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La prima considerazione a caldo che mi è venuto spontaneo fare a fine film è stata di sorpresa per la rinnovata giovinezza registica di Martin Scorsese.
In un mondo culturale spesso assediato da grandi menti offuscate dall’età, che usano la loro gloria passata per farsi portabandiera di idee retrograde, allarmate e difensive verso il cambiamento sociale e tecnologico, fa proprio bene al cuore e al cervello vedere un film con una carica energetica tale da suscitare lo sdegno del pubblico anzianotto delle proiezioni in chiave Oscar. Quello è sempre un ottimo segnale.

Una raccomandazione comunque ci sta: nel caso linguaggio scurrile o i vizi capitali tocchino la vostra sensibilità, forse è il caso di rifletterci attentamente prima di andare al cinema. Non si tratta esattamente di un film per bacchettoni, anche se confido che il contenuto stesso di questo blog selezioni naturalmente aspiranti spettatori meno facilmente scandalizzabili (ovvero: lo so che siete tutti scaricatori di porto almeno quanto me).
“The Wolf of Wall Street” però è ben lontano dall’essere eccessivo o volgare. Di fatto di fronte a un mondo finanziario connotato dall’eccesso più estremo, ci si tuffa dentro a capofitto e lascia che siano le stesse immagini a ritrarlo, riducendo al minimo qualsiasi filtro moraleggiante. Con la dovuta distanza temporale, la rievocazione di quel turbine di malaffare, corruzione, depravazione, sesso, droga di qualsiasi forma e genere, lusso ostentato e un percepito collettivo praticamente scevro da critiche verso chi conduceva un’esistenza di questo tipo è riuscita a diventare materiale comico, elemento che un’epoca di urlatissima austerity rende ancora più efficace.
The Wolf of Wall Street è un viaggio nelle logiche finanziarie estremizzate fino al culto del denaro stesso come unico idolo, logiche oggi ampiamente analizzate e ammantate di costruzioni culturali e morali. Nel film invece vengono esplorate negli anni in cui il sogno americano era a portata di mano di chi aveva abbastanza fegato per tentare l’azzardo e abbastanza spregiudicatezza per farlo ai danni dei portafogli altrui. L’epoca in cui farcela era il salvacondotto di fronte all’opinione pubblica, piena di ammirazione e tutto sommato indifferente alla pila di cadaveri e portafogli calpestati, pur di potersi portare a casa un piccolo pezzetto dell’impero (o l’impressione di averlo fatto).

L’idea di mettere al centro un attore come Leonardo DiCaprio, completamente a suo agio in un ruolo tanto istrionico e sopra le righe, è la ciliegina sulla torta di un regno cinematografico, quello di Scorsese, che dopo anni di mezzi successi ha ritrovato una seconda stagione dorata.
Che Scorsese da tempo si sia imposto come missione quella di mantenere come musa di lusso DiCaprio fino a fagli vincere questo benedetto Oscar è palese, ma negli ultimi tempi gli sta cucendo platealmente addosso i suoi film, con ruoli in grado di esaltarne la naturale predisposizione ad attirare l’attenzione. Qui in particolare il film si apre con un Jordan Belfort già esaltatissimo che si rivolge direttamente al pubblico, ora via voice over ora direttamente in camera. Che lo sappiamo che sono malevola io, sì, ma esiste un modo migliore per ovviare a una recitazione che tende ad essere sempre un filo eccessiva? Scorsese la lezione di “The Aviator” se la ricorda bene e ha evitato toni pomposi e le eccessive pretese di drammaticità e naturalismo da cui le peculiarità di DiCaprio escono puntualmente svilite. Ha invece percorso la strada aperta da Tarantino con “Django Unchained”, uno che guarda caso per i casting azzeccati c’ha un occhio incredibile. Mossa che, a ben vedere, si era giocato anche il non altrettanto apprezzato Luhrmann.
Visto che oggi mi sento veramente malefica, azzardo: dopo le numerose rivelazioni circa i bollenti anni dietro le quinte del DiCaprio idolo delle ragazzine (per chi se lo fosse perso: droga e puttane a pioggia), uno sa di avere anche un attore in grado di rendere realisticamente le scene più libertine, quelle con il volto stravolto dalle droghe o il sedere…no, veramente, complimenti per il coraggio dimostrato per aver mantenuto la scena della candela nel montaggio finale.

Sulla regia di Martin Scorsese ho pochissimo da dire, perché bisogna veramente vederla per credere a quanto si è scritto sulla sua freschezza e forza espressiva (e complimenti a Tarantino per essere diventato il metro di paragone per la regia di Scorsese tra i giornalisti…se questo non significa essere arrivati, non saprei che altro). Decisamente più ricca di mezzi della media delle pellicole in cui mi cimento, rimane comunque un cumulo di dollari spesi benissimo. Che gioia vedere un film libero di sperimentare ed esagerare, in cui la creatività non è figlia dell’annoso quesito “come giriamo questa scena con questo budget?”!
Oltre ai classici movimenti di macchina che riescono a rendere incalzanti persino i passaggi nella claustrofobica varietà di uffici composti da file e file di scrivanie, che dire dei rallenti col commento in voice over o del continuo gioco di rilettura degli eventi tra il percepito di Belfort e la realtà che puntualmente lo smentisce? La scena del country club ha un equilibrio nell’instillare un dubbio che è mancato nel climax narrativo di Gravity. Oltre a questo citatissimo esempio, anche il tira e molla con la Duchessa novella madre continua a ribaltare il ruolo del marito da oggetto di improperi a persona col coltello dalla parte del manico.

Il punto fisso della pellicola, più che Belfort stesso, è la centralità del denaro nelle vite dei suoi protagonisti. Terence Winter ha fatto un lavoro pazzesco con la biografia del protagonista, creando una sceneggiatura che tratteggia un ritratto di un’epoca e un ambiente elitario in maniera ferocemente divertente, in cui il cinismo e la mancanza di umanità dei protagonisti risultano gli elementi da cui scaturisce buona parte della comicità. Sostanzialmente ci si ritrova a ridere per come le emergenze finanziarie travolgano tutto, morte e lutto inclusi. Se sei morto non puoi più far soldi, quindi la tua scomparsa viene annotata nel registro contabile con poco più di un’esclamazione di sorpresa e via, a rotta di collo verso l’autodistruzione.
Winter nasconde nella costruzione stessa del film, che segue i canoni del biopic per tradirli puntualmente, l’unico commento possibile, la centralità immutata del denaro (e del potere che deriva dallo stesso), irradiatasi da Wall Street fino ad ogni nicchia sociale, carcere incluso. In particolare il finale, dove viene meno il lato più bonario, regala un bilancio terribile.
Evitando di spoilerare troppo, quando Belfort per un momento smette di essere un lupo (classico meccanismo narrativo di redenzione e umanizzazione), finisce per smascherare la belva alternativa, forse il vero rapace dell’intera vicenda. Il Donnie di Jonah Hill a mio parere è eccezionale perché, pur avendo due delle scene più estreme del film (quella del pesce e quella dell’apprezzamento fisico alla Duchessa) si rivela appieno solo a film finito e solo considerando come entri ed esca dal giro di idioti su cui Jordan costruisce il suo impero. Ecco, Hill ha quello che manca a DiCaprio; la capacità di impersonare un personaggio tanto eccessivo sottovoce (per non parlare della continua ambiguità sessuale che lo caratterizza, ve lo ricordate J. Edgar?), lasciando che sia lo spettatore a tirarne le somme. Forse la perfomance di Hill l’ho apprezzata ancor più della fugace guida nel mondo della finanza fornita da un lanciatissimo Matthew McConaughey, intrappolato nell’ultimo anno in un perpetuo stato di grazia. Tanti e tali sono gli interpreti del film che si rischia un po’ di finire per fare uno sterile elenco. Peccato, perché altrove avremmo sicuramente parlato anche di personaggi secondari come il banchiere svizzero di Jean Dujardin.

Il punto più alto della scrittura però viene raggiunto nella doppia scena finale, dove ancora una volta la considerazione è suggerita dal tradimento dei canoni del genere biografico. Kyle Chandler, condannato a ruoli gioco forza poco memorabili (l’investigatore FBI retto e onesto, in questo film! Povero!), se ne torna a casa in metropolitana, circondato dallo squallore che il suo antagonista ha rifuggito per tutto il film, con la faccia di uno che ha fatto la cosa giusta. Puntualmente però la scena successiva suggerisce quanto i suoi sforzi siano stati vani, ritinteggiandola di uno squallore micidiale.
Ecco, non sarebbe stato male avere una contrapposizione simile per i personaggi femminili. Con tutto che viene praticamente urlato quanto il circolo della finanza fosse (sia?) un mondo ossessionato dalla virilità, omofobo e sessista oltre ogni dire, fa comunque male come l’unico ritratto possibile sia stato quello dell’umiliazione delle sporadiche apparizioni femminili. Prostituzione, rasature semi-indotte, telecamere nascoste e tradimenti commentati con tono paternalistico. Peccato che nessuna delle vittime dia mai una risposta men che consueta. Margot Robbie passa dall’essere lo schianto da sedurre alla donna provocatrice e drogata di shopping, dalla moglie bisbetica alla madre spaventata. Praticamente l’unica parte scontata di un film sempre capace di sorprendere.

Lo vado a vedere? Pur riconoscendo la grandezza del film, non mi sento di consigliarlo a priori. Non è un film perfetto, soprattutto per l’eccessiva lunghezza. Non sarei in grado di individuare una scena chiaramente superflua, ma l’impressione rimane comunque quella di un scarso dono di sintesi e di ripetizione, forse un po’ pesante nell’ultima parte. Personalmente l’utilizzo di nudità e volgarità inserito in questo tipo di contesto non mi disturba, però non garantisco per tutti. Un DiCaprio spot di tre ore con un ruolo tanto istrionico e sornione invece so di per certo che per molti sarà una tortura insopportabile, specie se con la voce dell’odiatissimo doppiatore italiano. Io ho avuto la fortuna di recuperarlo in originale e voi dopo tanti anni dovreste ormai sapere qual è il vostro livello di tolleranza per questo genere di ruoli dicapriani. Regolatevi.
Ci shippo qualcuno? Sì, almeno almeno Jonah Hill e Leonardo DiCaprio, legame di amicizia sulle cui vibrazioni sensuali non fa mistero nemmeno il film stesso. Inoltre la scena del festino del maggiordomo fa un po’ di giustizia a un film popolato di un sacco di sessualità spinta, ma prevalentemente eterosessuale e come prestazione lavorativa o antistress.
Menzione d’onore alle chiappe di DiCaprio nella scena della candela. Stavo per fare una battuta bruttissima sul fatto di cosa non si fa infilare uno per vincere l’Oscar però, se lo chiedete a me, sarà un altro anno di Sad Leo Faces. Chissà come potrà superarsi l’anno prossimo il nostro!
C’è anche un po’ d’Italia – dai, viene un moto d’orgoglio quando nel post naugragio parte Tozzi (che quest’anno peraltro è ovunque, cfr. “Gloria”).