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Debutta oggi nei cinema italiani il terzo lungometraggio di Steve McQueen e mi preme consigliarvi un giro in sala al più presto.
Candidato di punta agli Oscar, già vincitore di numerosi riconoscimenti nella stagione dei premi quasi conclusa, 12 Years a Slave è quel genere di film durante la cui visione percepisci che ti sta scorrendo davanti un pezzo di futura storia del cinema.
Sensazione abbastanza ricorrente in un 2013 (Gravity che dà una vera motivazione d’esistere al 3D, Adele che si scava un posto nei film del decennio a suon di emozioni graffianti) che, in differita di qualche mese, si rivela anche in Italia come un’annata cinematografica pazzesca.

A due terzi del recupero dei candidati alla categoria “Miglior Film” degli Oscar di quest’anno il livello qualitativo è degno del prestigio che questa nomination comporta. 12 Years a Slave però gioca in tutt’altra categoria, quella in cui è davvero difficile trovare qualcosa da contestare al film, talmente inattaccabile da risultare quasi perfetto. Se sulle singole categorie (regia, interpretazioni, sceneggiatura) le altre pellicole possono eguagliarlo o superarlo di misura, la qualità generale del terzo (terzo!) lungometraggio di Steve McQueen è tale da giustificare l’isterismo collettivo che la sua prima proiezione scatenò.

Si può scomodare il termine capolavoro? Raramente nell’ultimo decennio sono stata più propensa a rispondere sì. Chiariamo: non è che Steve McQueen sia una rivelazione oggi. Che ci fosse la stoffa per grandi cose lo si era già capito dall’esordio e, nonostante fosse meno solido e più compiaciuto, anche il suo secondo film lo piazzava tra i nomi che rendono la visione di un titolo obbligatoria per ogni appassionato.
“12 anni schiavo” è il matrimonio tra un regista di estrazione autoriale e una storia universale, da cui le due parti ricavano il massimo, attenuando i limiti l’una dell’altra. Ancora di più, si tratta del film che, sull’onda di tutta una serie di ottime pellicole che ribaltano il razzismo contro i personaggi non caucasici (POC in inglese, una sorta di “persone di colore” dall’accezione assolutamente neutra) facendone il motore propulsore della vicenda, raggiunge un apice ineguagliabile.

Secondo molti studiosi, la nostra conoscenza dei principali avvenimenti storici è parziale, edulcorata, stereotipata, lacunosa e tendenziosa. Questo perché più che qualche riassunto dal libro di storia costruiamo la nostra percezione del passato sui media che ce lo raccontano, in primis il cinema e la televisione, che percepiamo come assoluti e veritieri. Dato il largo consumo di prodotti americani, la nostra visione è particolarmente sbilanciata dal centro pneumatico incarnato dall’America del nord.
Se dovessi spendere la parola “capolavoro” lo farei per come il film di Steve McQueen riscrive interamente la percezione della guerra di secessione americana e dello schiavismo, sebbene il suo film si svolga nei decenni precedenti.
Il regista ha dichiarato di voler girare un film sulla schiavitù da anni, senza riuscire però a scovare la storia giusta. Questo finché la moglie non ha trovato la biografia fuori catalogo di Solomon Northup, figura iconica del periodo poi finita nel dimenticatoio. Una vera manna dal cielo, una storia biografia con tutti gli stilemi per piacere all’Academy ma con tutti i presupposti per permettere a McQueen di distruggere i capisaldi del genere schiavista.

Salvo sparute eccezioni, la schiavitù e/o la discriminazione verso i neri al cinema è sempre stata narrata dal punto di vista dei bianchi e in particolare da quello assolutorio di quelli che lottano per abolirla (cfr: Lincoln, The Help). Qui invece l’intera storia è narrata dalla soggettiva di chi è sottomesso dai bianchi e, vera svolta risolutiva, l’antefatto alla vicenda permette la piena identificazione anche del pubblico caucasico nel protagonista. Solomon infatti è un rappresentante della piccola borghesia, un musicista con un moglie e due figlioletti, nato libero, l’equivalente del “uomo qualunque” americano dell’epoca. Solo che è nero in un momento storico in cui negli Stati del sud significava ancora essere uno schiavo e la domanda di nuovi rinforzi era talmente alta da portare ad istituire un giro di rapimenti e deportazioni forzate verso le piantagioni di cotone e canna da zucchero. Incurante verso le dicerie dell’epoca, Solomon finisce dentro a quest’incubo e ci metterà 12 anni di terrore, dolore e attentati alla sua vita e alla sua umanità per contattare un uomo bianco che testimoni la sua vera identità e lo riconduca a casa.

Privato del suo nome e ridotto a un status bestiale, il film si avvale dell’interpretazione mimetica ma vivida di Chiwetel Ejiofor per portare su schermo tutte le sfumature contenute nel racconto autobiografico di Solomon. Ben lontano da un’ottica restrittiva buoni/cattivi, Solomon nelle sue memorie evidenzia i momenti in cui l’umanità del personaggio vacilla, non sorvolando nemmeno sulle proprie di mancanze, al fine di rendere appieno la quotidianità di un uomo ancora pieno di stimoli e pensieri anche se schiavo e privato del proprio nome. Questo ritratto sfaccettato di Ejiofor è modulato anche grazie alle diverse piantagioni in cui viene sfruttato, dove diventa chiaro  quanto la schiavitù possa essere intesa in modo diverso al netto dell’inferiorità dei neri in cui credono i padroni. Oltre a Paul Giamatti che ne fa una semplice questione di compravendita (in un film in cui sottotraccia scorre continuamente il valore economico dell’istanza sudista fino a tracciare delle logiche protocapitalistiche nello sfruttamento dei neri), i due proprietari di Solomon sono agli antipodi dello spettro, accomunati solo dall’imprescindibilità della schiavitù da loro percepita. Se Michael Fassbender, musa del regista, al solito giganteggia in un ruolo fisico a tinte foschissime, un vortice tra l’alcolico e il delirante di citazioni bibliche e desideri carnali, Benedict Cumberbatch è rimasto ingiustamente in ombra in un ruolo che è marginale solo nel minutaggio. Anzi, forse il suo essere uno schiavista “buono”, pronto a tutelare l’umanità dei suoi uomini ma non a rinnegare la sudditanza essenziale per fare tornare i conti economici è ancora più raggelante. Non a caso è proprio qui che si svolge una delle scene in cui l’autocompiacimento autoriale di McQueen prende finalmente il sopravvento e la fotografia del fidato John Ridley fa il resto, riuscendo a ritrarre la quotidianità della violenza che rendere un’impiccagione e una lenta agonia un mero elemento paesaggistico nei giochi dei bambini.
La società schiavista, avviata sulla strada del protocapitalismo ma frenata da superstizioni di natura biblica, è così profondamente letta e analizzata da nascondere nelle sue pieghe i soprusi che sopravviveranno all’abolizione della schiavitù. Quello verso il corpo femminile è incarnato dalla bellissima Lupita Nyong’o, volto e corpo del tormento interiore di Fassbender e del disprezzo della di lui moglie Sara Paulson, capace di una complessità caratteriale e di slanci che rivelano talvolta persino la giovinezza sopravvissuta agli abusi subiti.

Lo vado a vedere? Sì, imperdibile. Mai mi sarei aspettata di consigliare un film di Steve McQueen senza particolari raccomandazioni o limitazioni. In questo caso la voglia di rendere giustizia a una storia dimenticata ha generato un equilibrio perfetto: cast talentuoso motivato al massimo, cineasta capace di mettersi al servizio del racconto sacrificandogli i propri slanci registici autocompiaciuti (anche se la scena della ruota e quella dell’impiccagione mica le si può considerare semplice routine filmica, no?) e una storia davvero universale, capace di esplorare con precisione economico-scientifica e grande umanità quanto gli uomini sappiano accanirsi contro i loro simili, quasi gli riuscisse naturale, al di là del simbolo di diversità ed esclusione protagonista di questa storia. Di fondo Solomon era un cittadino normale, un uomo qualunque. Per quanto qualunque e conformati vi sentiate, questo film vi rammenterà come lo stigma possa apparire laddove voi vedevate umanità e rissucchiarvi dentro.

Il poster italiano era razzista? Per chi non lo sapesse BIM, che distribuisce il film, è stata costretta alle scuse e a un clamoroso dietrofront dopo che all’estero era montata l’ondata di indignazione per la locandina italiana. Non che quei ritratti giganti del cast bianco fatti a caran d’ache non fossero tremendi, ma per le conclamate sproporzioni e gli errori anatomici di cui soffrivano, non certo per il loro messaggio di supremazia ariana. Semplicemente in Italia è un film complicato da promuovere e, da sempre, si prediligono le locandine con il faccione del famoso di turno, anche se arruolato per un ruolo marginale. Capisco che da fuori quel micro Solomon al fianco del titolo sia stato mal recepito, però accusare di razzismo chi si è speso negli ultimi decenni per sdoganare generi prima sconosciuti nel nostro Paese (soprattutto in ambito asiatico) è stato svilente e cieco. Ironico che succeda per un film che più di ogni altro quest’anno sottolinea le nefaste conseguenze del giudicare una realtà sociale imponendo il proprio metro di giudizio come unico dato certo e incontrovertibile.