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adolescenti problematici, chiamare le cose col loro nome, dramma familiare obbligatorio, film col dramma dentro, Gente che Cammina, Gillian Anderson, Kacey Mottet Klein, Léa Seydoux, Ursula Meier
Sister è il classico piccolo film davvero notevole che uno finisce per perdersi a fronte di un’intera annata cinematografica cui star dietro. Insomma, se ne parlò parecchio bene ai tempi (era Berlino, mi pare), però Ursula Meier non è esattamente un nome che aumenta la priorità di recupero. Ai tempi non lo era nemmeno la bionda glaciale di “Mission Impossibile: Ghost Protocol”, quella che poi abbiamo amato e per cui abbiamo sofferto nel capolavoro di Kechiche. Léa Seydoux e la curiosità di capire se ci fosse del potenziale attoriale anche prima dello splendido film su Adéle mi hanno riportato sui miei passi. Risultato: una performance stupenda della nostra, tra il genuinamente inquieto e il vividamente spiazzante, ricca di quell’autenticità con cui Sofia Coppola consegnava alla notorietà planetaria una Scarlett Johansson ancora inconsapevole del suo fascino.
Il titolo internazionale mette al centro quella sorella che in realtà svolge una funzione quasi ai margini del film (per visibilità, non per importanza), di cui è assoluto protagonista Simon, “il bambino di lassù”, come spiega il titolo originale. Lo sviluppo della pellicola è diviso tra una ricca stazione sciistica dove il ragazzino ruba scii e altro materiale sportivo e il caseggiato popolare a fondo valle dove rivende la merce e mette insieme con fatica il necessario per sopravvivere e sostentare anche l’inquieta sorella. Maggiore per età, è chiaro fin da subito che la ragazza è incastrata in una difficile ragnatela sentimentale di uomini sbagliati, dimentica del fratello e solo a tratti consapevole delle sue responsabilità verso lo stesso.
Man mano che il film scorre, allo spettatore viene mostrato per intero non solo lo squallore dell’esistenza di Simon, esposto dalla sorella alla convivenza forzata con gli uomini con cui intrattiene relazioni sessuali saltuarie, ma anche il complicato legame affettivo che li unisce, fino alla spiazzante rivelazione di metà film. Contemporaneamente, con una regia essenziale ma non privata di una certa eleganza dal budget ristretto, Ursula Meier completa l’analisi psicologica del giovane protagonista e come sotto l’apparente attitudine matura verso la sorella e la casa affiori talvolta il bisogno emotivo disperato di poter comportarsi come la sua età e il suo legame parentale presupporrebbero.
In questa cornice, il film raggiunge due picchi emotivi impressionanti, presentati senza particolari sviolinate, con quieto realismo, e per questo ancora più stordenti. Il primo vede il bravissimo Kacey Mottet Klein costretto a comprarsi letteralmente l’affetto della parente più prossima in un momento di debolezza emotiva, che lo porterà ad affrontare una situazione economica drammatica estrema di fronte all’ennesimo fallimento della Seydoux come responsabile della sua tutela. Il secondo è una scena velocissima, di appena una ventina di secondi, che non a caso arriva poco dopo l’unico momento in cui Simon cede veramente alla drammaticità della propria condizione di estrema solitudine. Sulla funivia con cui sta scendendo in paese vede risalire la sorella, presumibilmente alla sua ricerca. Un’espressione palpabile, quasi fisica dell’impossibilità del loro rapporto di sangue di funzionare nello stesso senso, di vederli vicini e emotivamente disponibili l’uno con l’altra nello spesso momento.
Oltre al piccolo protagonista, davvero bravissimo, colpisce proprio il ritratto durissimo che Léa Seydoux riesce a restituire di una giovane donna incoerente, le cui sporadiche manifestazioni d’affetto vengono annegate nella rudezza e non curanza con cui si lascia alle spalle un bambino che dipende da lei solo emotivamente e che anzi, utilizza la sua relativa sicurezza economica per legarla a sé (o almeno assicurarsene l’affetto e il rientro a casa, prima o poi). Nel cast fa anche una fugace apparizione Gillian Anderson, una delle ricche prede di Simon, ben presto da lui trasformata nella madre surrogato che porta persino una vena di gelosia nella complicatissima relazione che lo lega alla sorella.
Lo recupero? Molto consigliato. Nonostante l’estrema condizione di disagio sociale dipinta nel film, non siamo di fronte a un film PESO, vuoi per lo stile asciutto, realistico ma mai piagnone con cui viene dipinta la vicenda, vuoi per l’intossicante relazione familiare al centro della storia, vero motore narrativo della vicenda e catalizzatore dell’attenzione dello spettatore.
Ci shippo qualcuno? Non direi proprio, ma [SPOILER] ovviamente dalla rivelazione di metà film è difficile non vederci qua e là qualche nota incestuosa tra Simon e la madre. Non mi pare il caso di fare una colpa al ragazzino, poveretto. [/SPOILER]