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Approvo l’approccio della Warner Bros al secondo, grosso tentativo cinematografico di rilanciare Superman, l’ultima grande icona dei comics non ancora salita sul carro dei vincitori.

Poco materiale, ben montato, ben dilatato, capace di creare l’aspettativa ma senza dare la sensazione di aver già visto tutto il film (Iron Man 3 anyone?). Così, dopo un già ottimo teaser, oggi è stata sganciata una bomba, questo trailer.

Data di uscita italiana: 20 giugno 2013
Per i meno accorti di voi, a una sola settimana dall’uscita italiana di “Stark Trek Into Darkness”.
Prima impressione: notevole.
Seconda impressione: ma è veramente di Zack Snyder? Che gli è successo? Da dove gli è sgorgata tutta questa sobrietà, tutto questo tono contenuto, tutta questa mancanza di rallenti?
Terza impressione: è un approccio alla Casino Royale.

Pensateci. Il negarci il “Superman” che ci spetta dalla nuova Lois (una Amy Adams che sembra perfettamente aderente al canone), così come il nuovo Bond arrivava a pronunciare il suo nome a fine pellicola. Il negarci una chiara inquadratura sullo svolazzamento e il ciuffo nero, focalizzandoci (come il bellissimo teaser) su Clark, sul Superman in divenire, con poche pennellate (il bimbo, il cane, il bucato, la tizia che gli dà del mostro, l’abbraccio col padre Kevin Costner) che ci restituiscono più atmosfera centinaia di puntate di Smallville, che è stato per Superman quello che è stato il “Nanananananana” per Batman.

Inutile dire che questo è il banco di prova finale per Superman: o ce la fa stavolta o è spacciato, checché il vero padre Russel Crowe ritenga che qui sulla terra il suo figliolo lo tratteranno come un Dio. Almeno cinematograficamente, Superman ultimamente è stato bistrattatissimo.

Il suo famoso antesignano, il film del 1978 con l’ineguagliato Christopher Reeve e gente come Gene Hackman e Marlon Brando (per dire che non è proprio una novità che a fronte di buone storie, fior fior di attori si prestino al mondo dei comics), arrivava in un momento di fiducia ed estremo ottimismo. Un momento in cui il futuro poteva essere ben interpretato con la S simbolo di speranza sul petto di Reeve.
Poi però il futuro si è incupito, sfocato dalla mancanza positiva di luce dal presente, diventando via via un luogo che veniva perfettamente sintetizzato con la Gotham di Bruce o le oscurità interiori di un capitalista che sperimenta l’impotenza e la menomazione per poi creare un dispositivo che lo rende la cosa più vicina a un Dio artificiale, Tony Stark.

La perfezione e la superiorità di Clark angosciano, infastidiscono.
Visto oggi il Superman del 1978 sembra lontano millenni, fa persino sorridere, mentre il Batman di Burton del 1989 non è invecchiato di pari passo, anzi. Non dipende solo dalla qualità dei film in sè, dipende anche dal contesto culturale, che rimane più vicino a Gotham City di quanto vorremmo.
Così il “Superman Returns” di Bryan Singer passa sostanzialmente inosservato, a parte la famosa uscita della riduzione del pacco di Brandon Routh perché troppo evidente nella tutina. Invece a fare successo, stagione dopo stagione, è il Clark adolescente, quello con problemi e patturnie umanissime di “Smallville”, quello che ha più qualche trucchetto supereroistico e tanti problemi amorosi che parallelismi nemmeno troppo celati con Gesù.

In mezzo, il famosissimo intervento meta di Quentin Tarantino, a ricordarci perché Superman ci inquieta tanto, pur essendo il più delle volte un pezzo di pane. A ricordarci il suo potenziale simbolico fortissimo. In mezzo, Christopher Nolan (qui in veste di produttore) che rende Batman più che umano, reale, poco più di un vigilantes violento che ha un’inclinazione morbosa per le mascherate.

Come risolvere quindi il problema della alienazione di Superman, della sua mancanza di umanità intesa come imperfezione, in un mondo cinematografico che schiaccia l’acceleratore sull’emotività del suoi supereroi, sulle loro superemozioni più che sui loro superproblemi? La risposta non sta nella levità con cui un “Thor” ha risolto la questione divinità nordiche. No, Superman richiede un tono serio.

La risposta è stata quella di pigiare sul bottone alienazione. Perché se sei un alieno, anche se sei nettamente superiore a noi (o proprio per quello e noi abbiamo paura di te) allora sei un diverso. Aprite il capitolo Xmen, ma qui con un contegno e una sottile vibrazione sottopelle che o il montatore del trailer è un figo della madonna o Zack, cosa ti è successo, racconta.

Rimane da esplorare l’incognita Henry Cavill che con “i Tudors” e “Immortals” non abbiamo avuto modo di capire se possieda o meno la profondità espressiva per portare a casa lo scomodo confronto con Reeve. Su quella fisica invece, dati i sopracitati antecedenti, abbiamo già ampiamente indagato.

Lo aspettiamo? Sì, e incrociamo le dita per lui (e per la Warner Bros, da sempre votata ai disastri e senza più Batman o Potter a parargli le spalle…certo che, CHE CORAGGIO HANNO, affidare tutto a Snyder dopo i suoi predecenti risultati di botteghino!).
Anche perché come si fa a non tifare per il successo di un film così profondamente intessuto sulla speranza, soprattutto oggi, adesso? Forse è arrivato il momento più opportuno per farci salvare da Superman.