Tag
Anjelica Huston, Anna Kendrick, Bryce Dallas Howard, film col dramma dentro, Jonathan Levine, Joseph Gordon-Levitt, la forza salvifica dell'Ammmore, ma anche no, Philip Baker Hall, sento puzza di hipster, Seth Rogen, tratto da una storia di poco falsa, tristezza a palate, Will Reiser
Meno male che alla fine James McAvoy non ha potuto accettare di interpretare il protagonista di questa sorta di dramamedy ispirata dalla lotta contro il cancro dello sceneggiatore Will Reiser, amico del produttore e coprotagonista Seth Rogen.
Non perché sia un film poi così tremendo (anche se), ma perché la presenza di Joseph Gordon-Levitt a interpretarne il protagonista rende ancora più calzante il parallelo che a fine film mi è balzato alla mente: 50/50 è ben sintetizzabile come la storia del protagonista di “(500) days of summer” che si ammala di cancro.
50/50 è stato un successo: ben accolto dalla critica, ha anche rastrellato al box office ben più della decina di milioni di dollari che è costato (cioè per gli standard d’Oltreoceano, poco più che una poracciata). Eppure io qualche dubbio sull’effettivo valore del film me lo sono posto, soprattutto perché è proprio grazie a questa pellicola che si sono ulteriormente innalzate le quotazioni del protagonista Joseph Gordon-Levitt e del regista Jonathan Levine, poi finito a dirige l’imbarazzante “Warm Bodies”.
Partiamo dalla qualità tecnica in sé: evidentemente questo tipo di commedia amara calata nell’immaginario quotidiano non è esattamente il materiale per mettere in luce un particolare estro registico. Eppure è proprio da storie “quotidiane” come queste (unico target possibile per giovani talentuosi ma squattrinati) che sono usciti un sacco di nomi interessanti del panorama più indie, proprio per come riuscivano con la loro regia e la stessa composizione dell’inquadratura a rendere evocativa e visivamente poetica una situazione in tutto e per tutto comune. Il primo esempio che mi balza alla mente è “Another Earth” (di cui vi ho parlato QUI) che ha sì una sceneggiatura di tutt’altro spessore, ma anche una regia che dona una forza visiva qui del tutto assente. Insomma, perché si stava gridando al giovane da tenere d’occhio per un film di questo tipo quando una marea di altre pellicole prodotte con ancora meno soldi gli davano spanne e spanne sul risultato finale? Non che Jonathan Levine non se la cavi, ma non ho visto niente di particolarmente memorabile.
La critica più corposa che mi sento di muovere è alla sceneggiatura, ispirata dall’esperienza dello stesso scrittore Will Reiser, amico di Seth Rogen, poi coinvolto in veste di attore e produttore del film. Si sa, criticare un film con tematiche così drammatiche, per di più tratte da una storia di poco falsa richiede tatto, però aspetta, perché mai? Non è che sia la nuova frontiera del cinema americano, il cancro al cinema appare da decenni e decenni, con risultati tra il patetismo e il lirismo. Ecco, io personalmente questo “50 e 50” l’ho trovato spento, poco riuscito nel suo intento di sdrammatizzare i vari stadi della malattia, dalla scoperta al tentativo di cura fino alle ripercussioni sulla sfera familiare. Senza anticipare troppo, trovo che il tono spesso lieve con cui la pellicola affronta questi temi avrebbe funzionato di più senza che la stessa adottasse risoluzioni altrettanto lievi a fine film. Diciamolo, è il finale sin troppo ottimista a virare decisamente sulla commediola, soprattutto per la risoluzione affettiva che ottiene il protagonista. A pensarci bene, è vagamente inquietante e meritevole di una segnalazione all’ordine dei medici. Quando persino notori cinemozioni5 c’hanno più coraggio di te a portare avanti il discorso sul cancro (e con coraggio non intendo per forza una morte a conclusione del film, sia chiaro), c’è qualcosa che non va, quasi il cancro sia unicamente visto come un’esperienza catartica da cui si esce solo più maturi e emotivamente consci, le cui cicatrici caratterizzano solo la parte fisica.
Due righe vanno spese anche per il personaggio di Joseph Gordon-Levitt, che sembra un secondo capitolo del film che citavo prima. Il fatto che fior fior di sceneggiatori realizzino il proprio protagonista ideale rendendolo una sorta di hipster spocchioso, sfigatissimo in amore ma sempre per colpa della sua lei sta diventando genuinamente inquietante. Se almeno in (500) days of summer la storia partiva così ma faceva tutto il giro, mostrando che le meschinità di Summer si riflettevano in misura uguale e superiore nel protagonista, qui Bryce Dallas Howard è solo una stronza fatta e finita, l’unico personaggio a cui viene negata ogni redenzione, concessa in pompa magna anche all’amicone fissato col sesso, ma in fondo con un cuore grande così. Così il figlio noncurante che si sente superiore e il fidanzato zerbino che applica l’approccio passivo a fine ricattatorio (“No guarda ho il cancro ma se vuoi lasciami subito, no lasciami subito, io non opporrò resistenza e non ti giudicherò, lasciando che i miei occhi da cucciolo smarrito lo facciano per me”) ottiene una facile risoluzione, sempre mediante una figura femminile; insomma, è stato uno stronzo, ma c’ha il cancro e tramite il cancro risolve questo suo atteggiamento. La fidanzata invece è una stronza fatta e finita, non c’ha il cancro e non le viene concessa un’oncia d’umanità positiva che alla fine tocca a tutti gli altri. Altro che doppio standard.
Lo recupero? Ho sentito tanti commenti positivi riguardo a questo film, che in effetti si lascia guardare in maniera gradevole. Cosa vi posso dire? Se non siete inaciditi dentro come la sottoscritta e amate indienume americano, dateci un’occhiata.
Ci shippo qualcuno? Come in ogni occasione in cui il migliore amico trama per togliere di mezzo la fidanzata odiatissima.
Coefficiente fazzolettini? Tutto sommato, quasi assente.