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adolescenti problematici, Ari Folman, Autocompiacimento registico, Cannes, Cannes 2013, dramma familiare obbligatorio, fantascienza, film PESO, Harvey Keitel, Jon Hamm, ma anche no, Paul Giamatti, Psicologia e Psicosi, Robin Wright, se capisce e non se capisce, WTF!?
Quando vedo che film come “The Congress” di Ari Folman vengono tollerati e persino apprezzati, sento le mie convinzioni vacillare. Siamo d’accordo che il bello è soggettivo ed è una questione di gusti e tutto quello che volete voi, ma vedere espanso questo concetto sino a inglobare un film tanto sconclusionato e inutile mi fa venir voglia di cercarne gli estimatori a uno a uno con la lista dei film che hanno snobbato e sbeffeggiato, indicandoli e chiedendogli “cosa ha di meglio l’ultimo Folman di questo e quello?”.
Lo dico da una posizione più che interessata e disponibile verso un mondo futuribile e tecnologicamente contraddittorio come quello presentato in questa pellicola. Talvolta però essere un estimatore del genere non può che far balzare all’occhio il cattivo utilizzo (per non dire l’inutile scomodare) dei canoni del genere.
Fosse solo un film dal risvolto fantascientifico mal riuscito, “The Congress” non sarebbe che l’ultima di una serie di pellicole che prende in prestito atmosfere dal genere come elemento d’arredo o poco più. Niente di nuovo e niente di particolarmente riprovevole, se non fosse che Ari Folman ci prova veramente a fare un film speculativo sul futuro, tirandone fuori un pastrocchio orrendo come non se ne vedevano dal terrificante “Upside Down”, ma per motivi diametralmente opposti.
Il film, in cui convivono segmenti in live action e animazione come nel precedente “Valzer con Bashir”, racconta di una Robin Wright in versione peggiorativa di se stessa. Ex stella di Hollywood caduta in disgrazia per una serie di scelte professionali disastrose e per la nascita di un figlio con gravi problemi di salute, l’attrice viene indotta con un lauto compenso a cedere i diritti di sfruttamento della sua immagine digitalizzata per 20 anni. Gli studios potranno animarla come un effetto speciale qualsiasi ed inserirla in un film senza che lei debba essere fisicamente presente sul set, senza che abbia il controllo dei progetti in cui viene inserita. La prima parte del film, la più tradizionale e solida, è incentrata proprio sulla scelta di Robin, sul conflitto tra il desiderio di un’ultima possibilità e la remunerativa opportunità di vivere a spese di se stessa e diventare immortale (la sua immagine non invecchierà come lei).
Anche nella prima parte c’è qualche guizzo artistoide di troppo e qualche sopito WTF!?, ma nulla in confronto alla seconda, delirante metà animata da uno stile visionario e da viaggio in acido. Robin viene chiamata al congresso degli studios, che hanno diffuso una sorta di droga in grado di permettere a ciascuno di vivere in una realtà alternativa in cui l’aspetto di sé è plasmabile a piacimento. Da quando parte il segmento animato, Folman accellera sugli elementi visionari e allegorici, lasciando però dietro di sé le domande e i conflitti imbastiti nella prima parte. Perdendo via via la coerenza e la trama (perché le visioni folli possono essere immaginifiche ed artistoidi al limite dell’autocompiacimento, ma dvrebbero comunque avere motivo di esistere al di fuori dell’impatto visivo), i film non fa che avvolgersi su se stesso senza nulla di rivoluzionario da dire, niente all’altezza dello straboccante cromatismo animato che scorre sullo schermo. Così un discorso potenzialmente enorme su persona e immagine pubblica, proprietà intellettuale ed espressione artistica si trasforma nella solita introspezione autocommiserante della stella di Hollywood invecchiata e della madre fallita, roba che persino il metafilm su “Robin Robot Rebel” di cui viene mostrato un trailer appare più allettante di un lavoro naufragato nella noia in technicolor, che si illude di sorprenderci con un finale di una banalità assordante.
Lo vado a vedere? Non mancano estimatori di questo film (anche se in esiguo numero), vai a capire perché. Se chiedete a me, è un NO alto come un condominio di 10 piani, un candidato difficile da battere (e speriamo che nessuno ci provi, pietà!) come peggior film di fantascienza visto quest’anno. L’unico pubblico che riesco ad immaginarmi è quello compostato da stereotipatissimi studenti del DAMS che vedono solo film che fanno addormentare il resto degli astanti nella sala.
Ci shippo qualcuno? Macché.