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maps to the starA posteriori, mi stupisco che l’accoglienza a Cannes 2014 per l’ultima fatica di David Cronenberg sia stata tanto calorosa, considerando come sulla Croisette sappiano essere glaciali e crudeli. Si tratta ufficialmente di crisi creativa: il regista canadese non azzecca davvero un film dal 2007, anno in cui presentò il bellissimo “Eastern Promises”. Questo nuovo stile, l’ossessione per Robert Pattinson (che al momento non ha fornito con le sue prove una motivazione plausibile per la suddetta) e la vecchia volontà di scrostare la patinatura dorata applicata sull’orrore dei media e della fama creano un miscuglio che convince poco, soprattutto considerando che il miscelatore è il padre di pellicole come “Videodrome”.
E dire che dopo il trailer mi sentivo già particolarmente magnanima verso un film la cui estetica mi aveva stuzzicato: i guanti in pelle nera e il caschetto di Agatha, la bellezza svampita e squilibrata di una biondissima Julianne Moore, il titolo intrigante riferito ai tour un po’ squallidi in limousine, per sostare davanti alle case dei famosi sulle colline di Los Angeles.
Il risultato invece è una scorza vuota, che trattiene qualche goccia di una trama esilissima ed esagerata, lasciando ampio spazio all’imbarazzo dello spettatore.
Lo sceneggiatore Bruce Wagner è stato il Robert Pattinson della situazione, quello che guidava limousine e sognava d’entrare nel magico mondo abitato da chi trasportava sul sedile posteriore. Il suo script di segretucci, fragilità e falsità dietro l’ombra patinata dei suoi passeggeri risale a venti anni fa, ma probabilmente puzzava di vecchio già allora, perché la critica caustica al mondo di Hollywood e ai suoi squinternati abitanti è vecchia quanto la celebre scritta sulla collina, un genere cinematografico che ha anche sfornato un paio di capolavori (uno su tutti, l’immenso “Viale del Tramonto”).
David Cronenberg se ne appropria, probabilmente attualizzando la marea di riferimenti contemporanei che assicurano al film una brutta vecchiaia precoce (ve ne butto lì qualcuno: HBO, The Voice, Emma Watson, Whole Food, Yogi Tea, Carrie Fisher che interpreta se stessa, un certo JJ, le produzioni in Canada) che curiosamente mi ha ricordato Aladdin della Disney, i cui monologhi a braccio di Robbie Williams per alcuni minano l’appartenenza stessa al canone, perché destinati a diventare incomprensibili col passare degli anni.
L’errore principale di Cronenberg è quello di fidarsi ciecamente della qualità del continuo fluire di battute ciniche e trivialità assordanti pronunciate dai suoi protagonisti, concentrandosi unicamente su quell’aspetto e trascurando il mistero dietro la sua protagonista, finendo per ricordarsene giusto in chiusura. Il problema di film tanto parlati e statici è che azzeccare la tonalità che li renda formidabili è cosa ben difficile, mentre il rischio di scivolare nell’imbarazzo e nel WTF!? è senza dietro l’angolo.

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Maps to the Stars vorrebbe e dovrebbe essere ben più bruciante e caustico di così per salvare i suoi interpreti dall’imbarazzo di certe scene a cui sono costretti. Se Mia Wasikowska porta a casa l’ennesima buona interpretazione in una carriera sviluppata con attenzione e costellata (pun intended) di ruoli mai banali o comuni, è impossibile non provare un po’ di pena per Julianne Moore, una che non ha certo bisogno di elemosinare parti, infilata in una serie di scene in cui sacrifica la sua immagine di star senza che la potenza del film la ripaghi della imbarazzante intimità di quanto le viene richiesto. Io non so se riuscirò mai a vederla su schermo senza ricordami di quando, in questo film, viene costretta a scoreggiare come manco i film di Neri Parenti, senza che la scena valga lo sforzo. John Cusack e Olivia Williams se la cavano con poco, intrappolati in una storyline così oltre (anche considerando l’estrazione hollywoodiana della famiglia) da essere francamente incredibile. Certe svolte narrative uno spettatore può digerirle per una, non due generazioni. Evan Bird invece risulta godibile e divertente, specie visto con l’ottica del mostruoso piccolo adolescente famoso con spruzzate di Justin Bieber e Justin Timberlake.

Personaggi schizofrenici, perseguitati da visioni ed ossessioni (bellissima la ragazzina con la mappa delle stelle disegnata sulla pelle, speculare alle bruciature della protagonista) si alternano e confondono sullo sfondo di un film “maledetto” che diventa centrale nelle loro esistenze, con una Sarah Gadon (già apprezzata in Amazing Spiderman 2) che dà qualche brivido in versione fantasma del passato. Alla fine ad uscirne meglio sono proprio lei e Mia Wasikowska, che gestisce senza troppi scivoloni (a parte forse la storia del divano) la parte della pazza disturbata sorprendentemente simile ai personaggi che la circondano nel suo ritorno ad Hollywood. Robert Pattinson è non pervenuto o quasi. Tutto sommato, meglio così.

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Lo vado a vedere? Spiace dirlo ma non ne vale proprio la pena. Se non proprio noia, quella che si percepisce guardando in sala “Maps to the Stars” è una laconica mancanza di profondità dietro il diluvio di dialoghi che investe lo spettatore. Poco incisivo e raramente feroce, finisce per farsi notare più per le scene in cui pecca di esagerazione e scade nel ridicolo che per le poche stoccate andate a segno.
Ci shippo qualcuno? Sarebbe abbastanza facile puntare il dito su Julianne Moore e Mia Wasikowska ma, come dice Havana stessa, “I guess I’m a poor dyke”.