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film PESO, fotografia leccatissima, i nostri amici arabi, Jason Clarke, Jessica Chastain, Kathryn Bigelow, Kyle Chandler, Mark Boal, Oscar, Oscar 2013, proud vagina carrier, spara spara ci stanno massacrando
Indipendentemente dal risultato finale, come portatrice di vagina attendo con ansia ogni film di Kathryn Bigelow. Perché la Bigelow proprio non ce la fa a non fornire ogni volta memorabili personaggi femminili ultra-cazzutissimi, perché la sua volontà è così ferrea e il suo approccio a tutto così netto che finisce per influenzare anche le sue eroine.
Badate bene, mica versioni sexy del machismo maschile che fa sognare tanti registi maschi, no. Donne in tutto e per tutto, che rendono la loro femminilità un punto di forza incrollabile.
Poi quando il film le riesce così bene, beh, diamo il via agli entusiasmi (e magari a qualche francesismo di apprezzamento, perché stiamo sempre a parlare di guerra e Navy Seals, checcavolo).
Nessuno riuscirà mai a convincermi che la Bigelow non abbia pagato agli Oscar 2013 il fatto di aver già vinto una statuetta col suo precedente progetto. Secondo me qui invece il passo avanti c’è, eccome.
Zero Dark Thirty nasce da una sceneggiatura di Mark Boal, che sintetizza in maniera piuttosto asciutta e precisa l’ossessione di una nazione e di una donna per la ricerca e la cattura del Nemico, ovvero Osama Bin Laden. Lo script è a sua volta pesantemente influenzato dalla testimonianza della stessa agente dello FBI e dell’ormai celebre gruppo di Navy Seals che hanno dato il via e completato la difficile missione di (di fatto) violare lo spazio aereo pakistano, entrare in un compound e sperare di trovarci dentro non un terrorista, bensì Il Terrorista. Il tutto guidati non da prove, bensì da una combinazione esplosiva di indizi, soffiate, intuizioni e incrollabile fiducia della protagonista, Maya.
Scusate, ma non credo ci sia altro modo per definire il materiale di partenza se non cazzutissimo. Materiale che avrebbe spaventato molti, dato il riferimento non evitabile ai campi di prigionia, le torture e Abu Ghraib, per non parlare della profezia auto-avveratasi in fase di produzione, che ha costretto la realizzatrice a tornare a metterci mano prima ancora di definire la natura della sua creatura. Facile svicolare, autoassolversi o cedere nella retorica, ma per fortuna al timore c’era la Bigelow. Il suo lavoro è una fiction che affronta il “tratto da una storia vera” quasi chirurgicamente, lasciando libero lo spettatore di pensarci su e trarne le sue conclusioni.
Il film invece è tutto volto a far sbocciare il percorso psicologico e umano di una giovane agente del FBI che finisce per fare della cattura di un’icona del male la sua ragione di vita. L’assurdo delle polemiche sul “film che giustifica la tortura” sta nel fatto che il film stesso le mostra in tutta la loro brutalità, mostra gente che ci fa su una carriera, mostra l’ipocrisia con cui poi certe pratiche vengono coperte o praticate con più cautela, ma solo per evitare ritorsioni. Maya abbraccia questo approccio dopo un inizio un po’ titubante, il film no. Siccome però non c’è la scena super moralista su “no no non si fa”, siccome viene raccontato visivamente senza ulteriore sovra racconto, allora in molti si sono sentiti in diritto di partire per la tangente. Maddai. Ironicamente, dal film ne escono molto meglio i terroristi che gli americani, divorati come sono da ossessioni belliche non troppo dissimili da quelle che guidano i loro prigionieri.
Il salto di qualità a una pellicola che vista così, che PESO, lo fa la regia di Bigelow, stupefacente. Una regia netta e precisa nella concitata fase finale militare (una sorta di contraltare agli ultimi adrenalinici 20 minuti di Argo, due film i cui paralleli non sono pochi), ma capace anche di incredibile bellezza, di un’eleganza che conquista, pur affrontando scenari di sangue, sabbia, sudore e scartoffie da ufficio. Veramente femminile, non nel senso “rosa” del termine, nel senso girato con una sensibilità da donna, in uno spettro di emozioni ben al di là del classico romanticume.
Se il film evita il pantano della docu-fiction ed è così potentemente cinematografico, così potentemente “racconto visivo”, è perché la Bigelow sa il fatto suo, eccome.
Non si può negare però che questo lirismo visivo derivi anche dalle fattezze e dalla perfomance di un’immensa Jessica Chastain, che di fatto regge il film da sola, agevolmente. Pur interpretando un personaggio anomalo, il rischio macchietta-quasi lesbica era alto: niente uomini (padri, fratelli, fidanzati, mariti, figli, pronipoti) a definirla, nessuna relazione sentimentale a smorzarne la componente professionale. Se per i personaggi maschili spesso è la norma, per quelli femminili è rarissimo, quasi inesistente. Il rischio era di marcare troppo, rendere la sua ossessione troppo estrema, giustificando con essa il suo essere fuori dalle convenzioni femminili (è ossessionata, perciò non ha il fidanzato!). Invece no, Maya è normale, quasi comune, determinatissima ma capace di un minuto finale di sfogo emozionale che fa venire il groppo alla gola.
A dirla tutta tutta, la scelta della Chastain è un po’ un vincere facile. Come Nolan usa Di Caprio come alter ego di sè stesso, la Chastain è una Bigelow più raffinata, che coniuga un certo fattore androgino con una grazia e un’eleganza che anche spettinata, sudata e senza trucco traspare. Una bellezza non comune aiuta di certo a ottenere questo lirismo visivo. Tuttavia la sua bravura sopra la media è incontestabile.
Lo vado a vedere? Il genere deve piacere, così come l’approccio bigelowiano. Se non avete mai visto niente della regista e siete tentati di provare, potrebbe essere l’inizio migliore. La Chastain in sè è imperdibile.
Chi shippo qualcuno? Questo film emana virilità e femminilità da ogni frame, ma si sa, i soldati sono un terreno fertilissimo per il fangirlaggio. Secondo me qualcuno là fuori un pensierino lo farà, ma robe proprio da feticiste delle divise militari.
Coefficiente PESO? Date le premesse, incredibilmente basso.