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trance locandinaQuasi mi spiace rientrare ancora una volta nel novero dei detrattori dell’ultima fatica di Danny Boyle, pur essendo ormai da anni una convinta fustigatrice delle sue scelte tematiche ruffiane e stilisticamente pacchiane.
A differenza del recente passato, “In Trance” parte da premesse genuinamente interessanti e sembra richiamare più i primi lavori del regista che la corsa al premio della sua recente carriera. Questo ritorno alle origini e alle scelte più originali è dettato anche dal ricongiungimento allo sceneggiatore di “Trainspotting” John Hodge, che firma con Joe Ahearne questo thriller tra il gioco psicologico e lo spiegone psicotico.
In cerca di un progetto facilmente gestibile in loco durante il lungo lavoro di preparazione e realizzazione delle cerimonie di apertura e chiusura delle Olimpiadi di Londra, Danny Boyle ha ripiegato sul remake dell’omonimo film TV a firma Ahearne del 2001, passata sostanzialmente inosservata in un periodo in cui le menate mentali di “Inception” non avevano ancora riportato in auge il film a scatole cinesi.

Questa la genesi di “In Trance”, montato poi in tutta fretta a fine Londra 2012 e presentato in tempo utile per raccogliere una critica freddina e presto scivolata nel dimenticatoio. Come risultato in sé potrebbe essere deludente per un cineasta che di recente ha fatto razzie all’Oscar, ma non bisogno dimenticare che è difficile venirne fuori bene da film di questo tipo.

Film che si aprono con una premessa alla Scorsese, con l’ennesimo voice over a darci le regole della partita, nella fattispecie il furto di opere d’arte dalle case d’asta. È lo stesso protagonista Simon a dettarcele, presentandoci la refurtiva, “Streghe nell’Aria” di Goya, dipinto inestimabile che è riuscito a far sparire con un notevole colpo di mano durante un tentativo di furto della banda capitanata dal francese Frank, solito ruolo ingrato del criminale con la faccia poco rassicurante toccato a Vincent Cassel. L’innesco dell’intera vicenda è che, pur ammantato d’ironia e nevrosi spiccatamente britanniche, il Simon di James McAvoy proprio non ricorda come sia riuscito a sottrarre la tela né tantomeno dove l’abbia nascosta. Questo lo porta nello studio dell’ipnoterapeuta Elisabeth Lamb (una Rosario Dawson già costretta alla metafora dal cognome), nel tentativo di scoprire quanto avvenuto e ritrovare la tela, pena l’ira di Frank. Da queste premesse non ci vuole un genio per capire che la mente di Simon nasconda ben più segreti di quelli relativi al quadro, dando il via a un complicatissimo gioco di manipolazioni mentali, ribaltamenti di ruoli e colpi di scena.

trance vincent cassel frank frame

Soprattutto nella prima parte, il film si dimostra solido, capace di gestire la tensione derivante dalla continua messa in discussione della moralità dei suoi protagonisti, rassicurante nel giocare tra stereotipi psicoanalitici e indagine dell’animo umano, riservando anche qualche piacevole sorpresa. Ne è un esempio la seduta che riunisce in un luogo immaginario i grandi dipinti perduti dell’umanità, così come le altre visionarie sequenze in cui Danny Boyle mette pienamente a frutto il suo gusto immaginifico e vivido per esplorare le diverse ricostruzioni fittizie che Simon affronta prima di arrivare alla risoluzione finale. Risoluzione che c’è (particolare non scontato) ed è in effetti coerente rispetto a quanto avvenuto prima. Il film ha una solida sceneggiatura alle spalle e sa sempre dove sta andando. Il problema, oltre alla risicata plausibilità dell’effettiva risoluzione, è l’eccessiva quantità di ribaltamenti a cui lo spettatore assiste prima della chiusa, finendo per dubitare anche di quella. Non è (solo) l’estrema complessità a distanziare il pubblico dalla storia, ma anche l’incapacità di gestirla in maniera semplice. Pian piano il ritmo si fa altalenante, la credibilità si sfalda e si percepisce una netta distanza tra la percezione di quanto accade e ciò che accade. A infliggere il colpo di grazia sono poi una serie di scene veramente infelici, di quelle che vorrebbero essere “forti” nella loro essere ardite e fuori dagli schemi, mentre suscitano un risolino in fondo sala.

trance elisabeth lamb rosario dawson

Così da bellissimo ritratto di una triade di personaggi via via più oscuri e non redimibili (altro fattore che oggettivamente riduce l’empatia di chi è in sala) si finisce in un vuoto rilancio della svolta più grafica ed arida, rendendo i nudi dei protagonisti pretestuosi ed imbarazzanti e le loro sventure artificiali e poco interessanti. Inutile sottolineare come l’insistenza sull’illuminazione monocromatica (ARANCIO! BLU! ROSSO!) e le sgranature, la composizione dell’inquadratura “storta” e l’insistenza su immagini specchiate e frammentate tipiche di Boyle (anche se meno invadenti rispetto al passato) non facciano che degradare ancora di più la plausibilità del suo lavoro.

Affrontare un carico così ingente di metaforoni su schermo e ribaltamenti votati al gioco del colpo di scena da esiti diversi per i tre protagonisti. James McAvoy (doppiato in italiano da Massimiliano Manfredi, al posto del solito Stefano Crescentini) sfrutta un personaggio che, finalmente per lui, ha una gamma di implicazioni morali ben oltre quella della vittima, riuscendo a creare un personaggio credibilmente affetto dal vizio e dall’ossessione nonostante l’oggetto parecchio imbarazzante delle stesse. Rosario Dawson invece sulla carta ha un personaggio dall’estrema attualità e dalla risoluzione veramente originale (anche se non incondizionatamente condivisibile) ma soccombe proprio nel doverlo incarnare, finendo per prestarsi a una scena di nudo così pretestuosa e imbecille da essere poco più che uno spot pro epilazione brasiliana. Vincent Cassel ormai ha il pilota automatico per la tipologia del “poco raccomandabile” e finisce per perdere l’occasione di dare qualcosa in più in un ruolo che glielo avrebbe permesso.

trance james mcavoy simon

Lo vado a vedere? Stavolta il mio personale anatema contro Danny Boyle (“Non vedrò mai più un tuo film Danny, mai piùùùù!”) è scattato per il mio naturale risentimento verso qualsiasi tipo di tortura che implichi le unghie, più che per il contenuto del film in sé. Non è che manchi il potenziale, è che viene buttato via, sprecato o stiracchiato all’inverosimile, capitalizzando sulle debolezze dello script invece di mimetizzarle con quanto di buono si aveva tra le mani. In sostanza, vi ritroverete davanti un guazzabuglio dimenticabile, che potrete tranquillamente recuperare quando approderà su qualche rete in seconda serata.
Ci shippo qualcuno? La caratterizzazione dei tre protagonisti a un certo punto si fa tanto squallida da sterilizzare mire che sulla carta sembravano più che fondate.
Coefficiente boyliano? Nemmeno troppo alto, il ragazzo si dà una regolata riducendo inquadrature storte e smarmellature gratuite. Rimane il fatto che il film è letteralmente infarcito da costruzioni visive pretestuosamente metaforiche che manco Hannibal: immagini distorte o riflesse negli specchi, doppi, cromatismi giallo invidia e rosso passione…insomma, tutto il pacchetto.

Note:

  • L’anno di Goya al cinema. Dopo il debito visivo di “Pacific Rim” verso il dipinto “Il Colosso”, qui il protagonista è “Streghe nell’Aria“, scelto esplicitamente in quanto il pittore è tra i primi indagatori della mente umana e delle sue nevrosi.