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frozen locandinaLa fusione tra Disney e Pixar ha rimescolato le carte in tavola, così come la presenza di John Lasseter in veste di produttore o ideatore nei progetti ora dell’una e ora dell’altra branchia della Casa del Topo, ultimamente nemmeno troppo intenzionate a dissimulare una certa rivalità di meriti artistici e commerciali.
A riprova di questo assunto, dopo una serie di progetti non proprio riuscitissimi della Pixar con Lasseter assente o comunque ai margini, ecco spuntare in stretta sequenza tre film  più vicini al canone Disney capaci di attirare l’attenzione su di sé per il più o meno riuscito matrimonio tra innovazione e tradizione: Tangled, Brave e Frozen, che suggella con il suo notevole successo una sorta di trilogia femminile rifondativa del canone disneyano. O il trend del titolo secco di una sola parola, volendo.

Occhio, [SPOILER] consistenti dato che è già passato un bel po’ di tempo dall’uscita italiana.

Frozen era partito un po’ in sordina, vuoi perché “La Regina delle Nevi” godeva già di magnifiche trasposizioni, vuoi perché sembrava un lucrare sulla magica atmosfera del bianco Natale, vuoi perché l’adattamento disneyano del classico di Hans Christian Andersen era già naufragato tante volte da costituire una storia a sé.

Il cambio di marcia arriva ancora una volta da una creativa, Jennifer Lee, a cui viene messa in mano prima la sceneggiatura e successivamente la regia, anche se in tandem con Chris Buck (fate partire il roll eyes legittimo e il conto alla rovescia infinito verso un film d’animazione Disney diretto *solo* da una donna). Aggiunge il fattore x costituito da una canzone così orecchiabile, trascinante ed emotivamente perfetta da convincere l’intero team a tornare sul personaggio di Elsa e a trasformarlo da cattiva putativa della storia a giovane emarginata perché diversa.
Orfana del malvagio di turno ma in possesso di una canzone come “Let it Go“, che rende un banalissimo make over una scena immediatamente iconica, Jennifer Lee torna sullo script, rimescola la classica storia principesca con tanti elementi che, guarda caso, erano già presenti nel travagliatissimo e confusionario Brave e nel già sorprendente Rapunzel.

Così torna il bacio del vero amore inefficace ed inutile, perché l’eroina è in grado di salvarsi da sé, in un film che mette al centro non un innamoramento repentino, bensì il legame affettivo più radicato della famiglia. La volitiva Elsa e la rutilante Anna riprendono quel discorso di legami familiari che Brave aveva saputo mettere al centro, spostando il focus dalla ricerca di un marito ideale per la protagonista al suo difficile rapporto con la madre. Qui ad essere messo in crisi non è solo il rapporto tra due sorelle sulla soglia dell’età adulta, ma anche la stessa rilevanza del matrimonio come realizzazione personale dell’eroina, con ben due dei protagonisti che danno apertamente ad Anna della superficiale per essersi ficcata in un fidanzamento dopo un solo giorno di conoscenza. Persino la storia con il suo sviluppo sposa questa visione, confermando l’importanza del legame familiare o di quello acquisito attraverso la conoscenza reciproca rispetto alla sintonia innata sbocciata nel giro di una sera. Se non si era capito, cinque alto a chiunque si sia pensato questa svolta.
E se tanto mi dà tanto, dato che la protagonista di Brave è lesbica perché non pensa al matrimonio, allora Elsa non la racconta giusta, dato che lascia che la sorella minore si sposi prima di lei!

Mentre lo sviluppo della trama riesce ad essere innovativo e gradevole, il tocco più tradizionale è percepibile nell’uso della colonna sonora di Christophe Beck, costellata di così tanti brani musicali da rendere il lungometraggio simile a un musical. Rispetto al passato però si è recuperata la centralità della canzone e la sua dignità, la sua funzione emotiva e narrativa più che l’orpello orecchiabile con cui magari aspirare a un’altra statuetta. La canzone geograficamente introduttiva in apertura del film, il self empowerment delle protagoniste, la canzone dell’innamoramento…parecchi brani, oltre che ad essere ben sopra la media, funzionano benissimo proprio perché utilizzati secondo il metodo più classico.

elsa anna palazzo brave

Il risultato è stato un film che ha praticamente galoppato al botteghino, scalzando qualsiasi timore precedente l’uscita e conquistando critica e pubblico. Devo ammettere però che Frozen mi convince fino a un certo punto, dato che nei suoi pregi vedo molto di quanto si era tentato di fare in Brave (che ho rivalutato molto nel tempo), salvo poi ripiegare spaventati da tanta innovazione. Nei suoi difetti invece ci vedo unicamente problemi legati al rimaneggiamento repentino della sceneggiatura:

  1. Esteteticamente ho trovato Frozen un po’ deludente. Chiariamo; stiamo parlando di un prodotto di livello altissimo, che si va a impelagare in uno degli elementi più difficile in assoluto da animare, l’acqua in qualsiasi forma e stato. Sui costumi e sul design della cittadina in riva al fiordo si percepisce nettamente un lavoro all’altezza della nomea Disney, un mix di viaggi in loco, rielaborazioni e ritorno di un figliol prodigo come Michael Giaimo (quello che partorì l’inconfondibile design di Pocahontas) dopo la cacciata di qualche anno fa. Soprattutto sui costumi e sulle ambientazioni si nota un processo d’innovazione che spinge anche l’animazione di questi elementi a non subire l’estrema stilizzazione che la precedente potenza di calcolo non eccelsa imponeva nel gestire i poligoni.
    Il mio scontento deriva da due constatazioni. La prima è che come resa qualitativa sboroneggiante per livello di dettaglio mi pare che la Dreamworks con “Le 5 Leggende” sia ancora un passo avanti alla Disney. La seconda risponde alla probabile obiezione che avrete sollevato: il livello di dettaglio e resa realistica non sono tutto. Verissimo! Mi sta bene un film che non ricerchi nel capello superdefinito del protagonista il suo scopo d’essere (anche se i capelli di Jack Frost, diciamolo, glie fanno un baffo alle trecce di Elsa e Anna), però allora voglio che la maggior semplificazione del design coincida anche con una identità visiva inconfondibile, specie se hai a disposizione Giaimo. Non è che nel passaggio da 2D a 3D si debba necessariamente sacrificare quello stile ben definitivo, che rendere unico ogni film animato tradizionalmente rispetto all’altro (e che appunto, ha uno degli esempi più iconici proprio in Pocahontas). Invece no, Frozen si assesta pigramente in zona Tangled, dove Brave almeno si sforzava con silhouette più curvilinee e un hair porn micidiale. Altro dettaglio francamente sconcertante: l’assoluta monotonia del tratti somatici delle protagoniste. La madre di Anna e Elsa è identica ad Elsa “seria” con i capelli più scuri. E con identica intendo dire identica!
  2. I genitori, argomento dolentissimo nel mondo fiabesco in sé, lo ammetto. A parte che dai, siamo nel 2014 e ancora c’è gente che parte per un viaggio in mare dicendo ai figli “No ma tranquillo, torneremo sicuramente prestissimo!”. Si è mai sentita frase più mortale di questa? No.
    Purtroppo la necessità di ribaltare la valenza di Elsa rende i genitori delle creature crudelissime, se solo uno avesse il tempo di pensarci prima che schiattino miseramente nel giro di cinque minuti. Cioè, tutta la storia del “siccome il tuo potere potrebbe portare sfiga, chiuditi nella tua stanza, traumatizzati, isolati e per l’amor del cielo, rifletti questo trauma sulla tua sorellina. E per sicurezza isoliamo nel castello pure lei, tanto per“. Almeno ci fosse stata la classica maledizione del piffero stile Bestia con la rosa, avrebbe avuto un senso. Una cosa tipo “io papà Troll ti salvo la sorellina ma nel caso lei dovesse scoprire che c’hai i poteri, morirebbe sul colpo“. Ammettiamolo: suona coerente e plausibile da dio. Così i due genitori dispersi non sarebbero passati per dei sadici maniaci del controllo.
  3. Infine non proprio una critica, quanto un’esortazione: rivalutiamo Hans delle isole del sud. Cacchio, ma perché dovrebbe essere un cattivo? Solo perché ha più o meno tentato di coppare le due sorelle? Ah sì? Adesso facciamo una colpa a un povero ragazzo che invece di pesare sulla famiglia schioda e cerca di sistemarsi da solo, anche a costo di venire coinvolto in duetti canterini con una principessa un po’ strana (e vivaddio, incapace di far venire i complessi alle bambine perché così aggraziata nel muoversi e nel parlare!) (e apprezzo anche il fatto che nel fighissimo make over abitativo e vestiario di Elsa la sua trasformazione implichi che si metta a sculettare). E poi diciamolo: chi si merita di regnare su Arendelle? Le due sorelle che per tutto il film piantano in asso il paese per risolvere le loro vicende personali o il povero Hans, che rimane lì ad aiutare la popolazione, distribuire coperte e proteggere la cittadina dalle speculazioni commerciali dei vicini? E chi è che azzoppa il guardiano di neve, eh, eh? Hans, sono degli ingrati.frozen anna kristoff olaf renna

Lo recupero? Direi di sì, anche solo per metterti a cantare con il resto del mondo quella canzone. Non è proprio il caso di fare gli schizzinosi. Roba buona.
Ci shippo qualcuno? Mhhhh, no. Non sono molto sicura però, perché il materiale Disney tende a tirar fuori il peggio dalla gente. Lo dico con affetto.
La scena cult: la scena del make over / trasformazione di Elsa è qualcosa di esteticamente appagante, anche mettendo tra parentesi la splendida canzone. Appagante tipo trasformazione di Sailor Moon. Cioè, già la scena del make over è il traguardo di ogni film che si rispetti in cui una donna impara a prendersi cura di sé, ma credo che una che si costruisce quel palazzo lì (totalmente abusivo, poi quando arrivano quelli di Legambiente gli faranno un mazzo tanto) nel giro di una serata, si crea quella mantellina ma soprattutto si prende la libertà di sculettare in un film Disney, c’ha veramente tutta la mia stima.