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Alexandra Maria Lara, brruuuuummmm, c'e' anche un po' d'Italia, Chris Hemsworth, Daniel Brühl, DAT ASS, figa-macchinone-esplosioni, fotografia leccatissima, gente figa, Ho visto la gente nuda, Natalie Dormer, Olivia Wilde, Peter Morgan, Pierfrancesco Favino, Ron Howard
L’antagonismo sportivo tra Niki Lauda e James Hunt era già leggenda e sportiva mentre si consumava pista dopo pista nei ruggenti anni ’70; la trasposizione cinematografica era solo una questione di tempistica, di regista giusto al momento giusto. Aggiungendo all’equazione l’incidente di Lauda e la successiva sfigurazione, era evidente che qualcuno l’avrebbe sfoderato in piena stagione degli Oscar.
Quando Ron Howard si è palesato come trasformatore cinematografico di questo potenziale biografico la catastrofe sembrava incombente. Anche volendo non riuscivo a pensare a un nome peggiore a cui affidare il difficile bilanciamento tra le due polarità rappresentate dai piloti a livello automobilistico ed esistenziale.
Sorprendendo tutti, Ron Howard si è affidato a Peter Morgan, uno sceneggiatore che di duelli se ne intende (“Frost/Nixon”) e ne ha cavato fuori un film misurato.
Se amassi ricercare analisi sociologiche dai piedi d’argilla nell’ultima pellicola di grido sottolineerei quanto sia emblematico che proprio Ron Howard, il migliore interprete del sogno americano e il peggiore esempio di americanata cinematografica, abbia tirato fuori una pellicola tanto misurata da risultare quasi austera. È Howard che migliora con gli anni o è il sogno americano che si sta dando una regolata?
La forma del racconto crea un contrasto mai banale con il contenuto, che è invece quanto di più eccessivo e oltre il limite la Formula1 abbia da offrire: un campionato in cui almeno due piloti possono aspettarsi di finire al camposanto, approccio trasgressivo ad amori, matrimoni e donne, assalto mediatico selvaggio e senza regole.
Rush si apre necessariamente sulla soglia di quello che sappiamo essere il climax drammatico della storia, il giorno dell’incidente a Lauda, poi si ferma e si volta indietro. Solo dopo aver dispiegato con ordine entrambi gli esordi, le rivalità, le sistemazioni sentimentali, il salto di categoria e i limiti umani torna ad affrontare il suo nucleo drammatico, ricreandolo senza cedere nemmeno di un millimetro rispetto alla testimonianza storica delle poche, sgranate immagini riprese da un cineamatore dell’epoca.
La scelta di non insistere ossessivamente sull’incidente e quindi sulla rivalità tra i piloti vissuta in maniera totalizzante si rivela l’approccio più indovinato. Non che il film non si prenda qualche momento per romanzare e rincarare un antagonismo che Lauda e la storia ricordano come attenuato da una reciproca stima e amicizia dagli stadi iniziali, vedi Lauda che affronta la degenza subendo le medicazioni più dolorose mentre guarda il rivale vincere in tv.
Tuttavia non c’è un vero protagonista a prevalere tra i due: è il dispiegarsi parallelo della loro storia a stare al centro della stessa, in un film perfettamente equidistante da entrambi, tranne in qualche sottolineatura di troppo alla sgretolatezza della vita oltre i motori di Hunt.
Tra i due, è proprio il personaggio di Chris Hemsworth a prendersi sulle spalle la caricatura maggiore e solo grazie alla naturale amabilità che ispira si scampa il messaggio semplicistico del bravo pilota, brav’uomo / bravo pilota, uomo fallito. Hemsworth conferma ancora una volta di essere un solido interprete di ruoli accuratamente selezionati dal suo agente, che gli sta tracciando una carriera strepitosa. Carriera basata sulla capacità di scovare ruoli adatti a fisicità e indole, in cui Hewsworth continua a confermarsi ben più del fustacchione australiano spacciabile per dio nordico. Detto questo, non si può non dire grazie a Ron Howard per aver ribadito la prestanza “divina” del fisico di Hemsworth, di cui finora avevamo potuto ammirare poco più che bicipiti e addominale (le lettrici le ho già convinte tutto, ma voglio essere più esplicita: DAT ASS).
La stella del cinema tedesco Daniel Brühl punta ovviamente su altro, ma ha dalla sua un talento per la mimica, la postura e la modulazione della voce (o almeno, dice così chi ha avuto la fortuna di vederlo in lingua originale) che rende la vaga somiglianza fisica con Lauda solo una delle carte che può giocare per la sua già chiaccherata possibile nomination agli Oscar. Ribadisco: un talento notevole, che risalta ancor di più in un ruolo sfaccettato e inconsueto (uomo non gradevole esteticamente che non cerca di esserlo caratterialmente). Tuttavia l’aiuto come spalla di Hemsworth è cruciale, perché si assume su di sé le stucchevolezze e il finale paternalistico, riuscendo nel contempo a rendere Lauda uno del suo giro, anche se come antagonista, quindi comunque degno di stima.
Sì, c’è anche Pierfrancesco Favino e ha persino più di un paio di battute (che comunque non credo raggiungano l’ordine delle decine). Per quanto sia sempre bello per noi e per il nostro giornalismo constatare che c’è anche un po’ d’Italia, speriamo che la prossima volta Howard gli proponga qualcosa in più del gregario.
Chi veramente dovrebbe risentirsi è l’intero cast femminile, perché il film risulta gravemente bocciato al Bechdel test. Se a Olivia Wilde tocca la quota parte di rimbrotto moralista in quanto dolce metà dello sgretolato Hunt, finendo per apparire vanesia, superficiale e indifferente almeno quanto lui, è un peccato che il trattamento da moglie ombra coaudiuvatrice del grande uomo non permetta alla Marlene di Alexandra Maria Lara di prendere più spazio ed affermarsi come donna oltre che alla semplicistica moglie di Lada sfigurato. Se qualcuno si ricordasse che anche negli anni ’70 è possibile infilare un personaggio femminile con una volontà propria, magari le fangirl la smetterebbero di shippare chiunque in film dove solo i protagonisti maschili sembrano animati da una volontà propria.
Al primo che mi viene a dire di non fare la criticona sono pronta a sbattergli in faccia la sventurata l’infermierina sexy toccata a Natalie Dormer, o meglio, al DAT ASS della stessa. Mi vergognavo per lei.
Lo vado a vedere? Contro ogni aspettativa sì, anche se non amate i motori. Rush è un film che con un montaggio e una fotografia dai colori storicamente vividi e un sonoro che sembra di stare in pista tira fuori il meglio da una sceneggiatura che non si sbilancia quasi mai a favore di uno dei due contendenti, mettendo al centro lo spettacolo della contesa stessa, il cui prezzo può arrivare ad essere la morte. Uno spettacolo emozionante, specie per chi è tanto giovane da vivere lo sport come un antagonismo prima tecnologico, poi umano.
Ci shippo qualcuno? L’antagonismo tra Lauda e Hunt è basato sulle loro polarità opposte e sul fatto che in un paio di momenti entrambi provano un bruciante desiderio per ciò che non sono, verso il il proprio opposto che li respinge. Aggiungeteci una rivalità che sfocia presto nella stima e nell’esclusività della sfida uno contro uno dove il resto del mondo non esiste e conditelo con il rimorso di Hunt e la necessità della presenza dello stesso per stimolare Lauda. Infine considerate l’inutilità acuta delle rispettive mogli e Hemsworth che mena il giornalista irrispettoso di Lauda (circostanza tutt’altro che verificata). Ci è venuto il batticuore per molto, molto meno.
Coefficiente Americanata? Praticamente assente, eccettuati due italiani super cariturali che ti fanno morire dentro quando fanno il gesto dell’ombrello e Niki e Marlene si scambiano uno sguardo da questi italiani.
C’è anche un po’ d’Italia? Favino ha oscurato la partecipazione di Salvatore Ferragamo come fornitore di costumi d’epoca, in un film che posiziona con magistrale discrezione la miriade di product placement.