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sqv1La goduria di comprare un biglietto per vedere in sala un film italiano e uscirne soddisfatti. Del tutto soddisfatti, dopo aver ghignato per 100 minuti, anche se per chi è sotto i 40 anni l’identificazione è purtroppo quasi sempre possibile e il retrogusto amaro un po’ fa male.
Il bello di Smetto quando voglio è che parte da un filone ormai ampiamente esplorato del cinema italiano, quello del precario che sbarca il lunario in maniera inventiva, la versione contemporanea di quel gusto del compiangersi perché poveri ma belli. L’analogia però finisce qui perché l’esordio alla regia di un lungometraggio di Sydney Sibilia di quel vittimismo degli ultimi non reca assolutamente traccia.

Santo Domenico Procacci, che ha messo sul tavolo due milioni di euro per la produzione di una sceneggiatura coscritta da un regista in attesa di esordire al cinema in forma lunga. Forse l’unico limite del film è quello di avere una resa visiva più vicina al mondo della televisione, perché la qualità dell’immagine è a cavallo tra la fiction fatta bene e il cinema che sfrutta a pieno i fondi insufficienti che ha.
Non tirare fuori la serialità televisiva è impossibile, tanto che è uno dei protagonisti a chiedere polemicamente a un energumeno se si crede dentro una serie televisiva americana. Che l’orizzonte a cui guardano Sydney Sibilia e soci sia quello è palese, sia nella gestione dinamica, attenta e curatissima della regia sia nello scambio fitto fitto di battute taglienti e ironia campionabile che si snoda per tutto il film. Rispetto alla commedia italiana media Sibilia risulta iperdinamico, mai banale nel costruire le inquadrature anche quando gli ambienti sono dimessi e poco appetibili come un silos, una pompa di benzina, un laboratorio universitario.

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Il secondo paragone che balza all’occhio è Boris. Impossibile non notare una similitudine quando parecchi dei volti chiave de “Gli occhi del cuore” ti sfilano davanti. Di fondo le due storie raccontano lo stesso squallore e lo stesso pantano in cui una giovane generazione di professionisti italiani si muove: là erano i mestieranti del cinema, qui sono brillanti ricercatori costretti a lavori di bassa manovalanza per sbarcare il lunario.
Se però “Boris” tendeva ad essere particolarmente cinico (soprattutto nella sua geniale ma fallace trasposizione cinematografica) dipingendo un mondo lavorativo incapace di redimersi, in “Smetto quando voglio” il focus si sposta sull’incapacità di tener fede alla propria frugalità e di uscire da una sindrome di Norimberga del precario dei suoi protagonisti.
La parabola di Pietro, il protagonista licenziato che decide di usare le proprie qualifiche e quelle degli amici per sintetizzare una droga strabiliante entro i confini della legge, è esemplare. Raggiunto il suo scopo e il benessere, Pietro rimane incapace di reagire davvero alle vessazioni dei compagni, della moglie, del mondo criminale, non abbandonando mai il suo lato conciliante e giustificatorio. Non è la ricchezza a mostrare il lato migliore dei ricercatori passati al mondo del crimine, anzi. L’unico ruolo in cui sono a loro agio (in cui le versioni migliori di se stessi) è quello dell’insegnamento e della ricerca, ma la morale amarissima del film è che in un Paese che nega loro la vocazione l’unico posto possibile è quello tra gli sfruttati e gli ultimi, destinatogli proprio in virtù della laurea di cui ora sopportano il pesante fardello.

Dire di più sarebbe un delitto, citare qualche battuta un’egoistica pretesa di togliere agli altri il gusto di godersi la loro discesa a pioggia per tutto il film. Mi permetto solo di dire: er Murena!
Bene così, ancora, magari stavolta con qualche personaggio femminile più rilevante della battona o della moglie rompicoglioni. Non è che le ricercatrici squattrinate siano proprio una specie in via d’estinzione.

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Lo vado a vedere?
Sì. Se poi quando hai letto “gli occhi del cuore” non hai potuto esimerti dal rispondere “Boooooriiiiis!”, allora corri al cinema.
Ci shippo qualcuno? Per una volta che si parla bene di un film italiano, soprassederò sulla paretesi macchiettistica e sulle gag a sfondo raziale sugli zingari.