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dbc 1Dopo tanti film artistoidi, impegnati, complessi e mai banali, finalmente con Dallas Buyers Club arriva il film che punta al cuore dell’Academy giocando sporchissimo pur d’indurre al pianto.
Il bello è che in un anno con delle perfomance attoriali strepitose e dei film nettamente più riusciti e qualitativamente rilevanti questa pellicola, presentata senza gran clamore al Toronto Film Festival, sta per portarsi a casa entrambe le statuette per le categorie attoriali maschili (se tutto va come pronosticato), per non parlare della nomination alla sceneggiatura che ha tagliato fuori gente come Woody Allen.

Il gran merito del film è di aver azzeccato i due attori da piazzare lì in vetrina, emaciati e dimagriti in quella maniera estrema che vale più di mille sfumature interpretative alla notte degli Oscar. Detta così sembra semplice, ma in realtà non lo è, perché quando parli di uomini disperati sull’orlo della morte è un attimo farsi sfuggire di mano la faccenda e passare al dramma umano al melodramma indigesto. D’altronde chiunque ha sottolineato che la vera forza nel film non sta né in una sceneggiatura tutto sommato canonica (che quella nomination, visti i contendenti di pregio, non la merita) né nella regia, bensì nelle prove dei protagonisti.
Anche qui però bisogna fare dei distinguo: Matthew McConaughey sta vivendo un anno di trionfi, a seguito di una scia di ruoli memorabili (“Mud”, “True Detective”, “The Wolf of Wall Street”), gestiti in maniera impressionante da veterano. Quasi come non avessimo passato lo scorso decennio a sfotterlo. È solo grazie a lui se la vera storia di Ron Woodroof, uomo da rodeo preda degli eccessi che si ritrova sieropositivo a Dallas in un periodo in cui ancora si pensava che fosse una condizione legata all’omosessualità, non scade nell’imbarazzante sviolinata. Oltre al dimagrimento estremo, è proprio il suo ritratto dettagliato e credibile del classico americano sicuro di sé, capace di superare i propri pregiudizi, virile e pronto ad esercitare fino in fondo la libertà costituzionalmente garantitagli creandoci un business a rendere il film l’ennesimo ritratto del self made man degli stati centrali.
Con McConaughey che tiene il film saldamente ancorato a un’autenticità emozionale che coinvolge lo spettatore senza renderlo scettico, Jared Leto è libero di fare l’opposto, ovvero di marcare sui tratti di omosessualità e travestitismo della sua Rayon senza preoccuparsi di scadere troppo nel patetismo. Leto non è al livello del suo compare, però è innegabile che sia un’ottima prova, visti anche i suoi precedenti poco illustri al cinema. Detto questo, l’Oscar?

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Funzionando i protagonisti sia singolarmente sia nella loro alchimia amichevole, che non prende mai svolte sentimentali (e se lo dico io che sono sempre pronta a malignare, potete fidarvi), la sceneggiatura a firma Craig Borten e Melisa Wallack e la regia di Jean-Marc Vallée (quello di “The Young Victoria”) sono libere di dedicarsi all’accanita evidenziazione di ogni aspetto filmico notoriamente buono a ingraziarsi l’Academy. Io me li immagino, due sceneggiatori poco più che esordienti e un regista trascurato, a scavare tra le storie di quando l’isteria verso il propagarsi dell’AIDS ha generato un linciaggio mediatico e non solo verso le comunità gay, alla ricerca di quella con cui esporre McConaughey in camice ospedaliero come manco il Cristo del Mantegna e trovare una chiusa super drammatica per il personaggio di Leto, vi giuro, io posso immaginarlo distintamente.
Va riconosciuto che questo brandire emarginati, malattia, dramma e lotta alle corporazioni malvagie (in questo caso, la FDA) come oggetti contundenti per farsi strada tra candidati onestamente più meritevoli avviene in maniera esplicita e senza sotterfugi. Dalle scene di devastazione alcolicosessuale di Ron alle calze smagliate di Rayon: niente è risparmiato, ma niente di viene proposto come qualcosa di diverso dal tentativo di muoverti al pianto.

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Lo vado a vedere? Non è certo la priorità tra i film candidati quest’anno, ma le due interpretazioni di cui tutti hanno parlato sono effettivamente notevoli e pur essendo drammatico, riesce a non diventare mai troppo pesante. Fermo restando che se proprio volete la ricchionata non potete dedicarvi a questo senza prima aver recuperato il bellissimo “Behind the Candelabra”.
Ci shippo qualcuno? No. Parte della monumentalità della prova di McConaughey sta nel rimanere texanamente virile pur affezionandosi al personaggio di Leto.
Coefficiente piangerone? Teoricamente alto, ma in realtà il film non abbandona mai un sottofondo di speranza. Se loro che sono sieropositivi continuano a lottare, perché devi frignare tu al cinema?