo i due personaggi.
Quello che mi fa davvero emettere mugugni di approvazione è il sottile dubbio via via più rimarcato che, tolto di mezzo Seethlaw, la persona più importante per Ringil, quella con cui attirarlo in una trappola mortale (possiamo dire “quella che ama”? Forse no, ma già questo dubbio è elettrizzante) sia proprio il suo vecchio, rozzissimo amico delle steppe. Cioè, ci dispiace tanto Rakan, ma tant’è, il piano di Risgillen era basato sulla volontà di far soffrire atrocemente Ringil sapendo il dolore che la morte di Egar per il suo fallimento gli avrebbe procurato. Non di Archidi, non di Rakan, di Egar.
Il che introduce l’ennesimo perculamento al genere fantasy classico, forse più sottile che in passato, ma che mi fa ghignare da quando ho chiuso il libro. Alla fine, è Egar, il letale mercenario delle steppe del nord, la principessa da salvare, la damsel in distress, la Peach, la Zelda della situazione.
Credo di aver concluso le mie riflessioni più approfondite (o meglio, quelle rivelabili in pubblico)…se la tristezza vi assale, non disperate.
Presto arriverà un breve post con tutti i dettagli su The Dark Defiles. Se non vi basta, pensate ad Egar vestito da Peach.


The Cold Commands (A Land fit for Heroes #2) di Richard Morgan, Gollancz, 2011, 496 pp,12 euro.

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