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div dou A chi bazzica sporadicamente l’ambiente YA e le community di giovanissimi lettori, il fenomeno Divergent potrebbe sembrare la ricapitalizzazione del successo della trilogia di Hunger Games, supposizione del tutto corretta. La trilogia di Divergent è nata sì come un tentativo di bissare il successo dell’apripista distopico, però ha conosciuto un successo tale da diventare un fenomeno a sé. Per darvi un’idea di quanto sia seguita e amata questa saga, all’uscita del terzo e ultimo volume si è assistito a un vero e proprio linciaggio dell’autrice per una scelta particolarmente impopolare tra i suoi giovani lettori, che non hanno esitato ad insultarla e minacciarla, mettendo sottosopra ogni angolo letterario della rete e generando parecchi dibattiti tra autori YA vicini al loro pubblico, divisi tra chi professa la libertà del lettore e chi reclama un limite tra scrittore e lettore.
Un tale capitale letterario non poteva rimanere a lungo senza una controparte cinematografica e a farsi avanti è stata proprio la Summit, lo studio indipendente collegato alla Universal e fautore del successo di Twilight.

IL LIBRO

div1Divergent di Veronica Roth, edito da De Agostini, 2012, 480 pp. 
La parte più interessante rispetto alla trilogia di Veronica Roth rischia di essere completamente extraletteraria. Pare infatti che la giovanissima laureanda americana in scrittura creativa sia stata assoldata quando ancora il libro era poco più che una bozza per scrivere una trilogia, che ora si sta ampliando con prequel, sequel e midquel (termine che prima o poi dovremo sdoganare per parlare dei riempitivi posticci scritti a posteriori tra un volume e il successivo che ora vanno tanto di moda) mentre si gode i proventi del suo ruolo di coproduttrice esecutiva del film.
I miei sentimenti verso la giovane Veronica sono complessi; da una parte terminato il primo volume ho provato sincero sgomento al pensiero di leggere i successivi (e francamente non ho ancora deciso se lo farò), dall’altra questa esordiente 26enne ha ricevuto una sequela tale di attacchi da suscitare un sentimento simpatetico in me. Divergent infatti, sin dalla copertina, si presenta come il nuovo Hunger Games ma viene riconosciuto come tale solo dai suoi fan. Personalmente non posso che concordare con quella parte della critica che lo trova la versione annacquata, inerme e priva del pur minimo elemento controverso di una trilogia (e di una protagonista femminile) che gli è decisamente superiore, tuttavia trovo poco giustificati certi attacchi al limite della mistificazione di un libro che è perfetto per il pubblico a cui si rivolge. D’altronde io ho parecchie riserve anche su certi aspetti di Hunger Games che trovo smorzati e poco coerenti, anche se temo che lì ci sia più che altro lo zampino dell’editore. Indubbiamente però Katniss possiede una complessità e una carica controversa del tutto sconosciuta a Tris, la giovane protagonista di questa distopia, a sua volta meno articolata e politicamente complessa di quella di Capitol City.
Da lettrice trovo che la grande differenza stia nell’età delle autrici: Veronica Roth non solo è giovane anagraficamente ma anche nell’approccio a problematiche complesse si sente un animo appena più che adolescenziale dietro la sua penna. Esempio: quando Tris rimane profondamente turbata per un tocco maschile appena accennato sul fianco attraverso la canottiera, uno non può che pensare con affetto alle lettrici di Cioè, con tutto che la sua realtà quotidiana ne ha limitato le esperienza fisiche al minimo sindacale. La scarsa profondità di visione di Veronica Roth in campo politico e affettivo si riflette su Tris in maniera via via più evidente. Suzanne Marie Collins aveva 46 anni quando ha pubblicato Hunger Games e la differenza si sente tutta, sia per incisività nelle svolte drammatiche della vicenda, sia per complessità interiore della sua protagonista.
La distopia di Divergent poi si regge su delle basi così esili da funzionare più a livello letterario che realistico: guerra e sconvolgimenti portano la popolazione sopravvissuta a Chicago a dividersi in cinque fazioni (pacifici, intrepidi, abneganti, eruditi, candidi), contraddistinte da un tratto dominante (bontà, coraggio, altruismo, conoscenza, onestà) che ciascuna riconosce come la risposta a una pace duratura. Ora scusate, ma io stento a credere che in un periodo di così forte difficoltà una fazione che ha come incarico quello di essere sassy e dire le cose in faccia abbia un senso d’esistere. Inoltre anche il sistema che mette la fazione prescelta al compimento dei 16 anni prima dei legami di sangue è sì intrigante, ma un po’ artificioso.

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Beatrix scopre di essere una divergente al test attitudine prima della scelta, ovvero di non possedere un tratto dominante bensì caratteristiche di diverse fazioni. Questa condizione è potenzialmente mortale perché questi candidati sono considerati pericolosi per l’ordine stabilito, perciò la ragazza decide di abbandonare gli abneganti a cui non si è mai veramente abituata (e chiamala fessa) e di passare agli intrepidi. Segue un lunghissimo processo di work out che è la parte indubbiamente migliore del libro: Ruth come Collins sa creare nuove sfide appassionanti da leggere, ficcando Tris in situazioni sempre più difficili e pericolose sia per la possibilità di venire bocciata e finire negli esclusi (ovvero i reietti senza fazione, che vivono di sussistenza come vagabondi) sia per la costante difficoltà di tenere nascosta la sua divergenza.
Quando però il libro innesta una marcia superiore e si tuffa nella rottura dell’equilibrio distopico, tutti i limiti dell’autrice escono fuori prepotentemente. Nonostante prenda alcune scelte coraggiose e non lesini su morte e distruzione per Tris e i suoi amici, il tutto rimane freddo e poco emozionante, ovvero tutto il contrario di quanto la Collins è riuscita a creare (mi riferisco soprattutto alla straziante scena sull’epilogo di Mockingjay). Altra debolezza di Roth è la poca accortezza con cui semina indizi su svolte successive, tanto che da subito un lettore appena smaliziato può indovinare tutto il mistero dietro la figura di Quattro, il bel tenebroso che Tris osserva da lontano. Sulla love story con tocco intercostale da batticuore preferirei glissare.

Lo leggo? Se rietrate nell’entusiastica fascia di età o siete degli estimatori del genere distopico giovanile, c’è di meglio. A volte però più che il migliore si ha voglia di leggere il libro su cui è più facile ottenere riscontro con altri lettori e Divergent è quantomeno leggibile per una buona metà, scorrevole nella sua lunga sequenza di prove attitudinali e sempre veloce da sfogliare anche quando la costruzione comincia un po’ a scricchiolare. C’è di molto meglio all’interno del genere, ma non è nemmeno così tremendo come si sente sussurrare tra i lettori già rugosi. Sicuramente non riesce mai a smettere di essere innocuo e talvolta ingenuo fino all’irritazione, ecco.

IL FILM

div3Attenzione, ci sono parecchi [SPOILER] rilevanti in questa seconda parte.
Nonostante fosse chiaro fin da subito che la Summit avrebbe messo nell’impresa le palate di soldi guadagnate con Twilight (mossa non scontata e lodevole), sarebbe falso sostenere che il mio approccio al film sia stato imparziale. Ero convinta che sarebbe stata una ciofeca, complice un regista che non ha mai sfornato perle, una protagonista che non brilla per talento e, conclusa la lettura del libro, una storia mal gestita nella seconda parte. Ora, lungi da me dire che Divergent sia un film stupendo, ma date le premesse il risultato mi ha lasciato abbastanza soddisfatta e, nel caso degli appassionati, li lascerà entusiasti.
Anche in questo campo la trilogia maestra rimane su un livello di molto superiore, ma la colpa va data sostanzialmente alla fonte d’origine, incapace di fornire un materiale dello stesso livello a meno di forti maneggiamenti (che, con un fandom simile, non sembra la strada più praticabile). Neil Burger non è Gary Ross (che, ribadisco, dovrebbero baciargli i piedi per cosa ha tirato fuori da quel libro!) e non è in grado di dare un piglio adulto e realistico a una vicenda prettamente adolescenziale, nonostante tenti in tutti i modi di dargli una profondità e una dimensione visiva interessante. Lo fa però con un approccio così didattico di risultare un po’ forzoso nelle sue immagini ricorrenti, in primis nel tema dei riflessi, del doppio e degli specchi. Tuttavia gestisce un budget cospicuo (ma non sempre sufficiente a rendere sempre realistico un mondo tanto distante dal nostro) con sufficiente bravura e durante le allucinazioni dei test ci mette tutto l’estro di cui è capace.
Shailene Woodley ha già “wood” nel cognome e in passato mi è già capitato di constatare come si trattasse di un (cog)nomen omen. Spietata? Woodley può competere con Lawrence giusto nelle uscite un po’ pazzoidi e per l’attitudine terra a terra tenuta nelle interviste, ma è pur vero che la seconda è un talento tutt’altro che comune. Alla prima va riconosciuto il merito di metterci tutta se stessa e di interpretare un personaggio che, complice la sua mancanza di contrasti complicati da gestire con la recitazione, padroneggia abbastanza bene. Kate Winslet non deve nemmeno troppo sforzarsi in un cast diviso tra belloni/bellone e giovani più o meno capaci e gestisce la cattiva in quelle poche scene che ha senza colpo subire. Sul trattamento dei personaggi la sceneggiatura è parecchio sbilanciata; Janine viene introdotta saggiamente fin da subito per giustificarne il ruolo antagonista, Maggie Q diventa una comprimaria quando nel libro è poco più di una comparsa. A farne le spese sono i compagni di Tris; ad eccezione di Zoë Kravitz sono assolutamente intercambiabili, tanto che la scena qui sotto è abbastanza ingiustificata per chi non conosca gli eventi del libro. Non che nel libro siano così sfaccettati, ma da lettrice ho avuto difficoltà nel capire chi avrebbe dovuto essere chi ed è un peccato, perché gestire un gruppo di adolescenti tanto sparuto non è poi impossibile. Ray Stevenson invece ne esce benissimo, finalmente nobilitato in un ruolo che è ben più del tizio grosso e muscolo sullo sfondo nei film d’azione (e Egar di “A Land Fit for Heroes”, ma solo nella mia testa), anche se sospetto che nei prossimi due film avrà ben più spazio per dimostrare il suo talento.

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Sul versante tecnico non c’è niente di sorprendente in senso positivo e negativo. Ho trovato abbastanza azzeccata la resa della popolazione divisa dagli abiti colorati (espediente preso paro paro dal libro) e le prime scene delle fazioni mescolate per le strade di Chicago hanno il giusto effetto. Mi ha invece infastidito l’eccessivo uso di make up evidente sull’attrice protagonista, perché vanifica l’effetto di frugalità assoluta che Tris dovrebbe restituire in quanto abnegante. Anche perché nel libro il suo cambio di fazione diventa evidente proprio con l’applicazione del trucco, l’utilizzo di abiti meno coprenti e un atteggiamento più libero e talvolta sensuale, mentre nel film tutto ciò ci viene suggerito dalla transizione chignon → capelli sciolti. Ah beh.
Sulla colonna sonora solitamente non ho molto da dire perché di musica non capisco pressoché nulla ma l’inserimento continuo di pezzi pop parecchio famosi dà al film un effetto da pubblicità di compagnia telefonica, con successi di Ellie Goulding (di cui c’è mezza discografia), Pretty Lights e Skrillex a ciclo continuo e non sempre ben amalgamati alle scene del film.
Riguardo all’adattamento in sé, si poteva fare di più per rimediare ai limiti del libro. In alcuni punti i cambiamenti apportati funzionano (il taglio sul momento di stronzaggine di Christina, la semplificazione del training alla sede degli Intrepidi e della parte sulla ruota panoramica, l’introduzione di Janine dall’inizio del film) però è anche vero che alcuni maneggiamenti hanno finito per impoverire la pellicola. Oltre al già citato appiattimento dei compagni di Tris, ho trovato singolare che si insistesse per tutto il film su riflessi/doppi e quando arriva il punto di mettere Tris in una vasca piena d’acqua reale, si opti per una soluzione più vecchio stile. In generale le scene drammatiche sul gran finale funzionano meglio su pellicola, senza però risultare eccezionali, così come le paure di Quattro sembrano meno ridicole che nel libro (dove la gente si complimenta con lui perché ne ha così poche, sorvolando sul fatto che sono un attimo più invalidanti del terrore per le farfalle o i pennuti).

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Apro una piccola parentesi sulla paura erotica di Tris: parliamone. No, perché c’è gente che si strappa i capelli perché finalmente una ragazza rifiuta le avance di un ragazzo e reagisce a uno stupro dando il buon esempio alla popolazione femminile. Al solo leggere una summa di tanti elementi controversi mi sono un po’ risentita. Niente di male nel personaggio femminile che dice al bellone di non correre troppo, ma salutarla come la prima scena nella storia del cinema in cui un adolescente si rifiuta di fare sesso mi pare un filo esagerato. Contando che poi il supposto rapporto non consensuale è un’allucinazione della cui falsità Tris è sempre cosciente in quanto divergente e che tende a ricoprire un ruolo abbastanza passivo nei momenti di pericolo (ovvero, arriva sempre Quattro a salvarle il culo) e ragguardisce il ragazzo a suon di “dormiamo tutta notte abbracciati a guardare le stelle, sarà bellissimo lo stesso”, ma per quale insegnamento stiamo gioendo? Insegnamento per la sola popolazione femminile poi, manco i restanti maschi fossero lupi famelici incapaci di ragionare su quanto visto. Personalmente sono delusa, perché nel libro c’è un tentativo di abuso fisico su Tris e quello sì che sarebbe stato d’impatto, pur limitandosi a un palpeggiamento del suo seno (credo che la canotta strappata fosse una vaga allusione alla versione cartacea). L’evidente intento è quello di spaventarla e umiliarla e risulta più emotivamente disturbante del semplice tentativo di toglierla di mezzo. Se poi consideriamo il fatto che Quattro le suggerisce di mostrarsi spaventata perché può sperare di affermarsi solo se i compagni di corso (anche gli amici) la considerano debole e per nulla minacciosa, allora sì che abbiamo una rappresentazione più realistica di quanto tante spettatrici conoscono anche sin troppo bene. E comunque esaltare una reazione fisica allo stupro equivale anche a condannare chi, sfortunatamente, rimane paralizzato dall’orrore, la paura e l’angoscia, il che non è esattamente costruttivo.

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Lo vado a vedere? Divergent è realizzato con sufficiente perizia per accontentare i fan e divertire il pubblico troppo pigro per leggere il libro, però manca del tutto di quel salto qualitativo che ha portato Hunger Games ad innalzare di molto l’età media del suo spettatore. Quantomeno è abbastanza carino da giustificare il suo sequel.
Ci shippo qualcuno? Immagino che la risposta più consona sarebbe Erik con Quattro, ma il film ha un approccio così innocente che mi sentirei abbastanza in colpa, quindi lascerò ai protagonisti i loro piccoli problemi di cuore nati da un’amicizia che profuma di tocco intercostale…ok, la smetto.