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adolescenti problematici, Autocompiacimento registico, Chan-wook Park, Chris Mantell, Consiglio alla Vendetta, delicate palette cromatiche, dramma familiare obbligatorio, film da feticisti, fotografia leccatissima, Jacki Weaver, Kurt and Bart, Leslie Morales, Matthew Goode, Mia Wasikowska, Nicole Kidman, Philip Glass, regia compiaciutissima, Ridley Scott, Wentworth Miller
Ahhh, quanto mi è difficile parlarvi di Stoker senza mollarvi un “è bellissimo” e chiudere lì l’intera questione. I più informati tra voi sapranno già che la critica non si è esattamente sperticata per l’esordio in lingua inglese di Chan-wook Park, rimanendo generalmente positiva ma freddina.
Purtroppo però stavolta mi tocca contenere l’entusiasmo per un film che va a toccare le mie corde emozionali ed estetiche e cercare di darvi un quadro più generale della qualità del film. Mica posso mandarvi nel baratro perché a me fanno impazzire i cromatismi allusivi, i rimandi cult (Hitchcock su tutti) e il “racconto visivo” messo in piedi da Park, no?
This is me. Just as a flower does not choose its colour, we are not responsible for what we come to be. Only once you realize this do you become free. And to become adult, is to become free.
Fermi così. Cercate di percepire l’espressione sul vostro volto, perché sarà quella che avrete durante la visione del film, che si apre con questo (a mio parere) splendido incipit.
Quanto apprezzate il cinema spiccatamente visivo, quello che tratteggia una storia, più che raccontarla, giustapponendo immagine dopo immagine, in un rincorrersi di particolari e porzioni di disegno che solo a fine film diventa una tela compiuta, pregna di senso? Personalmente tantissimo, quindi ho davvero amato questo film, che si inserisce a pieno diritto nella filmografia di Chan-wook Park per lo sguardo registico, l’attenzione maniacale alla composizione cromatica e geometrica dell’immagine, la fotografia struggente e un montaggio attentissimo nel calibrarsi.
Quello che manca a Stoker e che non gli ha tributato una fama all’altezza dei precedenti coreani è una storia di Park da affiancare a una regia di Park. Il regista ha infatti preferito scegliere una sceneggiatura dal cestone della Black List 2010 (la classifica per addetti al settore delle 10 più promettenti sceneggiature ancora in attesa di una produzione) (ho visto delle porcate immonde nascere dalla medesima premessa, tipo “Broken City”). Park dice di aver scelto questo script perché la scarsità di dialoghi e la struttura essenziale lasciava molto spazio al regista per renderla una storia personale, attraverso la regia.
Il problema è che nella storia scritta da Wentworth Miller (sì, l’attore di Prison Break) ci sono lande sconfinate da riempire, così bisognose di aggiunte e ritocchi che nemmeno tutto il compiacimento registico e la sontuosa messa in scena di Park può nascondere una semplice verità. La trama di Stoker è esile, con profondi echi di quanto visto negli ultimi anni al cinema e in tv, per non scomodare l’evidentissimo, enorme debito con “l’Ombra del Dubbio” di Alfred Hitchcock (a cui Park deve già molto). Dal nome alla storia di zio Charlie, dall’ossessivo girato sulla scalinata di casa, fino al treno in lontananza, il parallelo è piuttosto marcato, ben oltre l’omaggio. L’estrema familiarità dello spettatore con la storia porta a indovinare ben presto dove Park andrà a parare, uccidendo sostanzialmente già a metà film quella sottile vena di tensione che è la madre di ogni buon thriller, lasciandoci immagini bellissime, a cui però non corrispondono emozioni come stupore e angoscia, ma solo una mesta ammirazione per quanto stiamo vedendo.
Non fraintendetemi, non è che la storia di come e perché India Stoker perda la sua innocenza e diventi adulta (e quindi libera?) sia esente da immagini vivide, che si imprimono nella mente. Il merito di ciò va equamente diviso tra comparto tecnico e interpreti (oltre che alla produzione, dove spiccano tra gli altri i fratelli Tony e Ridley Scott), che esaltano l’uno il lavoro dell’altro. L’interpretazione di Mia Wasikowska è autenticamente inquieta, innocente e a tratti selvaggia, quasi vibrante nel rendere quel passaggio impalpabile tra incoscienza e consapevolezza. Posso capire perché all’inizio la parte fosse stata assegnata a Carey Mulligan, ma ritengo che l’approdo della sua principale competitor in questo genere di ruoli sia stato provvidenziale, perché oltre al talento è la figura stessa della Wasikowska a emanare una sorta di turbamento interiore e spigolosità caratteriale che rendono credibili le fasi avanzate del film. Così è credibile nel suo lutto trattenuto e intimo per la morte dell’adorato padre in un incidente stradale, tanto quanto lo è quando corre spensierata per la dimora fiabesca dove abita, avvicinandosi e poi ritraendosi di colpo dallo zio Charlie, comparso dal nulla per sostenere sua madre Evelyn nel lutto. Se la dimensione in cui la Wasikowska si muove sa essere così potente è perché il lavoro sui set, sulle scenografie (Leslie Morales, ti prego, arredami casa!) e sui costumi (Kurt e Bart Wasikowska li avrà maledetti, chissà quante vesciche con quelle scarpe, senza calze!) rimanda all’alta società, a un mondo tanto elegante, raffinato e sottilmente trattenuto da rendere plausibile una fotografia e una palette cromatica che sarebbero altrimenti da denuncia per insistenza e ricorrenza. Manco a dirlo, io ho adorato i continui tocchi di giallo a sottolineare l’intervento di Charlie, le tonalità sempre abbinate a India dei suoi vestiti, l’accostare di verdi freddissimi e rossi caldissimi nelle varie zone della casa e, sopra ogni altra cosa (un particolare che mi ha veramente rapito) le tonalità tipiche del piumaggio della cacciagione che alcuni personaggi mostrano durante il film, fino allo splendido outfit finale della Kidman. Dire che con quel blu, rosso e quel dorato urlava “fagianooo!” forse non è il massimo della finezza, però che estasi visiva!
Anche Nicole Kidman si rivela una scelta azzeccata, forse migliore di quanto la stessa prima scelta (Jodie Foster) avrebbe saputo fare. Un intero cast di rimpiazzi che invece dona a una storia trita e ritrita una tridimensionalità ammirevole. Qui la Kidman riesce nella non facile impresa di portare in scena una madre inadeguata (stupendo il richiamo a “The Others” in una battuta di India sul lutto!), sospesa tra preoccupazione per la figlia e sopita rivalità per la sua bellezza, quasi sul punto di fiorire. Non è facile fare la povera madre di una Lolita (anche se parecchio spigolosa) senza senza scadere nel patetico, ma la Kidman qui ricorda la se stessa di un decennio fa.
Vorrei spezzare una lancia a favore di Jacki Weaver: vista così mi sembra un’attrice molto capace, ma vorrei accertarmene vedendola interpretare un ruolo che non preveda che faccia la madre/nonna/nuora/zia impicciona, priva di tatto, sgradevole e un po’ ricattatrice.
Il cast insomma è una benedizione e amplifica il potenziale dei propri personaggi, ma chi sconfina nell’eccelso è Matthew Goode, che forse sarebbe il caso di rivalutare. Una volta sembra nato per fare Ozymandias, l’altra sembra nato per fare il ricchione, infine sembra nato per fare lo zio Charlie (non descrivo meglio perché [SPOILER])…non sarà mica che è semplicemente dotatissimo, in grado di rendere naturale l’interpretazione di personaggi così intrinsecamente diversi? Goode qui ruba la scena persino alla classica protagonista femminile alla Park, sfruttando appieno un personaggio che nel primo troncone di film ha certe caratteristiche, destinate poi a rivelarsi sotto una luce diversa allo spettatore. La mutazione, lo shift nel suo carattere sembrano derivare dalla nostra consapevolezza, ma sono anche figli di un Goode straordinario nel cambiare il significato, il senso nascosto dietro il suo sguardo, dietro i movimenti delle proprie mani. Sono letteralmente stata folgorata dalla scena meravigliosa di lui sdraiato sul letto a vedere un documentario sulle aquile. C’è questo particolare sulle sue gambe, appena qualche secondo d’inquadratura sui suoi piedi: basta quel momento, quella particolare postura a farci percepire il suo lato rapace e letale. Magnifico.
Come si può riassumere il meglio di una regia fatta di continui dettagli, close up, messe a fuoco e sfumate? Difficile, ma qualche scena tra le numerose memorabili di questo Park va citata. Park se lo dovrebbero guardare fino alla nausea quei registi privi di stile, ombre dietro i propri interpreti, sciatti, senza carattere.
Innanzitutto il film inanella una serie notevole di scene sensualissime, ma senza (quasi) nulla di esplicito, come da hitchcockiana memoria. Così abbiamo la scena con il rumore del treno in lontananza, i vari confronti sulle scale, la scena della doccia (più Hitchcock di così!) e il bellissimo duetto a pianoforte. Park ha detto di aver chiesto al primo compositore per il film, Philip Glass, di trovargli un pezzo che permettesse al duetto al pianoforte ai protagonisti di abbracciarsi. Nonostante poi sia intervenuto il sempre evocativo Clint Mansell (amo quest’uomo!) a completare la OST, il duetto rimane il picco musicale (e non solo) della pellicola.
Anche tutta la dinamica sulle scale è notevole, soprattutto perché vive un crescendo nel suo continuo essere riproposta nel film, così come il completamento dell’apertura folgorante sul finale è semplicemente perfetto (anche se i film con struttura circolare sono il mio punto debole). Poi ovviamente ci sono tanti dettagli, in cui ognuno può trovare quello che più gli piace: la lampadina che dondola in cantina, le scatole di scarpe, la lezione di disegno, i continui primi piani della Wasikovska. Non mancano anche le scene al limite del cattivo gusto per la loro compiaciuta ricercatezza: a me veniva un sacco da ridere nella scena al parco giochi con Whip, perché c’è un montaggio identico nella sigla della telenovela “Cuore Selvaggio” (se non mi credete, la scena del girello era già QUI, a 1:21) (fossi in voi la vedrei tutta, il mio senso estetico è segnato indelebilmente dalla regia compiaciuta delle 5 lire con cui è stato realizzato il tutto).
Lo vado a vedere? Quanto vi piace appagare il vostro senso estetico, quanto vi intriga la premessa di capire se il male nasce con l’essere umano o viene coltivato in esso? Se la risposta è da medio a alto, è decisamente il caso di fare conoscenza dei tratti genetici e caratteriali dominanti della famiglia Stoker.
Ci shippo qualcuno? Incest everywhere!
Livello autocompiacimento registico? Oh, dovete vederlo da voi, non è descrivibile a parole. Magari se avessi una palette cromatica adeguata…
Angolo del rosicamento: guardate questo splendido merchadise QUI!