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Berlinale, Berlinale 64, c'e' anche un po' d'Italia, Celina Murga, Claudia Llosa, Diao Yinan, Domink Graf, Edoardo Winspeare, Edward Berger, film PESO, George Clooney, Gianni Amelio, Hans Petter Moland, Jalil Lespert, Karim Aïnouz, Richard Linklater, Saoirse Ronan, vincitore di premio a forma di qualcosa di un metallo solitamente dorato, Wes Anderson, Yann Demange, Yannis Economides
Il Festival internazionale del film di Berlino non è esattamente in cima alla mia personale classifica di kermesse cinematografiche da tenere d’occhio. Motivo: la selezione è accuratamente realizzata per essere rappresentativa di tutti i film più PESO dell’annata in questione. Quando va bene sono bellissimi film PESO, quando va male sono mattonate indigeribili.
Inoltre ammetto di essere più propensa a contesti più glamour e hollywoodiani, mentre talvolta la Berlinale sembra un residuato dell’atmosfera rigida e fatiscente dell’ex Berlino est.
Stavolta però mi sono detta: chissà, magari mi sto perdendo dei filmoni che più avanti adorerò solo perché hanno l’icona dell’orso in locandina e non la palmetta. Ecco a voi una rapida selezione dei film più interessanti presentati dentro e fuori il concorso. A voi l’ardua sentenza.
[AGGIORNATO CON I VINCITORI]
The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson ha aperto la sessantaquattresima edizione della Berlinale. Per dire, il film di un regista così particolare sopperisce al ruolo di filmone mainstream con cui aprire il concorso, a Berlino.
Per quanto lapalissiano possa suonare, TGBH è un film di Wes Anderson, quindi un racconto dai toni da fiaba e dall’allure visiva incantevole. In un delicato gioco di cornici e rimandi, una ragazza sta leggendo un libro in cui un uomo racconta di una cena che si è svolta durante la sua gioventù nell’albergo omonimo, ora fatiscente. Cast kilometrico (tra cui figurano Tilda Swinton, Saoirse Ronan, Ralph Fiennes, Adrien Brody) e bizzarrie sempre dietro l’angolo. A quanto mi è parso di capire è un film più spensierato del passato, una storia raccontata per il gusto di divertire senza grandi pretese di, incapace di conquistare i detrattori del regista che gli contestano una certa fissità nello stile e nelle storie. Supposti detrattori, dato che il film è comunque piaciuto praticamente a tutti e Anderson non sbaglia un colpo da anni.
Secondo film in concorso e sono già a corto di opinioni fondate. Jack narra la storia di un bimbo la cui mamma improvvisamente scompare. Il bambino si accolla il fratellino minore e parte alla ricerca dell’irreperibile madre, ovvero una stronza irresponsabile o giù di lì, gli adulti sono tutti degli psicotici e poverello il protagonista che si subisce tutto questo PESO. Sembra la fotocopia di Sister (sempre made in Berlinale) ma con meno ispirazione e più camera a spalla. Il regista si chiama Edward Berger e bazzica più la TV del grande schermo. Direi dimenticabile in 3,2,1…
Two men in Town (La voie de l’ennemi) è un remake così interessante di un film francese del 1978 che non c’ha una locandina disponibile che sia una. Rachid Bouchareb dirige la storia di un carcerato che decide di rimanere sulla retta via dopo un lungo periodo di detenzione, grazie all’aiuto della donna preposta alla sua custodia. Un altro tutore della legge, il collega di un agente ammazzato dal protagonista, non è dello stesso parere e farà di tutto per ottenere vendetta. A quanto ho capito l’originale era decisamente più incazzoso verso le forze di polizia e, nonostante il cast della versione 2014 non sia poi malaccio, il film proprio non merita il nostro tempo.
Yves Saint Laurent non è un film in concorso, ma mi pareva brutto non includere un film dalla sicura omoaffettività in un panorama tanto desolato. Non lo faccio certo per il clamore suscitato, dato che mi pare di percepire solo sbadigli.
Trattasi dell’ennesimo biopic a tema modaiolo, Jalil Lespert. A quanto pare è proprio lo stilista a non uscirne benissimo, dato che il film si dimostra incapace di mostrare la sua genialità attraverso i fatti, limitandosi a farla ripetere a tutti i personaggi in scena. Purtroppo le recensioni serie non sottolineano quanto sia godibile il rapporto lavorativo che sfocia nell’affettivo tra Guillaume Gallienne e Pierre Niney. Inutili.
EDIT: poi però ho visto il trailer (già nelle sale italiane) e ho visto Yves che fa gli occhioni dolci francesi all’altro tizio e ho deciso che si può fare, perché non è che si shippino personaggi francesi vestiti con stile tutti i giorni.
Nuoc è un film distopico vietnamita in cui il mondo è stato sommerso dalle acque e son cazzi amari per tutti, all’incirca. Il regista è tale Minh Nguyen-Vo (chi?) e non è in concorso ma volevo parlarne perché il film è così tremendo che sono andata di proposito a cercarmi le recensioni dei sopravvissuti alla visione solo per leggere le loro sofferte testimonianze.
A quanto pare l’unica cosa passabile è la locandina.
Love is strange sta nella sezione Forum che di solito è abbastanza ignobile rispetto a Panorama, invece quest’anno stanno tutti a dire il contrario. Film di Ira Sachs che narra le peripezie di una rodata coppia omosessuale newyorkese che decide di sposarsi e nel farlo viene investita da un sacco di sfighe tanto che finiscono a vivere separatamente per un certo periodo di tempo. Le prime impressioni della critica sono davvero buone. Pare spiritoso (anche se il cumulo di sfighe PESO non poteva mancare) e soprattutto, crogioliamoci per un momento in un elenco di attori di cui so scrivere il nome e di cui conosco i lineamenti: Marisa Tomei, Alfred Molina, Charlie Tahan. Però niente locandina, bu!
The Monuments Men è talmente una ciofeca che ha suscitato un tono di sufficienza persino nell’ala buonista della stampa italiana, però finalmente non devo scavare per capire chi ha girato cosa. Finalmente un po’ di Hollywood sul tappeto rosso.
George Clooney racconta la storia di un gruppo di specialisti dell’arte che per conto degli americani hanno salvato numerosi manufatti dalle grinfie dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale.
Americana fatta e finita dove la storia d’amore sembra eclissare del tutto (o quasi) la brutalità del conflitto, tanto che alcuni hanno parlato di toni disneyiani.
Beloved Sister (Die geliebten Schwestern) è il period movie PESO in cui sono pronta a gettarmi incurante delle sue quasi tre ore di durata. In fatto di film PESO, il punto è trovare la pesantezza che si è disposti a sopportare e la versione incestuosa di Bright Star si adatta perfettamente al mio profilo. Domink Graf infatti ci ricorda che Friedrich Schiller era sì spiantato come Keats, ma non altrettanto schivo, così dopo aver fatto amicizia con due sorelle di nobilità decaduta ne sposa una e diventa amante dell’altra. Dal titolo però è facile immagine che la prospettiva sarà quella delle due donne e dalla durata che il triangolo non durerà in eterno. La critica che gli rimprovera di essere un infinito drammone storico non fa che farmi sbavare più copiosamente.
’71 è il film PESO di guerra di cui cominciavo a sentire la mancanza (not).
1971, Belfast, Irlanda: il posticino ideale per fare vita tranquilla, specie se supporti i movimenti indipendentisti locali e l’Ighilterra non la prende benissimo.
Quasi tutto in notturna, quasi tutto con camera a spalla, violenza, botte, sopravvivenza, fuorilegge in un periodo in cui l’Irlanda era di fatto un territorio devastato dalla guerra.
Sono abbastanza sicura che non sia brutto ma per convincermi a imbarcarmi in questa impresa Yann Demange doveva fare molto più clamore o ingaggiare qualche attore irrinunciabile per la sottoscritta.
Nymphomaniac è l’evento odierno e non solo per il contenuto provocatorio e la bagarre che ogni film di Lars Von Trier sa suscitare (specie se quell’insopportabile di Shia LeBeouf fa pure il polemico). In due ore scarse un donna racconta otto episodi della sua vita (sessuale) a uno sconosciuto per provargli la sua autodiagnosticata ninfomania. Una pioggia di facce conosciute: Uma Thurman, Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård, Jamie Bell, Cristian Slater, tutti in versione osé. E siamo solo al volume uno di un film salvato dall’autoironia depressiva che permea i suoi episodi dall’atmosfera un po’ stantia e dalla sfacciata ricerca dello scandalo a tutti i costi. Forse persino un po’ noiosetto? Guardate la faccia della Thurman!
Difficile però dire come sarà, difficile trovare un regista più divisivo di Von Trier. Sicuramente ci scapperà qualche DAT ASS, quello sì.
In order of disapperance (Kraftidioten) è la nuova commedia firmata da Hans Petter Moland, regista di cui forse avrei già dovuto recuperare qualcosa ma sapete, ho tipo una vita ogni tanto. Quest’anno torna alla Berlinale portando di nuovo con sé Stellan Skarsgård che interpreta un imprenditore norvegese di una ditta di spazzaneve, la cui routine viene bruscamente interrotta dal (finto) suicidio del figlio. Il padre capisce che è una messa in scena e comincia a perpetrare la propria vendetta in un nemmeno troppo velato tentativo di sottolineare ironicamente le esagerazioni e le storpiature delle pellicole con i padri vendicatori (cfr. Liam Neeson). Pare sia divertente e ben recitato e da qui non sembra nemmeno PESO. Wow!
Ormai per ravvivare un po’ quest’edizione tediosa persino per gli standard di Berlino si ricorre agli italiani. Gianni Amelio propone un documentario sull’omosessualità tra vittorie e sconfitte nel mondo dello spettacolo e nel quotidiano italiano dal dopoguerra a oggi attraverso il cambiamento lessicale e l’utilizzo della parola “gay”. Nella selezione Panorama, Felice chi è diverso racconta al di là di quanto già si pensa di sapere cosa abbia significato vivere la propria omosessualità in Italia un’epoca ben diversa da quella odierna per 20 omosessuali oggi anziani e sembra lo faccia in maniera poliedrica e sfaccettata, tanto da far apparire un po’ limitante un’unica parola di tre lettere per raggruppare tante esperienze diverse.
Sempre nella sezione Panorama c’è
anche ancora un po’ d’Italia con Quite Bliss (In grazia di Dio) di Edoardo Winspeare.
Non chiedetemi di essere diplomatica con un toccante racconto di riunione alle radici agricole della Puglia ancestrale e religiosa, con un’azienda agricola matriarcale di poveri cristi (tutti attori non professionisti) che hanno perso il lavoro dove (cito da un’intervista al Tg3, sempre solertissimo nel coprire questo genere di pellicole, specie se italiane) “i pochi uomini che ci sono sono schivi e taciturni“.
E l’unica locandina esistente è in formato francobollo.
Magari è stupendo, ma è completamente fuori dal mio radar, ecco.
Altro panoramense documentaristico PESO ma di risonanza internazionale, Is the man who is tall happy? di Michael Gondry, che se ne è pensata un’altra delle sue. Intervistare Noam Chomsky, uno dei più eminenti pensatori viventi (ma al posto di pensatore si potrebbe definirlo con una decina di altri termini tutti meritati) e poi animare le risposte da solo (quest’uomo sta male!) nella tipica esplosione visiva d’idee e concetti del regista, in modo da rendere accessibile e visibile il pensiero di Chomsky.
In breve per Gondry è un periodo no, come intervistatore subisce troppo l’ammirazione nei confronti dell’intervistato per essere davvero incisivo,l’animazione salva lo spettatore dal tedio solo per i primi 10 minuti e il poveretto ha quasi sbarellato prima di chiudere la realizzazione del film. Michael, perché ti vuoi così male?
Arriva un’infornata di film in concorso, vediamo cosa c’è di salvabile. Da amante della semplificazione selvaggia, per me Praia do Futuro è il film con gli omosessuali che fanno lavori da macho.
Un bagnino brasiliano se ne va a Berlino in compagnia di un motociclista, vive avventure, fa cose, vede gente, poi lo molla e torna indietro. Se quanto dicono è vero, Karim Aïnouz si limita a raccontare questa storia qui e raccoglie poco più che pernacchie. Tipo che visivamente potrebbe anche essere passabile come la locandina, ma la storia e l’approfondimento delle tematiche affrontate è veramente poca cosa.
Niente, quest’edizione non riesce a partorire una ricchionata quantomeno passabile, che fastidio!
Black Coal Thin Ice (bai ri yan huo) è il primo film in concorso che suscita unanime entusiasmo e ancora una volta bisogna ringraziare un cinese per aver risollevato le sorti di un festival europeo. In questa sorta di noir romantico, un poliziotto sopravvive a un attacco mortale a un gruppo di colleghi e finisce per lavorare per una ditta privata, almeno finché dopo un caso molto simile lo porta ad indagare di propria iniziativa su una donna che sembra essere il filo rosso che unisce entrambi gli avvenimenti. Diao Yinan sorprende per aver applicato i canoni estetici de genere noir alle remote provincie della Cina del nord del 1999, anni luce dal contesto urbano decadente standard per il genere. La scommessa è vinta, si dice, anche grazie a un crescendo narrativo che porta a un finale che lascia veramente soddisfatti. Sembra succulento.
C’è qualcosa di più PESO nell’era della crisi di un film greco metafora della devastazione economica e sociale del Paese? Lo chiedo perché Stratos (To mikro psari) sembra essere proprio questo, talmente decadente da non avere nemmeno una locandina. Un ex galeotto si divide tra un onesto lavoro e commissioni da killer pur di raccimolare il denaro necessario a finanziare l’evasione di un uomo verso cui ha un debito d’onore. Quando però questo piano viene a scontrarsi con la cura che Stratos riserva alla figlia schiva dei vicini anche loro in contatto con i bassifondi, son cavoli amari. Sa di visto, stravisto e già archiviato. Il prossimo.
Aloft è un’altra pellicola capace di riunire un cast glamour a un dramma famigliare obbligatoriamente PESO.
Claudia Llosa non risparmia niente: un’irreperibile madre (di nuovo!) che abbandona il figlio maggiore dopo la morte del fratello, una giornalista che avvicina il suddetto figlio abbandonato, la sovracitata madre che è pure diventata una specie di santona truffatrice.
La regista peruviana si è già portata a casa un orso d’oro mentre qualcuno storceva il naso, ma stavolta il suo stile volutamente ricercato e compiaciutissimo ha urtato quasi tutti, nonostante il cast di richiamo internazionale: Jennifer Connelly, Mélanie Laurent, Chillian Murphy e Oona Chaplin.
In concorso c’è anche Zwischen Welten, un film PESO militare tedesco. Quando dico tedesco mi riferisco alla cinematografia campione di pesantezza che, appunto, si è creata un festival ad hoc per esaltare questo tratto teutonico. Feo Aladag realizza l’ennesimo film sul difficile rapporto tra soldati dell’ISAF e popolazione afghana, aggiustando il tiro rispetto a precedenti visioni più “partigiane”.
Nonostante la recente morte del fratello in un attentato, un soldato torna in Afghanistan per aiutare la mediazione tra le forze occidentali in ritirata e il capo di un piccolo villaggio passato dal fronte talebano a quello collaborazionista. I rapporti con la popolazione locale, mediati da un’interprete e dalla di lui sorella, finiranno per evidenziare i conflitti di due culture agli antipodi e del protagonista, intrappolato “tra i mondi”, come recita il titolo.
Nota di colore: il titolo è identico alla tagline tedesca di “John Carter”, quindi cercando una locandina di grandezza apprezzabile escono solo faccine di Taylor Kitsch.

…e non è nemmeno l’uscita più bizzarra di Shia Labeouf di questa Berlinale.
Boyhood arriva dal Sundance (come tante “anteprime” di fatto solo europee), lo dirige Richard Linklater (quello della trilogia Before Sunrise-Sunset-Midnight) e si porta dietro un livello entusiastico di critiche, ben giustificato dalla natura complessa e affascinante del film. Linklater ha girato una manciata di scene a cadenza annuale per più di un decennio sulla base di un script abbastanza delineato a monte per raccontare un film di natura fittizia ma di aspetto documentaristico incentrato sulla lenta maturazione di Mason (Ellar Coltrane). Figlio di una coppia separata e di una madre alla perenne ricerca di una relazione stabile ma spesso al fianco di uomini pessimi, la pellicola mostra eventi intimi e quotidiani di una famiglia per un decennio della sua esistenza, accompagnando la fanciullezza e l’adolescenza del suo protagonista, fino al primo anno di college. Pare sia stupendo e, se continua così, l’orso potrebbe non essere troppo lontano.
Una cavolo di locandina in 12 anni però si poteva anche realizzarlo Linklater, checcavolo!
The third side of the river (La tercera orilla) è il film PESO con il father issue grosso così che non può mai mancare in contesti così artistici. Questa volta però la problematica è bel giustificata dal fatto che il padre del protagonista ha due famiglie e si impone con autorevolezza sulle scelte di entrambe, lasciando al figlio il compito di curare e proteggere moglie e figli a cui ha deciso di dedicare i residui di tempo e denaro avanzati dal primo nucleo che si trova, da titolo, su “la terza riva del fiume”.
Celina Murga si carica il pesante fardello di una presentazione di Martin Scorsese, ma il film non ha lasciato una grande impressione pur considerando la sua riconosciuta intensità narrativa.
La Bella e la Bestia (La belle et la bête) è forse l’unico film roboante della mostra, smarcato dalle logiche PESO e autoriali in nome di una smaccata ricerca estetica dell’effetto speciale più vivido e di un tocco barocco nel agghindare setting e personaggi, almeno per il cinema europeo. Che se leggete questo blog da un po’, avrete già capito che mi al “barocco” ero già convinta, senza manco bisogno di scomodare roseti e abiti da urlo.
Christophe Gans è uno che con gli effetti speciali e i budget europei più cospicui ha già lavorato (vedi “Il patto dei lupi”) e sembra davvero l’unico di questo lungo post ad avere una qualche speranza di raggiungere davvero il pubblico generalista, complici i protagonisti Vincent Cassel e Léa Seydoux, che sembra catturare gran parte dell’attenzione della telecamera, magneticamente attratta dal suo essere bella, appunto. Non li biasimo, uno con la faccia da maniaco come Cassel che fa la bestia a me fa sorgere il vago sospetto che si scivoli in una versione fur della faccenda, invece a quanto pare è solo un tentativo di sfruttare i toni più cupi del testo originale e l’atmosfera ottocentesca per creare un film dal sicuro impatto visivo, anche se forse privo di mordente. Se non si rivelerà una gran vaccata, per me l’operazione sarà un successo. Data la media di questa Berlinale, non dovrebbe essere troppo complicato spuntare la sufficienza.

Scandalo alla Berlinale: una gonna jeans è apparsa durante il photocall.
Station of the Cross (Kreunzweg) ha questa locandina pazzesca che potrebbe facilmente passare per un’immagine promozionale della quarta stagione di “American Horror Story”, invece è un film PESO tedesco che illustra il fondamentalismo della porta accanto, quello di stampo cattolico. Una 14enne di nome Maria vive una normale vita scolastica ma quando varca la soglia di casa si sottopone a una rigidissima ortodossia cattolica che le impone di vagliare ogni singola azione per evitare di non perseguire il volere di Dio. Influenzata dalla devotissima madre, Maria si ritrova vittima di forze contrastanti, tra il desiderio di mantenersi pura per Dio e ottenere la guarigione del fratello e quello di lasciare avvicinare un ragazzo conosciuto a scuola. Il film, da titolo, ripercorre le 14 stazioni del calvario della protagonista, perseguendo il PESO anche formalmente: camera fissa e piani sequenza per quasi tutto il film.
Letto così sembra una pellicola micidiale, però mi lascia incuriosita il commento di molti, sorpresi dall’asintomaticità con cui viene presentata questa scelta religiosa estrema inserita in un contesto quotidiano e familiare allo spettatore europeo.
The Little House (Chiisai ouchi) è un film giapponese fino al midollo, presentato da Yoji Yamada, già a suo agio con l’immaginario classico del Giappone feudale.
Poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, Taki lavora come cameriera presso una ricca famiglia di un imprenditore nel settore dei giocattoli, alle dipendenze della padrona di casa Tokiko. Nella vita delle due protagoniste pian piano si fa spazio un dipendente del marito di Tokiko, con cui la donna finisce per avere una storia con la complicità di Taki.
Il tutto raccontato con grande delicatezza e accenni soffusi ai sentimenti dei protagonisti, mentre sullo sfondo la storia giapponese si dipana in tutta la drammaticità di quei giorni. Sono sicura si tratti di un film elegante ed essenziale nella sua semplicità; speriamo arrivi anche da noi.
LA PREMIAZIONE
Nessuna sorpresa nella cerimonia di chiusura.
Le pellicole dalla qualità tecnica tale da meritare un premio erano in numero così esiguo da essere forse più numerose degli orsi stessi. Ecco i premi principali:
Orso d’oro per il miglior Film
Black Carbon, Tiny Ice di Diao Yinan
Orso d’argento gran premio della giuria
The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson
Orso d’argento per la miglior regia
Richard Linklater, Boyhood
Orso d’argento per la miglior sceneggiatura
Dietrich Brüggemann e Anna Brüggemann per Kreuzweg
Orso d’argento per la migliore attrice
Haru Kuroki, The Little House
Orso d’argento per il miglior attore
Liao Fan, Black Coal, Thin Ice
Grazie per il servizio pubblico e informativo!
Direi che Yves Saint Laurent rientra nel mio genere, per dovere da nipponista dovrei recuperare Chiisai ouchi, in quanto fan del pacchiano La Bella e la Bestia non me lo perderò e ok Wes Anderson, per il resto mega macigni in vista.
Bella la faccia scazzata di Léa Seydoux. XD