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dramma familiare obbligatorio, Gerontofilia, Judi Dench, Michelle Fairley, omoaffettività, Oscar 2014, Oscars, piangerone, Sophie Kennedy Clark, Stephen Frears, Steve Coogan, suore preti e altre cristiane malvagità, tratto da una storia di poco falsa, Venezia 70
Film come Philomena sono perfetti per il periodo natalizio e non solo in un’ottica di lancio in vista della stagione dei premi. Godendo insieme a pochissimi altri (Gravity e poi chi altro? Still Life?) di un vero e proprio trampolino di lancio in un edizione sonnolenta della kermesse lagunare, il nuovo film di Steven Frears nasconde ben più della magistrale interpretazione della sua protagonista, divenuta epiteto formulare dell’intera pellicola.
Philomena è un film accessibile a una fetta amplissima di pubblico, che vanta una qualità tale da rassicurare chi va al cinema a Santo Stefano ma non vuole vedere un cinepanettone, senza però essere così autoriale da escludere il pubblico di questi ultimi. I nomi coinvolti e l’interpretazione della Dench finiscono per attrarre anche chi il film autoriale lo cerca anche a Natale, mentre l’equilibrio perfetto tra componente drammatica e lieve ironia (con quel pizzico di relazioni familiari ritrovate che fanno tanto Natale) finisce per accontentare sia chi voleva ridere sia chi voleva il piangerone.
Può suonare un po’ ruffiano (e magari lo è) ma è tutt’altro che semplice confezionare un film di questo tipo. Innanzitutto ci vuole il tratto da una storia vera che garantisca l’autenticità degli intenti, storia che va poi adattata a ritmi ed esigenze dello schermo ed eventualmente ingentilita o drammatizzata a dovere. Poi bisogna procurarsi qualcuno in grado di portarla sullo schermo, che sia in grado di tagliare l’intero film su misura della protagonista, senza però risultare pretenzioso o troppo arrivista.
Logico che uno che ha all’attivo un successo come “The Queen”, con uno splendido ruolo femminile inglese così calibrato da sedurre l’Academy senza eccedere nel manierismo, sia diventato una scelta preferenziale: Stephen Frears sarebbe certo più famoso e stimato se mettesse la propria regia al centro delle pellicole, ma la scelta di mettersi completamente al servizio di un ruolo femminile forte (Tamara Drewe, Elisabetta II, Isabelle de Merteuil) gli ha consegnato i migliori risultati della carriera. Non è solo uno sforzo d’umiltà, è un’abilità abbastanza rara, che se ben sfruttata può rendere una buona storia un film irresistibile per pubblico e critica. Frears non è l’unico regista a saperlo fare, tuttavia è il più fedele ritrattista delle diverse declinazioni dell’animo femminile in chiave inglese, dalla bomba sexy di campagna al simbolo vivente della patria.
Philomena era la sfumatura mancante, l’arzilla anziana dal paesino irlandese, fervente devota ma capace di buttare il cuore oltre l’ostacolo e le convenzioni ben più dei giovani acculturati che la circondano. Quella che non ti aspetteresti mai abbia una storia di gravidanza giovanile ed espiazione forzata a tormentarla dalla gioventù. Se il personaggio permette un confronto cristallino tra lo spirito inglese raffinato fino al cinismo glaciale di Londra (nel giornalista di Coogan e ancor di più nel caporedattore di Michelle Fairley) e il sanguigno, tradizionalista e devotissimo spirito irlandese, l’interpretazione rende la pellicola un prodotto diverso.
Judi Dench non è certo una nuova scoperta ma la bravura con cui fa vivere sullo schermo un personaggio lontanissimo dal suo standard costringe a valutarla sotto una nuova luce. Dench non è “solo” tremendamente brava a incarnare figure femminili forti, di potere, ciniche e ironiche, è eccelsa anche nel fare sue fragilità, frivolezze e ingenuità di una anziana signora come ne potete trovare a decine intorno a voi. Nel modulare la voce, nel tarare i gesti, in ogni atteggiamento Dench è irriconoscibile rispetto alla Dench che ti aspetti. In compenso ci ho rivisto tante micro-espressioni proprie del parentame più vetusto. In Philomena ho trovato persino qualche rassomiglianza con la mia, di nonna, in alcuni gesti (universali?) di titubanza, di senso di stupore verso la modernità, d’istintiva difesa dei valori della tradizione.
Sia Judi Dench che Stephen Frears sono però ottima manovalanza al servizio dell’eminenza grigia del film. Il vero nome da incensare sarebbe quello di Steve Coogan, che si defila nel ruolo abbastanza ingrato del cinico giornalista comprimario di una donna dal cuore grande così. La parabola evolutiva del suo personaggio è la parte più aderente al canone del film dicembrino ruffiano, auto-evidente dalla sua prima apparizione. La sua egregia gestione del ruolo però viene adombrata dalla consapevolezza che tutto il progetto è stato gestito da lui, dalla sceneggiatura tratta dal libro confessione alla produzione. Si diceva di quanto sia difficile ottenere un film commovente e a tratti decisamente piangerone senza però far mancare un tono da commedia e qualche battuta salace. Steve Coogan è quello che ha saputo scovare i nomi giusti che a posteriori sembrano scelte ovvie, senza cadere nella tentazione di mettersi al centro, lasciando il campo sgombro per l’eroina designata fin dal titolo. Anche nella sceneggiatura non si può non riconoscergli parecchia perizia. Un film in cui le suore strappano gli infanti alle giovani ragazze madri per venderli a facoltosi americani se ti sfugge di mano diventa in un attimo un attacco frontale alla chiesa, ma l’intera drammatica vicenda è gestita in maniera oculata, quasi furba nel lasciare a Philomena persino il compito di incarnare quei valori religiosi traditi nella sua gioventù dalle istituzioni religiose.
Lo vado a vedere? Personalmente preferisco il Frears col piede pigiato sul cinismo, capace di rendere il buon romanzo di Laclos un vero gioiello o di ironizzare spietatamente sugli istinti inglesi all’aria del country side. Philomena è un film per tutti, un film che il Tg1 vi consiglierà appassionatamente. Detto questo, l’essere un film accessibile e molto rassicurante a fronte di una storia davvero drammatica non gli impedisce di essere un film davvero riuscito, mai in fallo nell’autocompiacimento in nessuna delle sue parti. Se proprio siete refrattari, andate a vederlo pensando che dietro l’espressione gigiona di Coogan ci sta l’eminenza grigia che rende la Dench meritevole dell’ennesima nomination agli Oscar.
Ci shippo qualcuno? Qui entriamo in un territorio irto di SPOILER, ma diciamo così: per essere un film con protagonista una fervente credente irlandese, dà parecchie soddisfazioni.
Livello piangerone? Medio-alto, anche se l’intento è chiaramente quello di commuovervi dandovi comunque una pacca sulla spalla e sussurrandovi “dai, va tutto bene“. Niente pugnalate alle spalle, niente induzioni al suicidio.