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bellissime inquadrature di robe normalissime che ti fanno commuovere, Chillian Murphy, Christopher Nolan, fantascienza, film PESO, Jack Paglen, Johnny Depp, Kate Mara, la forza salvifica dell'Ammmore, lucette azzurre, Morgan Freeman, Paul Bettany, Rebecca Hall, Wally Pfister
State per leggere un post dedicato a un film affossato da uno dei trailer più fuorvianti degli ultimi anni. Difficile vedere quel promo e non pensare “che stronzata”, ipotizzando il solito film che sfrutta l’allure fantascientifica applicandola senza troppe cerimonie a contesti action, thriller o, come in questo caso, catastrofici.
Niente di più falso. Scorrendo i credits c’è un indizio preciso della direzione che il film prenderà. Ancora una volta Christopher Nolan compare nelle vesti di produttore, coadiuvando il debutto alla regia di Wally Pfister (spero vivamente di non doverlo pronunciare mai ad alta voce), suo fidato direttore della fotografia. Il risultato è “Transcendence”, un’opera fortemente influenzata dal vivaio nolaliano, sia per tematiche che per forma stilistica.
Un fallimento, sì, ma fecondo di idee e di possibilità. Quando i nomi coinvolti qui riusciranno a far funzionare i pezzi senza intoppi, allora ci daranno un filmone, altrochè.
Wally Pfister aveva intenzione di debuttare alla regia già da tempo e aveva messo da parte la prima sceneggiatura scritta da Jack Paglen, una storia in cui la componente fantascientifica spicca per il rigore e la cura con cui è inserita in un canovaccio ben più modesto. Si potesse sempre lamentarsi di sceneggiatori esordienti come Paglen però eviteremmo certi disastri visti di recente. Innestare in maniera accessibile ma non semplicistica una storia d’amore assoluto e totalizzante (e dell’annesso terzo incomodo) e l’avvento sempre più ambiguo di una singolarità (un’intelligenza artificiale la cui crescita esponenziale porta in breve periodo a superare il livello intellettivo dell’uomo e, a seguire, dell’intera umanità) è un obiettivo molto ambizioso.
Johnny Depp nel film la chiama transcendenza, alludendo forse al campo semidivino che una così mostruosa capacità di calcolo raggiungerebbe, la letteratura fantascientifica ci ronza attorno con sempre maggiore insistenza (vi ho già parlato del bellissimo “Il fiume degli Dei” fino alla nausea) e il cinema ne è sempre più affascinato (vedi alla voce “Her” o “Transcendent Man”), gli scienziati della Singularity University presenti alla presentazione alla stampa ribadiscono: il film spinge all’estremo filoni scientifici già più che embrionali. Non è futuristico, è futuribile e nemmeno troppo in là a venire. Riguardo alla singolarità poi non è questione di se, ma di quando, quindi se il vostro vicino di poltrona commenta sarcastico o ridacchia, chiedetegli se riderà anche di fronte a una macchina di cui non si può escludere a priori l’autocoscienza. Vi lascio immaginare la mia faccia a leggere recensioni su “un futuro fantastico e improbabile“.
Il limite di “Transcendence” come sceneggiatura e film e che contiene il germe di una miriade di tematiche affascinanti e allusioni inquietanti, ma gli riesce particolarmente difficile far germogliare qualcosa a livello esplicito. Prendiamo ad esempio le due fazioni del film: Will Coaster, supporto umano grazie a cui si raggiunge la singolarità (quindi una componente umana è essenziale, una singolarità al 100% artificiale rimane fuori portata?) e chi lo ostacola. In primis gli ecoterroristi, che tentando di fermarlo accelerano il processo tecnologico, convinti che per preservare l’umanità sia necessario sacrificarla in un numero di vite non quantificabile. Successivamente entra in gioco il governo, con l’ispettore di Chillian Murphy e Morgan Freeman che sembra muoversi per conto dell’esercito. Dapprima interessato ad entrare nel progetto PiNN (il prototipo da cui il dottor Coaster ha sempre voluto tener fuori i finanziamenti governativi), poi deciso a eliminarlo quando lo scienziato uploadatosi nella rete sembra poter proporre una valida alternativa alla milizia ufficiale. Con l’aumento esponenziale della componente “artificiale” di Will e alcune sue decisioni eticamente in bilico, sorge il sospetto che la macchina manipoli lo strato emotivo e mnemonico dello scienziato senza che lui sia presente. La moglie Rebecca Hall è sempre più turbata dai ragionamenti e dalle decisioni del marito, il cui processo decisionale basato su capacità sovraumane diventa sempre più opaco e impenetrabile. Sulla conclusione di un film costruito come una sorta di “The Prestige” più spiccatamente scientifico, il quesito rimane: c’è veramente una fazione “cattiva”? A prevalere è veramente la fazione che farà il bene dell’umanità? Le motivazioni che muovono transcendenza e umani sono complesse; valutando i risultati e i costi ne esce vincitrice l’AI, sacrificando però l’individualità e il libero arbitrio, fondamenti stessi dell’umanità. Il problema è che questo materiale in potenza esplosivo riesce ad emergere a sprazzi, sopraffatto dal rapporto amoroso dei protagonisti, mal giustificato e via via sempre più avviato sullo stereotipo di “Cara ti amo”.
A sorprendere è la direzione di Wally Pfister, fredda, freddissima, quasi glaciale. Anche nelle scene più emozionali c’è una sorta di pudore, di freno nel mostrare la parte più emozionale dei rapporti tra protagonisti. Regia che potrebbe funzionare benissimo se lo script fosse molto più asciutto nei dialoghi e molto più tagliente nel delineare i suoi personaggi, che tutto sommato rimangono abbastanza abbozzati. Siamo sul limitare del hard sci-fi, genere che predilige il contenuto scientifico trascurando i vettori umani, il che è il maggiore limite del film. A peggiorare ulteriormente la debolezza dei caratteri è un casting senza ispirazione.
Johnny Depp è la scelta di gran lunga peggiore e lo sarebbe stata anche se su schermo si fosse presentato l’attore dei tempi migliori e non questa sua ultima evoluzione imbolsita, piatta, svogliata. In “The Prestige” l’intreccio era avvincente anche perché Hugh Jackman riesce via via a ribaltare la valenza del suo personaggio, a renderlo sempre più ambiguo. Depp dovrebbe ispirare angoscia: c’è davvero lui a prendere le decisioni a livello globale o si tratta solo di una macchina? La sua performance è piatta, senza ispirazione, al livello degli ologrammi digitali che molte aziende insistono nel piazzare al posto di bravi operatori in call center efficienti. A Rebecca Hall invece tocca il ruolo ingrato della moglie vestale, fedele e innamoratissima. Le viene richiesto per amor di trama di prendere scelte poco nobilitanti per l’intelligenza del suo personaggio, va bene, ma nulla vietava di darle una personalità che non ruotasse completamente attorno al marito. Paul Bettany (che, guarda caso, stava anche in “Moon”) interpreta il terzo incomodo (altro filone elegantemente accennato e non sbattuto in faccia con malagrazia al pubblico) in maniera encomiabile, nobilitando Evelyn con le sue attenzioni, anche se neppure lui ha il tempo di spiegarcene la ragione. Il resto del cast, Chillian Murphy e Kate Mara in testa, è al servizio di personaggi che agiscono ma di cui le motivazioni rimangono ignote.
Lo vado a vedere? Un’occasione mancata che lascia davvero tanto su cui riflettere. Nelle spettro di emozioni suscitate dal film il sollievo (non assistere all’ennesimo orrendo film fintofantascientifico caciaro) assume presto le note del cocente rimpianto per l’enorme occasione sprecata. Con un cast diverso (soprattutto con un protagonista di maggior carisma) e un regista più adatto a metter le mani sul copione e renderlo meno distaccato, di questo film avremmo parlato per anni. Wally Pfister farà parlare di sè in futuro, ne sono certa, ma è difficile non chiedersi cosa ne avrebbe tirato fuori uno col carisma di Nolan.
Ci shippo qualcuno? No. Ultimamente siamo un po’ carenti su questo piano ma vedrete, ci rifaremo presto.