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Carey Mulligan, film col dramma dentro, gattofilia, Joel e Ethan Coen, John Goodman, Justin Timberlake, nessuno mi capisce, Oscar Isaac, permettersi di essere stronzi, tratto da una storia di poco falsa, tristezza a palate
La stima professionale e la considerazione in campo cinematografico si misurano ancor più efficacemente con le cosiddette opere minori. Perché sì, Inside Llewyn Davis teoricamente sarebbe un film di seconda fascia dei fratelli Coen, due artisti capaci di costruire un successo consistente e costante mettendo al centro delle loro storie chi il successo non lo ha visto mai. I perdenti sono spesso protagonisti in casa Coen, dove a variare sono più che altro le sfumature di accanimento del destino, della società e del mero caso nel scriverne le sconfitte.
La lacerante sconfitta di Llewyn Davis è per sommi capi la rielaborazione di quella del cantante folk Dave Van Ronk, uno che si trovava al posto giusto al momento giusto ma ha mancato di un’inerzia il treno del successo che gli stava passando davanti.
Non è che stare dentro l’intimo di Llewyn Davis sia così gratificante, perché se il caso si accanisce su di lui, Davis non manca mai di rivalersi sul primo che capita. A meno che non amiate alla follia il genere vero artista che si sente in diritto di essere un supremo stronzo in quanto generatore di Arte, come spettatori assisterete al lento dipanarsi di una settimana costellata sì di privazioni al limite della sopravvivenza, di rogne micidiali e di un paio di bivi a cui il protagonista sbaglia clamorosamente direzione, ma anche di ipocrisie, egoismi e vero e proprio sfruttamento del prossimo.
La storia di Llewyn forse dovrebbe suscitare unicamente quel sentimento simpatetico di rammarico per un giovane di cui scopriamo l’abisso di dolore in cui sta sprofondando scena dopo scena, eppure è difficile non soffermarsi almeno per un attimo a valutare quanto si dimostri noncurante verso la sofferenza altrui e sbeffeggi la convenzionalità di coloro a cui si appoggia proprio per mantenere il suo stile di vita anticonvenzionale.
Oscar Isaac è il volto perfetto per esprimere quel materiale buono a cui manca sempre qualcosa per essere davvero la risposta a quello che le persone cercano, in ambito lavorativo, musicale e affettivo. Di contro è lo stesso Davis a non avere salda la presa su nulla, facendo scivolarsi addosso gli impegni verso gli altri non appena rischiano di imbrigliarlo a una responsabilità in conflitto con la sua ricerca di realizzazione professionale. Padre, sorella, compagne, animali domestici: la scala gerarchica delle sue priorità è ancora dominata dalla musica, sotto il cui trono sempre più vacillante si affollano le relazioni umane, a cui non sa assegnare alcuna tipologia di priorità.
Difficile per lo spettatore capire come Davis possa non assegnare una preferenza a una Carey Mulligan lontana dai ruoli miti e pacati a cui siamo abituati, capace nel finale di rivelare un segreto doloroso con una semplice occhiata rivolta a un Davis a cui sta tendendo l’ennesima ancora di salvataggio. Un’occhiata così densa di significati da rendere l’intera scena della rivelazione finale sostanzialmente inutile.
Perché “A proposito di Davis” dovrebbe essere un film minore? Difficile dirlo, soprattutto considerando la calorosissima accoglienza che Cannes (un festival che storicamente ha un debole per i fratelli registi) gli ha riservato, pur confinandolo in questa categoria.
In effetti Joel e Ethan Coen non sbagliano un film (e una sceneggiatura) da anni e, a chiusura di film, è evidentemente come la loro gestione di uno script lungo una ventina di pagine meriti di essere studiata da ogni aspirante del mestiere. Una sceneggiatura che ritrae il proprio protagonista attraverso la mancanza del suo personaggio specchio, di cui esploriamo la portata del senso di vuoto che la sua mancanza riesce a proiettare sull’intero film, a partire dal protagonista.
Forse questo giudizio deriva dal loro stesso gioco di stile. Mi spiego evitando spoiler: la struttura circolare del film fornisce da subito degli elementi biografici sulla vita di un giovane cantante folk squattrinato che lotta per sopravvivere nel Greenwich Village del 1961, ma solo quando si è superata la metà da un pezzo ci vengono forniti gli strumenti necessari a comprenderne il vero significato dal punto di vista del protagonista. La vera chiave d’interpretazione però arriva solo a fine film, con un’ultima scena che impone allo spettatore di rileggere quanto ha visto e il messaggio che ne ha ricavato in una chiave del tutto diversa. Come esercizio di stile è magistrale, ma rimane il fatto che impone di realizzare un “semplice” film su un cantante folk caustico e depresso per buona parte del minutaggio a disposizione.
Rimane comunque un’intensa narrazione visiva a scavare il solco tra i Coen e quanto di consueto ci viene proposto al cinema. La sola ripresa del gatto che scappa in metrò raccoglie una serie di dettagli (le scarpe lise indossate senza scarpe, i guanti senza dita, la mancanza del cappotto, il trascinarsi il bagaglio con sè) che narrano visivamente quanto la cinematografia moderna ci ha abituato a spiegare pedissequamente, magari in voice over, vanificando il valore aggiunto che l’immagine cinematografica in movimento.
Lo vado a vedere? Non sono una grande estimatrice dei Coen e Davis è il genere di personaggio che mi fa accapponare la pelle, ma a fine film sono rimasta impressionata dall’ennesima conferma di quanto i Coen sappiano gestire il cinema con le sue peculiarità espressive. Si tratta poi del classico film che acquista consistenza a una seconda visione. Se non avete particolari fastidi verso i Coen o questo genere di pellicola, recuperatelo appena potete.
Ci shippo qualcuno? I personaggi ombra sono tra quelli che prediligo, capaci di lasciare libero sfogo all’immaginazione dello spettatore perché mai si palesano sullo schermo di un media che basa quasi tutto sull’apparenza e l’apparizione, congegnati per lasciare dietro di sé vuoti che riempiono di senso quelli che sullo schermo ci stanno tutto il tempo. Qui non siamo ai livelli di Karla de “La talpa”, ma indubbiamente il personaggio di Davis ne esce meglio proprio quando la sua mancanza viene meglio delineata. Certo che uno che si strugge a quel modo e cade nella depressione più cupa per la mancanza di un appartenente al medesimo sesso qualche dubbio lo solleva, altroché.
Coefficiente piangerone? Direi che qui stiamo più sul depressivo con l’occhio asciutto, anche perché i veri motivi per aprire i dotti lacrimali sono concentrati negli ultimi 5 minuti e nemmeno spiegati con l’addizionale del dramma. Certo che se siete dei gattari/adoratori folli di gif gattose su Tumblr è un film che può seriamente minare il vostro equilibro psicofisico.