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Dove andremo a finire? Dove andremo a finire se adesso mi tocca pure fare le lodi di un film di Steven Soderbergh, che ultimamente aveva sfornato questo e questo. Un film con Channing COLLO Tatum in cui si può parlare di buona recitazione, nonostante COLLO! In che mondo privo di punti fermi viviamo, eh.
Mi tocca pure stare molto sul vago, perché “Effetti Collaterali” è il classico thriller costruito sul punto di vista di un uomo sostanzialmente “buono” (Jude Law) che viene suo malgrado coinvolto in una situazione sempre più distruttiva. Il suo tentativo di uscirne, che equivale a scoprire la verità (ovvero l’interpretazione corretta di quanto gli sta accadendo), porta a ribaltare molte volte la lettura di quanto avvenuto, fino al finale, costruito in crescendo.

In poche parole, se vi spoilero anche solo uno dei ribaltamenti, vi privo della crescente tensione che la pellicola sa costruire, vanificando lo scopo di un film che, come qualcuno saggiamente mi ha detto “bello è bello, però non ha senso vederlo una seconda volta”. A essere sinceri Soderbergh e il suo sceneggiatore Scott Z. Burns (a cui va il merito di mettere in mano al regista una storia semplicemente perfetta per creare suspance e coinvolgere lo spettatore) vanno in giro millantando che il film voglia indurre a riflettere il pubblico sull’uso smodato dei farmaci e, appunto, sui loro “Side Effects”, da più comuni a quelli meno evidenti che finiscono per aggiungere sabbia negli ingranaggi della società. Potrebbe essere. Se poi però lo spettatore in sala percepisce il tuo estremo divertimento nel disorientarlo e sorprenderlo cambiandogli continuamente l’interpretazione di quello che sta vedendo, allora la raffinata denuncia psicologica tende ad andare un po’ in vacca. Meglio così, perché sorprendentemente Soderbergh sa essere raffinato su altri versanti.

Parlando di raffinatezza thrilleristiche e di giochi mentali, il primo potentissimo raffronto che mi balza alla mente è quello con The Ghost Writer di Roman Polanski, l’ultimo film compiutamente riuscito di questo tipo. Frenate gli entusiasmi, “Effetti Collaterali” non è certo sul medesimo livello in praticamente niente (no, niente amaro cinismo sul mondo, niente regia magistrale, niente fotografia leccatissima*). È evidente però che l’eclettismo auto-indotto di Soderbergh (un fattore fastidiosissimo, almeno per me) stavolta punta a creare un prodotto di quel tipo e bisogna riconoscergli che una certa raffinatezza ce l’ha, perfettamente coniugata con lo stile veloce e asciutto che da sempre lo contraddistingue.

Eccettuata la parentesi flashback famiglia felice sul finale, con quella sorta di “confettatura” visiva che ok le metafore ma era veramente troppo, mi sono trovata ad annuire più di una volta. Immagino che per chi abiti a New York o conosca bene la città questo effetto risulti moltiplicato, soprattutto se sa subito riconoscere l’edificio la cui inquadratura apre e chiude il film. Qui dovremmo inserire una parentesi su come sia possibile che quest’uomo non solo abbia sempre dei cast stellari, non solo venga lasciato libero di lavorare col suo folle ma (lo ammetto) molto economico metodo di girare e poi montare quotidianamente quanto fatto da solo, nella sua stanzetta d’hotel, ma pure di girare a New York, nella vera New York e non in qualche surrogato canadese. Per chi non lo sapesse, girare a New York costa una follia. Ennesima ammissione, in effetti il film ha un’atmosfera particolare, data soprattutto da tutta una serie di fredde case e uffici dei “ricchi” comparate alla situazione ora più modesta dei protagonisti.

Passiamo al comparto attori, così provo anche a spiegarvi molto approssimativamente la trama. La scelta fatale, il motivo per cui questo film si eleva appena sopra la media, la ragione per cui verrà ricordato se ciò avverrà è il fatto che la protagonista sia stata affidata a Rooney Mara, ormai una garanzia per certi ruoli passivo-aggressivi, con un continuo sottofondo teso e oscuro, come direbbero gli anglosassoni “damaged”. David Fincher ci ha visto lungo, lunghissimo e credo dovremo dirgli grazie a lungo. Non sono ancora riuscita a capire se sia così fenomenale in generale, ma con un ruolo come quello di Emily Taylor, una giovane moglie ferita dall’incarcerazione del marito, dalla sventura economica e dal suo successivo ritorno a casa, è inarrestabile.

Come al solito, la recitazione è soffusa, sfumata, mai eccessiva. Ti arriva sottopelle con le sensazioni, attraverso i sensi, non in maniera diretta, sfrontata. Più il punto di vista si ribalta e più il suo personaggio diventa complesso, sfuggendo ai confini della vittima degli psicofarmaci e arricchendosi anche di riflessi meschini, più il suo ruolo è titanico. Sembra una persona che non abbia fatto altro che essere vittima di una brutta depressione per tutta la vita. Non una di quelle depressioni finte o psicotiche, una di quelle vere, di quelli che vedi per strada o nel parentado.

Il tutto è ulteriormente amplificato dal sacrificio dei comprimari, costretti in ruoli poco più che macchiettistici e un pochino umilianti, al servizio dell’evoluzione di Emily e del suo rapporto con il dottor Banks, un Jude Law sempre piacevole ma non graffiante come in “Anna Karenina”. La colpa non è sua, bensì di un ruolo piuttosto canonico, quello dell’innocente-colpevole, privo dei bellissimi riverberi etico-morali con cui Ewan McGregor ha costruito una delle sue prove più convincenti, proprio in “The Ghost Writer”.
Gli è comunque andata di lusso. Channing Tatum appare così poco sullo schermo che non fa nemmeno in tempo ad abbassare il livello recitativo generale. Fun fact: dice di essersi esercitato con un coach della parola per, cito “esercitarmi nella parlata smozzicata tipica del mondo dell’alta finanza new yorkese”. A parte che dirà una ventina di frasi in tutto il film, quindi la suddetta parlata smozzicata passa quasi sotto silenzio. Channing Tatum fa il broker bancario. LOL.

A Catherine Zeta-Jones è andata pure peggio, con un ruolo da panterona sexy psicoanalista che passa dall’incolore, al macchiettistico all’esageratissimo e per niente credibile. Vorrei aggiungere di più ma vi rovinerei il film. Sappiate solo che quando ho sentito che è stata ricoverata per il suo disturbo bipolare, giuro, ho pensato fosse subito la sua dose di ricaduta post-film, come avvenne pure il marito. Nella mia mente, Zeta-Jones ha immolato la sua sanità mentale e la sua reputazione per permettere a Mara di essere così strepitosa.

Lo vado a vedere? Direi di sì, vale assolutamente la serata spesa al cinema. Probabilmente nella discussione post visione con gli amici comincerete a percepire quanto alcune svolte finali siano assolutamente esagerate e improbabili, ma il punto è che in sala sarete coinvolti e soddisfatti e questo, con registi così, è già un traguardo importante.
Ci shippo qualcuno? Le mie labbra sono sigillate.
Quanto COLLO? Eh, tanto, un COLLO strizzato in numerosi completi da alta finanza. Poi ovviamente il nudo ci scappa sempre, ma prima che possa rovinare tutto non-recitando qualcosa di essenziale, o lo sbattono in prigione, o peggio. Grande Soderbergh.

*Forse mi dovrei vergognare nel confessarlo, ma l’elemento che è rimasto indelebilmente marchiato a fuoco nella mia mente di quel film è la casa dove vive l’ex Primo Ministro Brosnan. Quell’incrocio di design ultra-essenziale, vetro panoramico, legno, pietra e metallo in un mix a dir poco glaciale mi ha segnato, vai a capire perché.