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detachment distacco locandinaQuando mi consigliano un film tendo a non prendere mai sottogamba la pellicola, anzi, possiedo svariati listoni di film menzionati e calorosamente raccomandanti chissà quando, chissà dove e soprattutto chissà da chi.
Questo continuo accumularsi di consigli e lungometraggi in attesa della mia attenzione fornisce uguale divertimento e disperazione; il primo dovuto all’avventurarsi una sera nella visione di qualcosa di cui non ricordi nulla (consiglio escluso), la seconda legata al rimorso di non sapere associare un nome al ringraziamento dovuto.
Sì, dovrei ringraziare perché Detachment fila via ad alto coinvolgimento emotivo, ti lascia un livido poteva sfiorarti. Forse dargli del “bello” non è pertinente, perché quando guardi in faccia tanta disperazione raccontata da un punto di vista tanto arroccato, il giudizio si radicalizza su uno dei due poli (assolutamente bellissimo! – fa schifo immondamente!). Forse la verità si muove su entrambi i poli, strattonato com’è dalla frammentarietà del racconto, dalla scazzottata tra realismo e svolte decisamente sopra le righe, dal budget abbastanza pezzente.

Piccola nota: sentitevi comunque liberi di consigliarmi anche film che non mi inducano a raggomitolarmi sotto una coperta di lana e gemere sommessamente per l’inutilità dell’esistenza umana. Non mi offendo, promesso.

Detachment – Il Distacco è un “Beginners” a tema scolastico che riesce a trasmettere un grumo di sentimenti piuttosto forti, perciò risulta automaticamente un Beginners riuscito (del fallimento di quest’ultimo vi ho già parlato QUI), con tutti i suoi limiti e difetti.
Dopo aver messo a fuoco questo legame è veramente difficile non vedere le continue analogie che percorrono le due pellicole: il rapporto quantomeno difficile del protagonista maschile col proprio padre morente, l’ambiente di lavoro come prigione soffocante e luogo di mancate realizzazioni, la ricerca continua dei due uomini di punta di un distacco emotivo dall’esistenza e, perciò, la difficoltà a gestire una qualsiasi connessione umana.

Il film di Tony Kaye si differenzia per aver messo a fuoco meglio queste tematiche, navigando più efficacemente tra i gorghi di afflizione masochista. Aiuta l’impresa l’ambientazione scolastica: Adrien Brody e gli altri attori del cast si muovono tra i corridoi di una scuola americana disastrata, posizionata in un quartiere capace solo di generare miseria e violenza e quindi una popolazione scolastica del tutto distaccata (appunto) da una qualsivoglia attitudine propositiva. L’etichetta di dramma scolastico però risulta veramente limitante, perché il film accelera così tanto su aspetti prettamente esistenziali, evidenziando le varie sfumature di dolore e disperazione nello spettro dell’età umana (giovani studenti vs professori adulti), da usare solo quando strettamente necessario la morale di una scuola lasciata nell’incapacità di formare i suoi studenti.

Anche la regia si differenzia parecchio da quanto ci si aspetterebbe, rimanendo più vicina a un girato di tipo estetizzante, talvolta visionario e frammentato, qua e là sul filo del documentaristico con telecamera a spalla. Ad essere scomodato è l’intero immaginario visivo del cinema indipendente, in maniera tanto palese che farà soccombere chi non fa che liquidarlo come manierista (nemmeno troppo a torto). Personalmente ho un debole per i film altamente sintetizzabili in una galleria di fermo immagine esteticamente autonomi, quindi confesso, colpita e affondata. L’insistenza nell’utilizzo della saturazione cromatica dell’immagine, dei rossi e dei neri intensi e della giustapposizione ingannatrice (Brody che piange, Erica che fa un pompino a un cliente sullo stesso autobus) fanno di Detachment un film che talvolta sconfina nell’autocompiacimento registico, ma spesso inosservato perché coniuga efficacissime inquadrature a scene di picco emotivo che coinvolgono tanto da distrarre dal mero dato tecnico.

lucy liu detachment

Se Kaye può concentrarsi così minuziosamente sull’immagine e la composizione dell’inquadratura è perché ha per le mani una sceneggiatura fantastica. Da dove diavolo è spuntato questo Carl Lund, uno che come primo lavoro tira fuori un affresco scolastico dove ogni figura del corpo docente applica una diversa strategia per mantenere il distacco dallo squallore circostante e galleggiare sul filo della disperazione? Come strategia è classica, ma ne risultano una serie di rapidi ritratti di personaggi di cui si finisce per volerne indagare ancora di più la disperazione. Con tutto che sul finale l’intero arco narrativo di Meredith finisce nel cliché inevitabile che se c’è una scuola, una classe e degli adolescenti problematici non può mai mancare, vorrei uno spin off solo sul corpo docente. A quanto ho capito, Lund affonda la sceneggiatura su un nucleo di esperienze scolastiche personali; non saprei veramente se commiserare lui o gli studenti, nel caso li sottoponesse veramente a quelle tremende sparate sulla schiavitù morale della società consumista.

Quanto è mortificante rimanere delusi come il protagonista dallo scoprire cosa c’è dietro alla dedizione di Christina Hendricks? Almeno quanto si rimane devastanti da quell’attimo di cui Lucy Liu non riesce a distaccarsi e affonda sotto il pelo della disperazione. James Caan e Blythe Danner appaiono solo qua e là, ma vederli utilizzare ironia e cinismo in scambi quasi romantici è una delle rare luci che rischiarano un film pieno di buio. A renderlo più cupo è principalmente la disperazione di Adrien Brody, che riesce a cavarne fuori un’interpretazione graffiante, senza calcare troppo la mano ma non lesinando acuti picchi drammatici quando necessario, vedi alla voce infanzie traumatiche. Roba che poi tentare di redimere una prostituta minorenne, davvero, è il minimo.
Purtroppo la chiusura vagamente moralistica (dove il distacco finisce per essere tratteggiato negativamente) legata al personaggio di Meredith lascia quasi una stecca. D’altronde però dopo tutte quelle secchiate di disperazione, mi sta più che bene un momento di sguardo positivo al futuro, anche se col dubbio che sia la svolta meno convincente del film.

Vedendola però con distacco (giuro, adesso ma smetto), è il suo stesso approccio radicale, tra il comunista barbone e l’involuzione dell’insegnamento stile “Attimo Fuggente” a rendere rassicurante la svolta finale di Brody, che riesce a darsi finalmente una calmata e a salvare il mondo vecchia maniera, dietro una cattedra, partendo dal programma, lasciando da parte un sistema autoimposto che gli preclude la normalità in ogni sua forma di banalità. Smettendo di tentare di salvare la giovane prostituta analiticamente, porgendole la mano. In soldoni, se vuoi essere radicalmente esistenziale, ovvio che poi in giro incontri solo gente con dei problemi grossi così che non riesci in alcun modo ad aiutare, impegnato come sei evitare quello che cercano tanto disperatamente: un contatto umano quotidiano, normale.

detachment adrien brody

Lo recupero? Contrariamente a quanto il mio elogio potrebbe far pensare, sono parecchio restia a consigliarlo senza riserve. L’ho trovato per la maggior parte bellissimo, ma qua e là, pensandoci distaccatamente (ops), finisce pericolosamente vicino alla pretenziosità. Rimane parecchio calcato su situazioni moralmente e psicologicamente sconfortanti, per non dire che ti lascia proprio con un senso di angoscia dovuto all’impossibilità di redimere alcunché. Secondariamente è così categorico nel prendere una visione perentoria su tematiche esistenzialiste che, appena salta il coinvolgimento emotivo, il rischio è quello di dargli del film paraculo oppure avere la mia reazione su Beginners. L’unico consiglio è di trovare una finestra temporale in cui vi sentite più inclini ad accettare palate di tristezza senza che un certo autocompiacimento di fondo dei realizzatori vi distolga dalla storia. Così a occhio, Tony Kaye non è la persona più socievole e anima della festa del giro, ma un’ottima spalla su cui disperarsi.
Ci shippo qualcuno? Ero troppo devastata psicologicamente per soffermarmi su questo aspetto. Direi di no, ma nel qual caso, solo in territori molto (MOLTO) angst.
Coefficiente kleenex? No, non è un pianto, è più un vuoto esistenziale che ti lascia dentro, la voglia di chiamare un amico e constatare se è ancora possibile parlare di scemenze senza che il dramma esistenziale ti piombi alle spalle.