Tag
adolescenti problematici, amori adolescenziali, Corporazioni Malvagie, Donald Sutherland, Elizabeth Banks, film coi pugni nelle mani, Francis Lawrence, il Re degli Shinigami, Jeffrey Wright, Jennifer Lawrence, Johanna Mason, Josh Hutcherson, Lenny Kravitz, Lenny Kravitz con l'eyeliner dorato, Liam Hemsworth, Michael deBruyn, mondi distopici, non è che non esista perché finora non ne ho mai parlato, Philip Seymour Hoffman, piangerone, piove governo ladro, servi della gleba, Simon Beaufoy, Stanley Tucci, Stanley Tucci as the stylish gay guy, Suzanne Collins, Trish Summerville, tristezza a palate, Woody Harrelson, young adult
Dopo poco più di un anno e mezzo torna al cinema per la seconda volta la trilogia di Suzanne Collins, ma intenti, significati e presupposti sono profondamente cambiati, così come il nome dietro la macchina da presa.
Hunger Games è stato un successo oltre ogni aspettativa, Jennifer Lawrence è diventata un’attrice vincitrice di Oscar, un talento riconosciuto e un stella hollywoodiana di fama mondiale, il bacino di best sellers young adult è ufficialmente riserva di caccia delle major americane e delle piccole case di produzione in cerca dell’uscita col botto.
Innanzitutto un plauso alla LIONSGATE che non ha lesinato risorse al secondo capitolo, passaggio piuttosto delicato per ogni franchise, in questo caso facilitato da una serie di contenuti letterari che sembrano scritti per arrivare sul grande schermo. Tuttavia il fatto che ci arrivino con dovizia di particolari, splendore di computer grafica e senza semplificazioni o riduzioni di rilievo è merito di chi poteva sedersi sulla pigna di soldi guadagnati e invece li ha rimessi in gioco in quella che è a tutti gli effetti una grande produzione (130 milioni stimati, senza promozione).
Catching Fire è davvero un bel film e un ottimo secondo capitolo, che riesce ad eguagliare il predecessore senza deludere dove tante altre trilogie hanno invece compiuto un passo falso. Diversamente da quanto ho letto in giro però non ritengo che il merito stia completamente nel nuovo regista-gestore del franchise Francis Lawrence (già incaricato di adattare il terzo libro in due distinti film), bensì nel suo vituperatissimo predecessore, Gary Ross, e nel materiale che la Collins ha fornito in partenza.
Intendiamoci: non tutti i registi sono in grado di gestire un film di questa portata, con questi mezzi, trovando anche il tempo di inserire delle sequenze in cui far sfoggio di una certa vena artistica (vedi la riuscitissima chiusura del viaggio di Katniss e Peeta nel distretto 11). Francis Lawrence fa un signor lavoro e porta la trilogia dove ci si aspettava, al livello del grande film d’intrattenimento. Nel farlo però segue sostanzialmente la strada già percorsa, rendendo il film piacevole ma mai sorprendente, anzi: conoscendo in principio la storia è facilmente intuibile come Lawrence costruirà la sequenza, su cosa punterà l’attenzione e cosa lascerà in secondo piano. Il punto è che non esiste una cifra stilistica del regista e dietro la macchina da presa c’è uno bravo sì, ma potrebbe essere scambiato per tanti altri. Si è dato al pubblico quello che il pubblico si aspettava.
Lawrence potrà anche fare il sostenuto perché gli hanno messo in mano il franchise cacciando Gary Ross ma già dal principio (vedi QUI) io vado sostenendo che se Hunger Games è diventato il fenomeno che è, la LIONSGATE deve ringraziare la forza espressiva non comune di una Jennifer Lawrence ingaggiata quando ancora nota solo agli amanti dei film indie e alla regia e alla sceneggiatura influenzati da Gary Ross. Passato alla storia per quello che ha usato solo camera a spalla e ha anestetizzato l’onda emotiva di reciproche uccisioni d’innocenti, Gary Ross è colui che ha reso una trilogia prevalentemente letta da ragazze un film condiviso da un pubblico eterogeneo non solo per sesso, ma anche per età. L’aver tagliato sui patemi amorosi e aver imposto un piglio realistico, in presa diretta, senza sottolineare il patetismo ma lasciando che fosse la Lawrence ad esprimere lo spaesamento, il terrore e la rabbia ha permesso di rendere appetibile al pubblico adulto e di solito riservato ai protagonisti maschili e ai film d’avventura un prodotto che si pensava di vendere alle adolescenti. Inoltre Hunger Games aveva uno stile ben definito, un tentativo di renderlo diverso dal film che ci si aspetterebbe da queste premesse, con una personalità forte. Talvolta era riuscito, talvolta era confusionario, ma trovo che il modo in cui rendeva palpabile e realistica la mancanza di eroicità e lo spaesamento continuo vissuto nell’arena, “La Ragazza di Fuoco” l’abbia perso per strada, concentrandosi sulla narrazione ma facendo evaporare qualsiasi pretesa di “è realistico perché potrebbe succedere“. In Catching Fire non si perde mai l’impressione di essere di fronte a un film, un racconto, un’invenzione.
Un esempio esplicativo: lo strazio di Katniss che si offre volontaria in un silenzio raggelante trovo fosse molto più diretto dell’orrore suscitato dalla seconda salita sul palco, nonostante i lacrimoni e le sottolineature che quest’ultima impiega.
Se Catching Fire è più canonico, va detto che risulta superiore al suo predecessore nell’intero secondo segmento. Anche qui però è una lotta impari; Ross (che non dimentichiamolo, ha messo le mani anche nella sceneggiatura tagliando parecchio e a mio avviso saggiamente) ha una serie di spiegazioni da fornire e personaggi sostanzialmente nuovi in una foresta, Lawrence gestisce dei beniamini in un’arena variegatissima che, senza svelare troppo, fornisce una gamma di prove e scontri che hanno una potenza visiva impressionante. Certo, sono gestiti benissimo, sia a livello di realizzazione (quasi sempre delegata agli effetti speciali), sia a livello di ricostruzione dei set, sia a livello di potenza espressiva, che è riuscita a sfruttare al massimo una scena non così scontata come la tortura psicologica che subiscono Katniss e Finnick.
Ricordo però di aver pensato distintamente mentre leggevo il libro che questa seconda arena sarebbe stata una manna per il film, ben più degli strategici make-over con sorpresa finale di Cinna. Ross invece aveva boscaglia, le vespe stronze e i super mastini: non si tratta esattamente di materiale di partenza allo stesso livello.
Anche l’introduzione dei nuovi comprimari, necessaria a sostenere uno spunto da libro unico che si è deciso ad ampliarsi in una trilogia, è riuscitissima: vuoi perché per i ruoli chiave si è andati sul sicuro scegliendo gente del calibro di Philip Seymour Hoffman (e diciamolo, che bastardata sceglierlo proprio per quel ruolo, contando sul pregiudizio di uno spettatore che lo ha già visto in azione nel suo ruolo tipico…diabolici!), Jeffrey Wright, Lynn Cohen e Toby Jones (messo solo per far vedere chi riescono a convincere con la fama della serie, data l’inutilità del suo ruolo da fashion police). Donald Sutherland mi piace anche nell’infinita galleria di possibili gif not amused che questo film gli riserva, e per fortuna hanno risparmiato di spiegare la vaccata del drink a base di sangue che si intravede a un certo punto.
Bisogna dire che anche i giovani ingaggiati per ricoprire i ruoli più carismatici e amati non hanno deluso. Innanzitutto le mie scuse a Sam Claflin, il principe di “Biancaneve e il cacciaThor” che all’annuncio del cast aveva suscitato lo mio scoramento. Finnick è un personaggio non proprio marginale ma soprattutto è carismatico e vanesio, una manna per quando la Collins si perde nei patemi. La perfomance di Claflin è eccellente e non fa troppo rimpiangere la versione cartacea, anche se purtroppo tagliano parecchi “ohhh, questo potrebbe deturpare il mio bellissimo viso”. Jena Malone invece mi ha soddisfatto ancora di più, la sua Johanna è proprio una goduria, esuberante ma mai esagerata.
Uno dei motivi per cui Lawrence ha suscitato la mia stizza è la sua uscita sintetizzabile con un “quel fesso di Ross ha tagliato sul triangolo amoroso, io invece no, ce ne metto un sacco!”. Fortunatamente è vero fino a un certo punto, però sì, Liam Hemsworth e Josh Hutcherson sono in prima linea e chiaramente contrapposti. Trovo il Gale di Hemsworth inutile e irritante tanto quando la controparte cartacea, ma d’altronde non posso che parteggiare per quel servo della gleba di Peeta, e continuo a ringraziare chiunque abbia scelto Josh Hutcherson, senza optando per uno troppo figo o non in grado di genuflettersi in maniera credibile. Ancora una volta però Jennifer Lawrence è perfetta e fornisce una prestazione che alza il livello della pellicola, eclissando le sue controparti maschili.
Da lettrice posso testimoniarvi che il film funziona perché la LIONSGATE non ha badato a spese in fatto di sceneggiatori. Un duo che porta un’esperienza più che comprovata sia nei racconti dedicati al pubblico più giovane sia nelle avventure di più ampio respiro; Simon Beaufoy è l’uomo di fiducia di Danny Boyle, Michael Arndt è la mente dietro “Little Miss Sunshine”, ha collaborato in “Toy Story 3”, sistemato “Brave” e “Oblivion”.
L’apporto degli sceneggiatori può sembrare non fondamentale, ma lo è: se infatti il film riesce a far intuire ma non scoprire al lettore l’interpretazione da dare a quanto sta succedendo dentro e fuori l’arena, è perché Beaufoy e Arndt hanno limato e tagliato tutti i tentativi claudicanti della Collins di dare un indizio senza far intuire il colpo di scena. Suzanne Collins ha spunti stupendi ed idee efficaci, ma uno stile di scrittura sterile, incapace di sfumature. Tutto è bianco e nero, il sottotesto è così palese che i due principali colpi di scena del film nel libro sono deducibili non appena Katniss mette piede nell’arena. Sapientemente il film ha tagliato anche un paio di apparizioni veramente di Hoffman e tutta una parte iniziale che avrebbe tardato l’inizio dell’arena e fatto presagire l’arrivo della vaccata colossale del secondo tomo, quella che proprio ti fa sentire tradito, il Re degli Shinigami della situazione*. Approvo invece che la si sia infilata nei cinque minuti finali, un accenno insieme a una miriade di informazioni, così magari la gente comincia ad assimilare l’idea senza bollarla da subito come una forzatura. Ebbene sì, quando non puoi omettere la stronzata è meglio spararla velocissimamente e fuggire.
L’unico aspetto che ancora non mi convince sono i costumi, che nonostante l’aumento di budget continuano a sembrarmi di bassa fattura, finti, un po’ troppo cosplay di se stessi. Non riesco a capire perché dato che i soldi ci sono e hanno pure cambiato la costumista, mettendo Trish Summerville. Peraltro la Summerville su Millennium di Fincher aveva fatto un lavoro fantastico, che mi aveva conquistato. Potrebbe essere un problema mio, a patto che nessuno difenda quel guazzabuglio di ombretto nero che la povera Lawrence si ritrova nella scena dei carri. Roba che imploravo la venuta di una make up guru direttamente da Youtube. Sulla canzone dei Coldplay sugli interminabili titoli di coda (aka i soldi a palate) non ho molto da dire: è una canzone dei Coldplay. Sono invece rimasta colpita dal constatare che sia ancora girato in pellicola. Dato il fallimento della Kodak potrebbe essere uno degli ultimi esempi di questo supporto.
Lo vado a vedere? Nonostante abbiate spalato merda su Gary Ross e continuiate a farlo ancor oggi, il primo alla fine lo avete visto e, delusi dal mancato survival movie splatterone esclusi, vi era anche più o meno piaciuto. Il secondo è quantomeno all’altezza, perciò non ci sono particolari controindicazioni.
Ci shippo qualcuno? Qui mi parte un po’ la tristezza perché relazioni fiutate nel libro le hanno giustamente tagliate per non rendere troppo intuibile l’andamento del finale, cancellando però tutto il materiale su cui si costruiva questa fantasia malata. Per fortuna però una certa respirazione bocca a bocca l’hanno lasciata, ma che magra consolazione!
Il fottuto cervo metaforico – non c’è, ma in compenso c’è Stanley Tucci in cosplay da Carlo Conti, starà pur a simboleggiare qualcosa.
*Nella fattispecie con Re degli Shinigami io intendo quelle introduzioni a forza, dal nulla, di premesse contrastanti con quelle che il creatore ti ha fino a quel momento fornito, dato che probabilmente si è pensato questa scappatoia solo un paio di minuti prima di inserirla. Non pago del suo passo falso, la presenta pure come una nozione ovvia e risaputa, a cui non si è mai accennato prima perché suvvia, si sa. Probabilmente esiste un’espressione tecnica, ma io preferisco usare questa, derivante dal misterioso Re degli Shinigami che in Bleach non viene mai nominato per decine di volumi e poi viene introdotto con un (giuro!) “eh, non è che se non ne parliamo vuol dire che noi non si abbia un re e non sia sempre stato lì dall’inizio”. Ditemi voi se [SPOILER]
il distretto 13 non è il re degli shinigami della situazione[/SPOILER]
Jennifer Lawrence dona il soffio vitale ad un mastodontico golem orbo di spirito.