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Billie Piper, ci vediamo nei tuoi incubi, Costumismi, Danny Sapani, dramma familiare obbligatorio, Eva Green, father issue, gente figa, Harry Treadaway, John Logan, Josh Hartnett, Londra vittoriana, omoaffettività, Psicologia e Psicosi, Reeve Carney, Rory Kinnear, Sam Mendes, Showtime, Timothy Dalton
Con il quasi totale azzeramento di pellicole interessanti da recensire, ho pensato fosse il momento ideale per segnalare una serie tv della bassa stagione, quella in cui è più facile lasciarsi sfuggire qualcosa per la calura, l’indolenza e il ridotto numero di visioni. Penny Dreadful è uscita un po’ a sorpresa dal cappello di Showtime, rivelandosi una piacevole compagna degli ultimi due mesi televisivi. Scorrendo i nomi delle menti dietro l’impresa però c’è ben poco da stupirsi. Alla produzione troviamo Sam Mendes e John Logan, l’accoppiata che ha contribuito in maniera determinante al successo di “Skyfall”, senza contare un ex 007 e l’attuale regina delle femme fatale del piccolo e grande schermo, ad arricchire un cast convincente e con parecchi volti nuovi da tenere d’occhio. I penny dreadful erano pubblicazioni sensazionalistiche a basso costo diffuse nell’epoca vittoriana, piene di ricostruzioni abbastanza fantasiose di eventi di cronaca, miti, leggende metropolitane, racconti a puntate; il tutto stampato su carta di bassa qualità e destinato alla classe lavoratrice che non poteva permettersi lo scellino necessario a seguire le pubblicazioni a puntate di Charles Dickens o agli antenati dei lettori di macabre testate odierne quali “Giallo”. La serie di John Logan (“Hugo Cabret”, il bellissimo e molto sottovalutato “Rango”), sceneggiatore cinematografico di lungo corso e amante delle storie di mostri e creature magiche, si nutre dell’orizzonte immaginifico di queste testate e del nostro immaginario legato alla Londra vittoriana letteraria, mescolando personaggi inediti e rielaborazioni di figure iconiche dell’epoca (Dorian Gray, il dottor Frankestein, Van Helsing, vampiri, licantropi e tutto l’armamentario al gran completo). Il primo paragone che scatta istintivamente è quello con “The League of Extraordinary Gentlemen”, graphic novel di Alan Moore e Kevin O’Neill in cui comparivano molte rielaborazioni dei medesimi personaggi. In realtà però le somiglianze finiscono ben presto per diradarsi per come John Logan gestisce il tono e le atmosfere della serie, di cui ha sceneggiato tutti gli 8 episodi.
Il punto forte di “Penny Dreadful” è che Logan sfrutta creature fantastiche, ambientazioni gotiche e situazioni horror per creare un ritratto vittoriano tutt’altro che letterario, amalgamando una serie di topoi legati a quella Londra fino a ricreare un’epoca di cui lo spettatore respira i continui contrasti tra modernità e superstizione, tra medicina e stregoneria, tra gentiluomini e assassini. Grazie a questo approccio votato a mostrare più che sfruttare un momento storico dalle caratteristiche uniche, sempre a cavallo tra l’affascinante e il rivoltante, l’intero castello di elementi gotici e svolte horror regge molto più che in passato, creando un’atmosfera che rende giustizia al titolo della serie. Anche alcune scelte tecniche aiutano uno show che non naviga certo nell’oro e che richiede costi non indifferenti per scenografie e costumi. La regia e la fotografia non adottano mai un approccio troppo moderno, prendendosi tempi più lunghi della media e calandosi in pozze d’oscurità in cui costruire le scene più orrorifiche, indugiando sui movimenti dei protagonisti in vecchi teatri, navi in quarantena o edifici abbandonati in cui la luce filtra a fatica e individuare il mostro è una parte non indifferente della lotta.
La caccia al mostro si rivela via via un pretesto sempre più labile dello show, interessato più ad indagare i demoni interiori dei suoi protagonisti che a fargli acciuffare un master/vampiro/dio egizio che intende gettare il mondo nell’oscurità. Appare chiaro fin da subito che la squadra assemblata da sir Malcolm Murray per salvare la figlia Mina dalle grinfie dell’essere oscuro è accomunata da una condizione di dolorosa unicità, con ciascuno membro divorato ed indurito dal segreto che lo consuma.
Perhaps it has always been there, this thing, this demon inside me. Or behind my back, waiting for me to turn around.
A rendere via via più appassionanti le vicende del gruppo non sono tanto i segreti in sè (tutti facilmente intuibili), quanto la sottile ambiguità di chi ne viene consumato ma non è disposto a liberarsene. I protagonisti di “Penny Dreadful” soffrono per la loro diversità infamante eppure non sembrano mai veramente pentiti di ciò che li rende diversi e unici, anzi, ne fanno spesso un punto d’orgoglio e una sofferenza a cui non sono disposti a rinunciare. Ad esplicitare questo concetto a più riprese ci pensa Dorian Gray:
To be different. To be powerful. Is that not a divine gift?
Ethan Chandler, il pistolero fuggito dall’America per non meglio precisati dissidi con la Legge e col proprio padre, lo dice chiaramente:
We’ve all done things to survive. There are such sins at my back it would kill me to turn around.
Anche se forse la citazione che più chiarisce il senso di sacralità e superiorità che i vari personaggi provano a fronte del loro carico di colpa e sofferenza è quella di Vanessa Ives, in cui ritorna un certo eco divino e un certo masochistico desiderio di glorificazione della sofferenza:
If you have been touched by the demon, it’s like being touched by the back hand of God. Makes you sacred in a way, doesn’t it? Makes you unique, with a kind of glory. The glory of suffering, even.
Come tutti gli altri, Ethan sente su di sé la macchia del peccato e l’impossibilità della redenzione, eppure questo costante senso di colpa dietro la maschera da tenere in società è quasi motivo d’orgoglio per gli stessi, ciò che li fa sentire unici, superiori al marasma di vite gentili e inconsapevoli che li ricorda. Il senso del peccato, la religione e il rapporto con Dio sono un altro motivo ricorrente negli scambi tra personaggi, assestati su livelli differenti di problematiche relazioni con l’Altissimo, disillusi eppure disposti a credere in una religione che si riveli salvifica rispetto al dolore in cui si sono intrappolati.
Ethan Chandler: Do you believe in God?
Sembene: I believe in everything.Vanessa Ives: I have a complicated history with the Almighty.
Dr. Victor Frankenstein: I believe in everything but God.
Altro motivo chiave è quello della famiglia, del rapporto di dipendenza tra genitore e figlio. Che siano rapporti di sangue (Murray e i figli, Frankestein e la madre) o d’adozione (Frankestein e la sua creatura, la Creatura e l’attore teatrale, Frankestein e Van Helsing, Vanessa e sir Murray), quello di natura familiare è uno dei vincoli più forti all’interno delle dinamiche della serie, che unisce e divide i protagonisti sotto l’egida della morte, intesa come momento di redenzione, fuga dal dolore, castigo, unica espiazione possibile, gesto d’amore. Quando la loro unicità sfocia nella solitudine, i protagonisti finiscono per avvicinarsi e leccarsi le ferite, ma non sono che attimi, perché in realtà bramano di poter essere unici nella loro perdizione e finiscono per ferirsi, coscienti di come la sofferenza dell’altro normalizzi e banalizzi la propria.
Purtroppo all’interno di queste dinamiche piuttosto complesse alcuni personaggi fagocitano le risorse dello show a discapito di altri. “Penny Dreadful” si affida a due interpreti carismatici come Eva Green e Timothy Dalton per costruire il nucleo narrativo principale, dedicato ad entrambi puntate quasi esclusive. Il risultato è un rapporto burrascoso tra i due, dove convivono affetto e vendetta, cattiveria genuina e ripicche, dolori convidisi e tradimenti intollerabili. Nonostante io abbia un’autentica adorazione per Eva Green e ritenga che sia stata la scelta migliore per un ruolo tanto calcato (forse l’unica capace di portarlo a casa in maniera tanto straziante), a fronte della continua richiesta della regia di a- fare la posseduta b-aggrottare la fronte c-apostrofare chiunque passi con un “How dare you to…!?” (d-scene di sesso così ardenti che dopo 300 e in attesa di Sin City II rischiano di finire nel suo type casting) le ho finito per preferire Timothy Dalton, il peggior padre dell’intera Londra, consumato dalla febbre dell’ambizione, solo superficialmente interessato a una redenzione filiare, tanto da ispirare spesso il disprezzo nella banda di tizi non proprio raccomandabili che si costruisce attorno. Eppure si percepisce chiaramente il fascino della sua determinazione, la fiamma del suo desiderio e il tenue rimorso per le convenzioni distrutte sulla strada della soddisfazione del proprio ego.
A fare le spese di questo scontro tra due personaggi che giganteggiano è un po’ il resto del cast, tra oculata conservazione delle sottotrame per la seconda stagione (già confermato l’ordine da 10 episodi) e storyline messe in pausa, in attesa di svolte comunque inevitabili. Povera Billie Piper, bloccata nel ruolo classico della prostituta da redimere tramite brutta malattia ai polmoni e amore impossibile, in attesa di uno sviluppo arrivato sul finale che era palpabile dalla sua prima entrata in scena. A farle compagnia c’è Rory Kinnear (un altro ex di “Skyfall”), una creatura che minaccia una pericolosità che deve arrestare in attesa che Vanessa e Murray sistemino le loro beghe, frenando a sua volta il promettente Frankestein di Harry Treadaway da una vera e propria esplosione narrativa. Invece Josh Hartnett parte quasi come punto di vista privilegiato della storia, salvo poi venire fagocitato da perfomance un filo più sentite.
Altra piccola pecca di uno show che ben poco da farsi perdonare sono i supposti nemici e la povera Mina, privati di ogni possibilità di essere all’altezza della controparte, incapaci di fare altro che essere un bersaglio mobile o attaccare casa Murray. Entità potentissime private di qualsiasi motivazione, manovrate per le finalità della trama come i giovani vampiri vengono manovrati dal loro Maestro, spostati e risistemati secondo necessità, privi persino di una propria voce, come appunto la figlia di Murray, di cui non fatico a comprendere l’istinto assassino nei confronti di miss Ives. Speriamo che la seconda stagione riesca a metterla più sul personale.
Lo recupero? Sensuale e spirituale, intimo e tormentato, Penny Dreadful sembrava promettere qualche brivido vittoriano con cui combattere la calura estiva, invece si è rivelato un breve viaggio in compagnia di protagonisti con cui valeva la pena soffrire e turbarsi. In attesa di una seconda stagione che sembra promettere la fine del freno a mano inserito in alcune storyline, forse è meglio recuperare la prima mentre è ancora fresca di trasmissione.
Ci shippo qualcuno? FUFUFUFUFUFU. Ok, il fatto che il demonio che possiede Vanessa ponga ad Ethan le domande medie che assillavano le fangirl dopo una certa scena è stato forse uno dei momenti più inquietanti dell’intera stagione. Senza contare la soddisfazione drivata dal sottotesto che il megaflash in casa Murray portava con sé (che poi, sottotesto, insomma!). Anche ignorando la presenza di quel fighetto di Dorian Gray con quella faccetta lì, diciamo che “Penny Dreadful” è una serie a cui non manca una certa dose di sensualità, declinata in sfumature che soddisferanno palati dai gusti differenti.
Il demonio è una fangirl U_U
Detto questo, sto recuperando la serie in tv dopo averla vista in lingua originale perché, lo ammetto, alcuni passaggi mi erano proprio sfuggiti (il 50% delle volte che Ethan parlava non ci capivo una cippa -__- ) e devo dire che è una serie che ho apprezzato/sto apprezzando man mano che la storia va avanti. All’inizio ciò che mi ha spinto a vederla è stata l’ambientazione, poi man mano mi sono interessata ai personaggi, soprattutto a quello di Dalton che, a mio modesto parere spadroneggia. Una delusione? Il poco spazio dato ad altri personaggi (soprattutto quel Dorian Gray che è uno dei miei amori letterari). Puntata dopo puntata stavo lì dicendomi che prima o poi sto personaggio, con il suo potenziale, sarebbe “esploso”… e invece nisba. Vabbé, vedremo nella seconda serie ^^
Recensione come sempre ben scritta e brillante ^^
P.S.: posso approfittare per fare un coming out? A me Billie Piper non piace, proprio non riesco a digerirla e qualsiasi personaggio interpretato da lei, mi irrita. Ed è una vera stupidata da parte mia, lo ammetto, perché in questa seria aveva i “numeri” per risultarmi simpatica, per lo meno… Ok, chiedo scusa per lo spreco di spazio virtuale
Awwww, Dalton. Scatena la gerontofilia che c’è in me.
Su Billie Piper non sei davvero l’unica a pensarla così, anzi.