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cardIl cardellino di Donna Tartt, tradotto da M. Zilahi De’ Gyurgyokai, Rizzoli, 2014, 892 pp.
Ci è voluta tutta l’allure di una scrittrice ammirata come Donna Tartt (tre libri in trent’anni di carriera, un successo immediato, una qualità di scrittura mai in discussione) per rendere una lettura così corposa uno degli eventi letterari dell’anno, coronato con la nomination al Booker Prize e dalla vittoria del premio Pulitzer per la narrativa.
Il premio è la logica conseguenza di un libro che, come da tradizione del Pulitzer, è intriso di paesaggi e suggestioni americane. Ancora di più, non si limita a descrivere una certa America contemporanea con uno stile al livello della miglior produzione “alta” attuale (come i precedenti vincitori “Olive Kitteridge” e “Il tempo è un bastardo”), ma è nella sua stessa struttura intrinsecamente americano, quel tipo di libro che l’autrice dichiara che non potrebbe che nascere nella sua nazione. Le tragedie, le fughe e la solitudine adolescenziale di Theodore Decker, il protagonista del romanzo, ben si adattano alla classica tradizione di romanzo d’avventura americano, quello considerato “per ragazzi” per via della giovane età dei suoi protagonisti ma che nelle pieghe del racconto nasconde spesso una lezione per l’intera umanità.

Il romanzo della Tartt tuttavia non corre il rischio di finire tra le letture giovanili, e non certo per la sua mole. Lo stile di scrittura, la costruzione dei personaggi e dei molteplici colpi di scena che costellano l’infanzia e la giovinezza del protagonista sono sempre chiaramente fittizi (nel senso di “fiction”) ma gestiti con maestria tale da ricordare i grandi romanzi dell’Ottocento inglese e, su tutti, Dickens. Pochissimi saprebbero oggi scrivere un romanzo in cui riecheggi tanto precisamente la letteratura dell’epoca, senza venir meno alla sua appartenenza alla contemporaneità: Donna Tartt è indubbiamente tra questi. Originaria del Mississippi e compagna di corsi di tanti altri autori americani di fascia alta, guidata da un rituale di scrittura preciso e inderogabile (tutto scritto a mano, stesura dopo stesura, esplorando a fondo le città dove sono ambientate le vicende), Donna Tartt ha il raro dono di restituire l’accessibilità alla lettura e l’universalità dei messaggi di cui godono i grandi classici del romanzo.

“Il cardellino” presenta precisi omaggi a Grandi Speranze e finisce per esserne quasi la riscrittura moderna, pur possedendo l’indubbio marchio di fabbrica della Tartt, che torna a tematiche e voci narranti a lei congeniali. Il lettore segue grandi tratti del percorso di crescita del giovane Theo, la cui vita è segnata irrimediabilmente dalla perdita e dalla solitudine. Nonostante non manchi una dose costante di tragedia nella sua giovane vita, la storia di Theodore è quella di un prigioniero volontario, un sopravvissuto incatenato dalle ombre del passato e del futuro; da una parte il ricordo della madre, quel profondo rapporto di reciproca comprensione e affetto che lo tiene immobilizzato al momento in cui l’ha perduta, dall’altra il cupo presagio di veder germogliare in sé le stesse caratteristiche che lo spingono ad odiare il padre, il polo negativo della sua infanzia. Entrambi i genitori sono simulacri idealizzati frutto dell’unica prospettiva del romanzo, poi ridimensionati da interventi esterni (l’opinione di Boris, Andy e dell’avvocato di famiglia).

Ai poli genitoriali sono associate due grandi città americane, New York e Las Vegas (a cui si affianca sul finale Amsterdam) dove si sviluppano due incipit che danno vita al miscuglio di miseria e nobilità che rappresenta il Theodore adulto. In entrambe le occasioni Theodore ha accanto a sé le persone giuste per disancorarsi dal passato e rifondare la propria felicità su nuovi rapporti umani -con Boris, Andy e Hobie- ma la catena del ricordo e del timore gli impedisce di aprire un nuovo capitolo, fino a quando la perdita e l’abbandono lo riportano al punto di partenza. In sostanza “Il Cardellino” è l’enorme summa di errori, rifiuti, solitudini, stupefacenti e ossessioni che Theodore deve guadare per spezzare la catena e riprendere il controllo della propria felicità.

La maggior parte delle persone sembravano soddisfatte della sottile patina ornamentale e del sapiente gioco di luci che, di tanto in tanto, facevano apparire più misteriosa o meno ripugnante la sostanziale atrocità della condizione umana.

L’evento che distrugge gli equilibri di Theo e lo spinge verso un sé adulto che amplifica tutte le sue debolezze -uno dei punti più alti del romanzo, una scena indimenticabile per potenza visiva e per echi drammatici nel reale – è una sorta di perdita dell’innocenza forzata, con Theodore costretto suo malgrado a macchiarsi di un crimine che sarà il suo tormento e la sua salvezza per il decennio successivo. Theo è tormentato dal rimorso per quanto compiuto ma anche incapace di agire per porre fine al senso di costante inquietudine in cui vive, dolore in cui sembra accoccolarsi e che talvolta sembra quasi salvarlo.

Altra caratteristica memorabile del romanzo sono le amicizie che sostengono Theodore dopo ogni tragedia. Quelle con Andy e Hobie, legate al mondo materno e a quello dell’arte (l’unico in cui Theo riesca a trovare una sorta di autenticità) e poi quella bellissima con Boris, vivida, distruttiva ma salvifica, vero emblema della perdizione associata a Las Vegas. Boris non solo è un personaggio riuscitissimo, un chiaroscuro in grado di rivelare con precisione millimetrica le debolezze del protagonista, ma è anche il sottile raccordo che permette alla Tartt di non deragliare troppo nel finale, consegnando la soluzione alla mortalità incombente che appesta la vita di Theodore:

E io aggiungo il mio amore alla storia delle persone che hanno amato le cose belle, e se ne sono prese cura, e le hanno strappate al fuoco, e le hanno cercate quando erano disperse, e hanno provato a preservarle e a salvarle intanto che, letteralmente, se le passavano di mano in mano, chiamando dalle rovine del tempo la successiva generazione di amanti, e quella dopo ancora.

Volendo trovare un difetto nel romanzo, The Goldfinch perde un po’ quell’eleganza narrativa proprio sul finale, concedendo troppe risoluzioni e spiegazioni in cambio della speranza per Theo e della prova che anche dalle esperienze più dolorose può nascere la bellezza e la salvezza per sé e per gli altri. Data la potenza della chiusa e la tristezza sganciata a palate sul lettore per tutta la vicenda, questa nota rassicurante un po’ troppo alta è assolutamente perdonabile.
Anche sui personaggi femminile ho nutrito qualche lieve perplessità. Se a livello narrativo la loro funzione di ombre del ricordo e corpo dell’ossessione è potentissima (la Madre simbolo dell’innocenza a cui Theo non si può ricongiungere, Pippa una persona che condivide con lui la ferita indelebile della perdita e del trauma, Kitsey intesa più come evoluzione del ricordo della ragazzina passata che come essere umano fisico nel presente) tuttavia non sarebbe stato male avere un personaggio femminile un filo più proattivo di questa sorta di tre Beatrici silenziose. A meno di non considerare Xandra, ovvio.

E adesso vorrei congratularmi con me stessa per avervi detto tutto in maniera così spoiler free che non vi ho nemmeno spiegato il titolo e la copertina, la bellissima copertina che Rizzoli ha mantenuto ma in una magra versione dei poveri dell’originale statunitense, perché sia mai che da noi si possa usare un font adatto al libro e non quello ufficiale della collana, giammai. Chiunque abbia ideato questa copertina ha contribuito in maniera decisa al successo commerciale del romanzo, è evidente.

 


Lo leggo?
Nonostante le premesse ampollose, i messaggi universali, la mole spaventosa e il Pulitzer, “Il cardellino” è una lettura abbastanza agevole, puntellata da continui stravolgimenti nella vita di Theo, tali da spingervi a leggere decine e decine di pagine in attesa di sapere come reagirà il protagonista. Se amate i grandi romanzi, Dickens, se vi sono piaciuti i precedenti vincitori del Pulitzer o i due tomi della Tartt, se amate l’arte e credete nel suo potere di donare ristoro dal costante memento mori che è la vita, non fatevi spaventare e recuperate il libro.


L’edizione italiana non è per niente male, con la traduzione di Zilahi De’ Gyurgyokai che riesce a restituire buona parte la potenza espressiva che immagino la Tartt abbia in originale. Purtroppo però sembra che qualcuno coinvolto nella traduzione o nella revisione abbia un conto in sospeso con l’utilizzo del plurale in presenza di soggetto plurimo, perché a più riprese il classico costrutto “a + b + verbo al plurale” viene disatteso e sostituito con un verbo al singolare che davvero non si può leggere. Date una rilettura alla prima citazione (riportata nell’esatta forma dell’edizione italiana) e noterete come ci sia qualche problemino a stabilire quale sia il soggetto con cui va concordato il verbo. Personalmente trovo la concordanza a senso accettabile nel parlato, sull’irredimibile stampa italiana e su blog cazzari come il presente, non nella traduzione di libri di questo tipo. Peccato perché, basandomi sulla semplice versione italiana senza raffronti con l’originale, la traduzione era davvero buona. Se poi qualche possessore dell’edizione inglese mi potesse far avere l’estratto originale (intorno a pagina 550), mi farebbe davvero un favorone. Siete fantastici, ecco il testo originale:

Most people seemed satisfied with the thin decorative glaze and the artful stage lighting that, sometimes, made the bedrock atrocity of the human predicament look somewhat more mysterious or less abhorrent.

Quindi decade anche l’ipotesi di un errore di concordanza originale dovuto alla giovane età del protagonista (anche se Theo non è proprio il tipo).

Ci shippo qualcuno? Voi non potete capire l’urgenza che ho provato durante la lettura perché volevo finire il libro al più presto, piantare il commento qui sopra di getto per arrivare al punto principale che mi premeva sottoporvi, ovvero questo:
Ship SheepShip SheepShip Sheep
In genere cerco sempre di recuperare il vincitore del Pulitzer (a parte quando sembra una noia improponibile), ma è la primissima volta che durante la lettura devo poggiare il libro e controllare se su Archive of Our Own qualcuno ha già postato delle fanfiction. Che sì, ci sono, quindi non è che sono matta da legare io, è che Donna Tartt costruisce una seconda e terza parte del libro in cui chi conosce il mondo dello shipping non può fare a meno di chiedersi quali gemme preziose potrebbero essere incastonate da una fanfictionara mediamente dotata nelle intercapedini delle ubriacature di Theo e negli interstizi dei ricordi confusi delle notti nel mezzo del deserto. Se vi suona ambiguo sappiate che non è nemmeno la metà di quello che c’è nel libro. Se già stimavo Donna Tartt, a conclusione del segmento losangelino io quella donna l’ho amata dal profondo, perché trovare un’estimatrice del genere a quei livelli che dà una risposta così ferma ai sottotesti del suo stesso libro eh, ragazzi miei, che soddisfazione. Che soddisfazione leggere di lettori sgomenti perché qualcuno potrebbe malinterpretare (ah!) alcuni passaggi e scriver fanfiction sulle loro preziose letture high brow!
Piccolo extra per per chi ha già letto il libro: Nella mia mente, dopo appena una manciata di pagine, Boris era diventato Ezra Miller. Oltre il mio vizio di far partire il fancast mentale appena un libro mi appassiona quel tanto, è stato proprio un collegamento automatico, sarà quell’area da “ragazzo dell’Europa”, saranno i lunghi capelli neri, saranno le sfumature barbone, sarà che mi ricordo alla perfezione quant’era bravo Miller in The Perks of Being a Wallflower. Adesso vivo nella costante angoscia che si faccia un adattamento filmico/televisivo e non prendano lui.

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