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captain phillips locandinaSe c’è un film davvero in difficoltà a incontrare l’italico gusto in questa settimana tutta in salita (assieme al fantascientifico “Ender’s Game”) è Captain Phillips, un’ottima pellicola che non esprime il suo pieno potenziale nei materiali promozionali.
Io stessa sono andata al cinema più per il sentore marcato che lo rivedremo alla notte degli Oscar (come sapete bene, cerco sempre di vedere almeno tutti i candidati a miglior film) che per la voglia insopprimibile di recuperarlo appena possibile.
Sapevo più o meno questo: pellicola probabilmente tratta da una storia vera (selling point irrinunciabile per la corsa alla statuetta dorata) con un capitano di una nave cargo che finisce nei guai con dei pirati somali. Pirati di quelli pericolosi e realisticamente violenti, non di quelli simpaticoni e con l’andatura buffa. Sapevo che l’interpretazione di Tom Hanks era tanto buona da aver sostanzialmente portato di prepotenza il film tra quelli più chiacchierati in ottica premiazioni, ma non amo particolarmente Hanks e ritengo sia stato premiato più per lo status di icona che per le sue perfomance comunque buone, almeno in passato.
In effetti si tratta proprio di una descrizione precisa, ma il tutto è declinato su un livello tecnico superbo e con uno stile e un linguaggio che lo rendono un’esperienza da cui si esce provati, una sorta di ultimi venti minuti di “Zero Dark Thirty” lunghi due ore e un quarto. Perché non lo si sia lanciato come il degno erede di quella sorta di filone alla Kathryn Bigelow ultima maniera è un mezzo mistero.


Captain Phillips è davvero tratto da una storia vera, tanto che alcuni si spingono a definirlo il biopic dell’omonimo comandante di navi cargo. In realtà è il racconto del sequestro di cui Phillips è stato protagonista e narratore nel libro “A Captain’s Duty: Somali Pirates, Navy SEALs, and Dangerous Days at Sea”, una sorta di ricostruzione cinematografica il più possibile fedele (ma con tante concessioni al linguaggio del mezzo) delle terribili ore in cui un capitano intelligente, capace marinaio ma assolutamente uomo ordinario si ritrova nelle mani di quattro pirati somali alla ricerca di un riscatto milionario.
Il punto da sottolineare fino allo sfinimento è che forse la storia non attira immediatamente l’attenzione e non suona interessante, ma questo dipende da come immaginiamo ci verrà raccontata. In realtà basta il montaggio alternato tra un Hanks comunissimo irish yankee che rassicura la moglie preoccupata mentre va in aeroporto e la precisione con cui vengono dipinte le manovre al villaggio somalo precedenti l’arrembaggio per capire che non si tratta dell’ennesima storia dell’eroe per caso americano. Lo è, in un certo qual senso, ma Phillips è più l’immagine di un mondo che si interroga sul suo futuro inconsapevole di vivere ancora nel pieno benessere, mondo destinato a prevalere come simbolo vincente sulla disperazione dei somali, che sono sì pronti a tutto e parecchio rapaci, ma ritratti in maniera talmente precisa e realistica da percepire parecchi interrogativi su dove collocare veramente il “cattivo della storia”.

A risaltare fin da subito è la vena documentaristica con cui ottima sceneggiatura di Billy Ray riesce a coniugare il lento crescere di una tensione basata sul nulla cosmico (sapevamo che Bin Laden moriva in Zero Dark Thirty, sappiamo che Phillips verrà rapito ma ne uscirà vivo qui) e un ritratto piuttosto dettaglio di come avvenga un assalto a una nave cargo gigantesca da parte di piccoli motoscafi. Il linguaggio è pura narrativa, ma è palese che si voglia rendere chiaro allo spettatore cosa succede nei particolari: cosa sanno e fanno i pirati, quali sono le contromosse e le paure di una ciurma che sa di essere in pericolo ma non può evitare di costeggiare la Somalia. Costruire tensione in quello che è un vademecum della pirateria moderna è di per sé un’impresa titanica, coadiuvata anche dalla fotografia di Barry Ackroyd (guarda un po’, stava in “The Hurt Locker”), capace di rendere interessante un film con una decina scarsa di scenari (villaggio somalo, mare aperto, sala di comando, sala motori, scialuppa, nave della Marina), vessati da una staticità palese, ondeggiare marino escluso.
Ackroyd ha il suo bel da fare in una seconda parte del film in cui cast, spazi di manovra e punti luce si ristringono, mentre la tensione sale come nei due film “di guerra” della Bigelow o in “Argo”. Captain Phillips gli somiglia molto, soprattutto per la scommessa stravinta di riuscire di ritrarre credibilmente uno spaccato realistico, sfruttando il linguaggio cinematografico per creare una tensione martellante e un’estetica cinematografica, senza mai scadere nel documentaristico, pur affondando a piene mani nel vero.

La cinematografia di Paul Greengrass la seguo in maniera discontinua, perché lavora in filoni che risultano per me poco seducenti. Qui però torna a dimostrare di essere un signor regista, con un film più “facile” dei precedenti, che sicuramente attirerà l’attenzione dell’Academy. Lavorare sull’ultima mezz’ora di film, con la scelta di mantenere molta camera a spalla e per giunta farla ondeggiare sulla scialuppa insieme ai suoi attori strizzati in quelli che devono sembrare pochissimi metri quadrati, deve essere stata una sfida tremenda, specie considerando il livello di fotografia e missaggio sonoro che si continua a mantenere per tutto il tempo.
[Nota: all’uscita avevo un attacco di mal di mare notevole e non lo dico con ironia: io reggo pochissimo la steady cam ballerina e odio cordialmente i found footage del piffero, ma qui tra la tensione e tutto quel rollare mi si stava ribaltando lo stomaco.]
Un realismo che però mantiene un alto standard estetico, sempre in linea con la rielaborazione cinematografica, senza mai concedersi le sbavature tecniche che un documentario può permettersi. Greengrass gestisce egregiamente anche l’inevitabile scontro tra mondo americano/mondo somalo, mantenendo sempre un approccio professionale, dall’eleganza essenziale anche nei momenti descrittivi della condizione somala, in cui pigiare sul pedale del patetismo sembra quasi inevitabile.

captain phillips michael cernus

Se il film è così riuscito però il merito va equamente diviso tra sceneggiatura gestita perfettamente, regia e cast tecnico all’altezza e Tom Hanks. Ribadisco, non è per me oggetto di venerazione (o almeno, non per le pellicole solitamente citate), ma qui è titanico. Protagonista indiscusso e unico (dato che il film mantiene il profilo biografico e non si può troppo concentrare su Muse, il capo dei somali), Hanks tira fuori una perfomance pazzesca. Se non avesse già vinto due volte l’Oscar, sarebbe suo senza troppi dubbi. Hanks sa essere l’americano medio vicino alla vecchiaia con mimesi perfetta per poi virare in l’astuto capitano senza mai diventare furbo oltre il credibile, per poi infilare nelle ultime sequenze un crescendo di rabbia, terrore e beffarda ironia (per non dire una muta, terrificante consapevolezza della sua inermità rispetto al suo Paese e alle sue logiche) che coronano in due minuti di quelli ettichettabili come for you consideration, senza mai andare sopra le righe. Semplicemente, ha due minuti di stato di grazia in cui è assolutamente perfetto, cancella lo schermo e uno comprende profondamente il miscuglio di shock, pietà, sfinimento e orrore che prova il suo personaggio. Ci si sente quasi imbarazzati dall’assistere a tanta umanità esposta senza filtri. Sicuramente una delle sue migliori perfomance, se non la performance.
Se il mondo fosse un posto migliore, anche il potente ritratto del pirata somalo di Michael Chernus avrebbe una chance di vittoria, ma un’illustre sconosciuto al fianco di un Hanks del genere, con tanti “film di colore” in lizza (“The Butler” e l’osannatissimo “12 Years a Slave”), non ha grandi speranze. Peccato, perché uscirne così bene in un film in cui Hanks fa terra bruciata intorno a sé dice parecchie cose del livello interpretativo di Chernus. Considerazione cretina: sicuramente gioca molto a suo favore il volto che corrisponde al 100% allo stereotipo dell’affamato somalo col mitra pronto a derubare l’occidentale pasciuto.

Due considerazioni finali: se accosto questo film a quelli della Bigelow non è solo per la presenza sempre più cinematograficamente necessaria dei SEALs (può essere una missione veramente difficile se non serve nemmeno un team di SEALs per portarla a termine?) lanciati al cinema e alla ribalta dalla stessa Bigelow, ma per una certa sfumatura con cui si ritrae l’America. Sono film in cui l’esercito americano ha sempre un ruolo muscolare, ma che impatta più come simbolo di un’inquietudine. Simbolo mai totalmente positivo o negativo di qualcosa, bensì immagine vincolante da cui l’operato dei suoi uomini non può mai discostarsi, anche a costo di seguire una via spietata e poco umanitaria. Il film saggiamente accenna solamente di sfuggita ai problemi della Somalia, a cosa spinga davvero Muse e i compagni ad assaltare navi, lasciando che la risposta sia ambigua e venata di menzogna. Infatti non lesina una dose di menzogna a nessuno. Phillips gioca pericolosamente dall’inizio e forse per questo intuisce per primo le intenzioni della Marina americana, ma anche Muse nasconde dualismi dietro il “pescatore mancato” che rendono difficile inquadrarlo come vittima di un meccanismo più grande, soprattutto nel micidiale confronto in cui Tom Hanks realizza cosa lo renda veramente diverso dagli altri pirati.
Se ci aggiungiamo che il vero Phillips ha un contenzioso aperto da anni con il suo equipaggio che lo incolpa di essersi ficcato volontariamente in quella situazione e di aver tenuto segreto il pericolo incombente pur essendone consapevole, senza far nulla per evitarlo, il quadro è completo.

Ultima nota: sarebbe interessante trovare del tempo per esaminare “A Hijacking”, un thriller danese che parla del rapimento di alcuni marinai da parte di pirati somali, per vedere come ne escono questi ultimi e collocare meglio il ritratto fornito dal film di Greengrass, per ora sprovvisto di metri di paragone. A questo proposito…tre, due, uno, parte il conto alla rovescia per il primo giornalista italiano che traccerà a caso parallelismi con la vicenda dei due fucilieri di Marina in India. Ci conto!

captain phillips tom hanks

Lo vado a vedere? Non è un film adatto a tutti, ma sorprendentemente dovrebbe piacere a una platea più ampia di quella che la sua trama su carta prospetterebbe. Se amate il cinema in quanto tale, come linguaggio e tecnica, se vi sono piaciuti “Argo” e “The Hurt Locker” più per le scelte di realizzazione che per il tema militare in sé, recuperatelo.
Ci shippo qualcuno? No, non direi.
Scena da clip per gli Oscar? Potentissima ma del tutto involontaria. Insomma, una scena dalla potenza espressiva enorme ma non inseguita con spasmodica bramosia di mostrare il drammaaaa!