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Cannes 2013, Costumismi, Debbie Reynolds, Ellen Mirojnick, Gerontofilia, HBO, kitsch imperiale, Matt Damon, Michael Douglas, omoaffettività, piangerone, Richard LaGravenese, Rob Lowe, Steven Soderbergh, too gay to be true
Too gay for Hollywood. Con una presentazione così, non mi sarei persa la nuova fatica di Steven Soderbergh manco se mi avessero assicurato essere il suo film peggiore, peggiore persino di Geena Picchia Tutti. Invece di questo Behind The Candelabra si è da subito parlato più che bene e forse in un’annata meno straordinaria sulla Croisette si sarebbe portato a casa di più. Il termine fatica va inteso in senso letterale: infatti il biopic sulla vita del pianista Lee Liberace ha richiesto una gestazione lunghissima, ancor più sorprendente considerando il ritmo di realizzazione mantenuto dal suo profilico regista. Soderbergh meditava da anni di realizzare un film sulla vita di Liberace, ma stentava a trovare un’angolazione al di fuori dei canoni del film biografico. Ora arriva la parte in cui ammetto che io Soderbergh proprio non riesco a inquadrarlo. Soderbergh? Un film su Liberace? EH!? All’uscita del libro confessione di Scott Thorson, il protegé di Liberace interpretato nel film da Matt Damon, Soderbergh ha finalmente il suo scorcio, perciò assolda uno sceneggiatore particolarmente versato nel filone romantico (per non dire nel pacchiano) come Richard LaGravenese. Nel frattempo però l’attore a cui aveva proposto la parte, Michael Douglas, si ammala di una forma gravissima di tumore alla gola. Eppure non sono nemmeno le condizioni gravissime di Douglas a sentenziare l’infattibilità del progetto. L’uomo che ha in rubrica mezza Hollywood e che ha convinto gente integerrima ad affollare i suoi film meno riusciti non è stato in grado di trovare uno studios che gli finanziasse il progetto. Perché? Perché il film era troppo gay.
Nobody would make it. We went to everybody in town. They all said it was too gay. And this is after “Brokeback Mountain” (2005), by the way, which is not as funny as this movie. I was stunned. It made no sense to any of us.
Il filmone di Ang Lee ormai è una pietra angolare, un riferimento obbligato nel campo dal camp al queer. Tuttavia film come “Dietro i Candelabri” o il comico-straziante “I Love You Phillip Morris” hanno un approccio piuttosto diverso. Se i cowboy omosessuali vivevano una storia di esclusione e drammaticità assoluta, nei due esempi successivi il rapporto amoroso e le sue complicazioni vengono gestite in maniera del tutto speculare all’universo eterosessuale, con l’unica concessione visiva di smaccato gusto kitsch. Non è la discriminazione a ferire i protagonisti, bensì i protagonisti stessi. Inoltre entrambi i film puntano su una vena comica, spesso a tinte fosche, relegando la drammaticità in scene ben selezionate. L’aggravante del progetto di Soderbergh è un livello di esplicitazione sessuale ancora maggiore di quello per cui Jim Carrey ha vissuto un periodo di ostracizzazione non ancora del tutto concluso (film che, per inciso, vi consiglio caldamente).
Non è che Hollywood non sia matura abbastanza per un film a tematica gay (lo era nel 2005 e molto, molto prima), ma a mio parere non lo è se la componente omoerotica non viene inquadrata come comprimaria (alla sassy gay friend) o comunque drammatica perché diversa dal consueto. Nonostante la storia di Liberace ruoti proprio intorno al forte diniego di riconoscere il proprio orientamento, al centro viene posta la storia d’amore barocca e distruttiva tra lui e Scott, che si trovano, si amano e si allontanano in qualità di persone, non come simboli di minoranze.
Il film però è tuttora in sala, quindi qualcuno Soderbergh deve pur averlo persuaso. Quel qualcuno è HBO, sempre più gay friendly ma soprattutto affamatissima di progetti qualitativamente rilevanti da mettere sotto contratto, anche in sovrappiù rispetto alle effettive capacità di realizzazione. HBO dà a Soderbergh carta bianca e una ventina di milioni di dollari, commissionandogli un film tv. In Europa si è però deciso di concedergli un passaggio cinematografico, dato che il livello tecnico e l’approccio è del tutto simile a quello consueto al grande schermo, in America invece si è visto solo in televisione. Risultato? HBO gongola in vista di nuovi premi prestigiosi nella categoria miniserie, Soderbergh annuncia che forse il cinema da regista lo molla. Dopo essersi mangiati un candidato con tanti punti forti per gli Oscar, la politica danarosa ma fortemente vincolante rispetto ai contenuti degli studios sta di nuovo spingendo un regista verso il piccolo schermo, attratto dalla possibilità di poter lavorare su progetti dalla vena più autoriale senza per vedersi preclusa la possibilità del successo.
Come molti film dalla produzione sospesa a metà tra tv e cinema (cfr il bellissimo “Mulholland Drive”) Dietro i Candelabri è riuscito a mischiare alla perfezione i suoi elementi, senza rinunciare al tocco unico del suo realizzatore. Insomma, è di gran lunga il film migliore di Steven Soderbergh degli ultimi anni, anche considerando che dopo un paio di pellicole poco convincenti con “Side Effects” e “Magic Mike” aveva cominciato una parabola positiva. A colpire è soprattutto l’inedita parsimonia con cui Soderbergh inserisce nella storia sequenze più personali e graffianti, mantenendo uno stile sobrio e canonico, riservandosi alcuni tocchi di stile senza però mai perdere di vista la storia. Con un bilanciamento così calibrato, la bellissima scena finale risulta magica e autentica nel restituire l’essenza del personaggio. Qua e là poi le aggiunte del regista brillano, come le sequenze da vortice della droga di Scott o i titoli di coda.
Per una volta Soderbergh non si limita a richiamare alla sua corte grandi nomi, ma si mette genuinamente al servizio del loro talento, favorendone il lavoro. Difficile dire chi sia più bravo tra un Michael Douglas veramente rassomigliante a Liberace e un Matt Damon convincente nel suo “puritanesimo da checca” (per dirla alla Liberace), capace di essere un credibile giovane amante pur avendo quasi il doppio degli anni che il vero Scott aveva ai tempi della relazione. Relazione che rimane al centro della storia, emozionale senza risparmiarsi mai l’onestà di mostrare la manipolazione degli affetti dell’uno e l’incoscienza giovanile dell’altro. La parabola grottesca di un giovane ora amante, ora figlio, ora esperimento, plasmato da Liberace a suon di chirurgia plastica e lusinghe per diventare una piccola copia di sé, è compiuta e perfetta, senza sconti, senza però mettere mai da parte l’affetto che stava alla base di una storia d’amore tra lusso e disperazione. Ci tengo però a citare nel pollaio di amanti e mantenuti di Liberace anche l’interpretazione di un superbo Rob Lowe, chirurgo plastico e dietologo dalla faccia e dai principi devastati, vera icona della spregiudicatezza degli anni ’80. Il poveretto ha recitato con i tratti del volto letteralmente tirati a suon di nastro adesivo (come facevano le dive prima della chirurgia estetica) e l’effetto è più o meno quello di aver trovato il figlio segreto di Lucille Bluth. Impagabile.
Lo vado a vedere? Se c’è un film che merita di essere sovvenzionato in un periodo pur ricco al botteghino è proprio questo. Niente accelerazioni nel territorio camp per arruffianarsi le vostre simpatie, solo una tormentata storia d’amore che corona il biopic di una carriera di successo all’ombra di un segreto di Pulcinella. La produzione peraltro è spettacolare, basta dare un’occhiata ai costumi realizzati da Ellen Mirojnick per capire che HBO ha lavorato al meglio.
Ci shippo qualcuno? Domanda superflua, quindi occuperò questo spazio con una gif del chirurgo interpretato da Rob Lowe.
Coefficiente fazzolettini? Nemmeno tanto, forse perché la vita di Liberace si svolge secondo gli step canonici del film biografico, sicuramente perché come il protagonista il film ha come missione quella di divertire lo spettatore, sempre.
Quando la prima volta, lungo gli Champs Elysee, vidi la locandina di questo film, dissi alla mia ragazza: “Hai visto? Gigi Proietti è sbarcato a Hollywood!”. La mia ragazza mi ha ingiustamente ricoperto di insulti e mi ha spiegato che non era Gigione. Mesi dopo abbiamo sentito la notizia del “troppo gay” che presa così, a secco, non significa proprio niente di niente e abbiamo trascurato la visione del suddetto film. Direi che ti ringraziamo per averci convinto e ti consiglio di cercare dei video di “A me gli occhi, please” dove Micheal Douglas interpreta un giovane attore con l’accento romano.
Effettivamente è molto gay.
e detto da noi suona quasi allarmante.
Beh, non ho detto “troppo gay”.
Esiste davvero qualcosa di simile? No, perché vorrei recuperarla, nel caso.