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Dopo un paio di pellicole convincenti (Venere Nera, Cous Cous), Abdellatif Kechiche ha fatto il botto, portandosi a casa la Palma d’Oro in un’edizione veramente agguerritissima del Festival di Cannes.
Il merito è da attribuirsi più che al dibattito interno alla Francia su diritti civili e unioni omosessuali (come puntualmente sottolineano dalla stampa italiana) a un’amalgama di elementi perfettamente combinati che riesce raramente a un regista, in genere una volta nella carriera (non per volerla gufare a Kechiche, ci mancherebbe).
Trovare una graphic novel d’impatto, adattarla per il grande schermo e soprattutto riuscire a trovare due interpreti strepitose sia analizzando le loro singole interpretazioni che l’alchimia sprigionata quando appaiono entrambe sullo schermo, distillando il tutto in un film diviso nettamente in due capitoli e dalla lunghezza non proprio consueta di tre ore e spicci. Un sacco di cose potevano andare storte, invece il film fila via senza intoppi o cali vistosi, lasciando lo spettatore con la voglia irresistibile di un terzo capitolo, di una risoluzione che forse, nella vita vera non c’è.

Aggiornamento: il film verra distribuito prossimamente in Italia da Lucky Red.

Il titolo francese suggerisce molto del film e della sua costruzione, ma purtroppo è difficilmente accessibile al pubblico italiano; la vita di Adéle, protagonista della pellicola con i suoi sentimenti e patimenti di donna innamorata, vuole richiamare la vita di Marianne, un romanzo incompiuto di Pierre de Marivaux che raccoglie molteplici spezzoni (capitoli appunto) della vita di una nobildonna, concentrandosi sulla descrizione del suo sentire come donna.
La pellicola fonde questo approccio con protagonista di una graphic novel dal titolo “Le bleu est une couleur chaude” di Julie Maroh, Emma, un’artista dai capelli cobalto che sconvolge l’esistenza di Adéle, sin dal primo incontro fortuito a inizio film. Parlare di educazione sentimentale sarebbe un po’ ingannevole, anche se il film è principalmente focalizzato sull’evoluzione della sessualità di Adéle, dapprima studentessa delle superiori, poi maestra d’asilo, che si ritrova a fare i conti con la storia d’amore della sua vita, quella verso una donna, dichiaratamente lesbica, artista, proveniente da una classe sociale e un’educazione diametralmente opposta alla sua.
Pur gravitando attorno a una di quelle storie d’amore totalizzanti e irripetibili, La Vie d’Adéle non è un film sentimentale in toto, anzi, è quasi una biografia della sua giovane protagonista, immortalata sul versante della sua crescita emotiva. Ovviamente a complicare il quadro concorre la difficile maturazione di un amore omosessuale, tra sotterfugi scolastici, ripicche di “closeted characters” (omosessuali non dichiarati), cene familiari tese e la mancanza fino alla fine di una completa e dichiarata accettazione del rapporto con Emma davanti alla società tutta. Tuttavia vedendo il film verrete contagiati dalle potenti sensazioni suscitate dall’evoluzione dell’amore tra le due protagoniste, non di un amore in quanto omosessuale.

Certo, il film non lesina una serie di scene parecchio dettagliate in cosa consista, di fatto, essere l’amante di una lesbica, ma il punto è proprio questo: il film non trascura nulla, seguendo passo a passo Adéle in “spezzoni” della sua vita quotidiana, creando complessivamente un mosaico che ci mostri la sua crescita ed evoluzione da giovane donna a donna adulta.
La scelta registica di Abdellatif Kechiche risulta azzardata ma vincente: la costruzione delle immagini è scarna, la colonna sonora “musicale” quasi inesistente, mentre la cinepresa inquadra ossessivamente primi piani della sua protagonista, delle sue labbra, dei suoi occhi, del suo corpo, tentando di cogliere il fremito, l’impercettibile cambiamento nello sguardo o nell’angolazione delle labbra che precedono un cambiamento epocale della sua vita, una serie di “prime volte” e di “ultime volte”, che la portano ad essere l’adulta nell’abito blu che cammina verso casa.

L’operazione riesce anche grazie a un casting eccezionalmente riuscito. Tre ore di microespressioni facciali e lacrime fuggevoli si rivelano struggenti grazie al talento di Adèle Exarchopoulos, capace di donare la spontaneità e la freschezza necessarie alla sua giovane protagonista, ritraendone perfettamente l’ingenuità e la voracità iniziali, così come la tristezza e il sentimento insopprimibile delle fasi avanzate del film. Léa Seydoux è semplicemente irriconoscibile rispetto ai suoi ruoli patinati e un po’ posticci in cui è stata posizionata da Hollywood (ricordate la bionda mozzafiato di “Mission:Impossible – protocollo fantasma”?). La sua notevole bellezza, esaltata dalla chioma bluastra, passa in secondo piano rispetto all’interpretazione magnetica, capace di mantenere quell’aura di mistero e fascino che conquista Adéle senza farla scadere nel fastidioso quando la coppia è ormai rodata. Le due interpretazioni sono in buona misura il componente cardine che rende indimenticabile la loro storia d’amore.

Lo vado a vedere? Non nego che un certo coefficiente di autorialità ci sia, così come scene parecchio esplicite: se nessuno dei due elementi costituisce per te un problema, te lo consiglio in vista di un’eventuale uscita italiana. L’unica controindicazione potrebbe essere la depressione post visione per la mancanza di una storia d’amore così autenticamente struggente nella propria, di vita.
Ci shippo qualcuno? Qui è tutto canon, ovvio, ma ripeto, una delle storie d’amore cinematografiche più belle del decennio. Anche quando fa male.

Extra – la polemica di Tgcom e soci (QUI – e sì, con certe fonti cosa me la prendo a fare) sul “sesso finto”. In breve, per racimolare qualche click in più includendo chiavi di ricerca sul porno andante Tgcom24 ha pubblicato il pezzo sopra linkato in cui rimprovera a questo film e a “Nymphomaniac” di Lars Von Trier di “fingere” le proprie scene di sesso, parlando di “delusione per un altro falso”. Prego?
Il cinema è, per definizione, finzione che descrive verosimilmente una realtà, realistica o immaginata che sia. Chiunque abbia visto il film di Kechiche sa che la finzione dei rapporti tra le protagoniste è parecchio realistica (nel cinema francese l’approccio al sesso è tipicamente aperto e visivo e la componente scandalosa è spesso percepita solo dall’altrettanto tipica pruderie italiana), dato che semplicemente le due indossavano una sorta di protesi sulle parti intime per evitare gli imbarazzi maggiori. Tuttavia son sempre loro due, nude, avvinghiate, che fingono, appunto, d’amarsi follemente. Importa veramente che una abbia leccato il più sacro dei buchi (cit.) dell’altra nel processo, se il risultato è credibile e funzionale al racconto di una storia d’amore, non di un porno (sulla cui realisticità, tra l’altro, non credo ci sia bisogno di parlare)?
Sì, se uno ha una concezione vouyeristica del cinema in cui lo spettatore paga per assistere a qualcosa di altrimenti inaccessibile, a comportamenti e atteggiamenti che percepisce come infamanti e vergognosi per gli interpreti (percepiti come “colpevoli” delle azioni dei loro personaggi), su cui all’uscita si sente in una posizione di superiorità perché ne ha scorto il pene/la tetta/altri orifizi. Immagino sia questo il motivo per cui si parla di delusione e falso, perché se la vagina non è quella originale, se hai visto un “falso” allora che ci sei andato a fare al cinema?
Perché gli action hero non si gettano veramente dagli edifici? Perché non si fanno veramente sparare addosso? Ah no aspetta, ma quello non interessa, l’importante è vederli nudi davvero, come in un porno…oh wait.

Extra 2 – Tra poco più di tre mesi uscirà sul mercato anglofono la versione inglese della graphic novel che ha ispirato il film, con il titolo di Blue Angel. A quanto pare la versione italiana di Rizzoli Lizard è già in cantiere e potrebbe uscire a ottobre 2013 o in concomitanza con un eventuale arrivo del film nelle sale italiane.