Tag
Booker Prize for Fiction, le meravigliose lande della Nuova Zelanda, libri col DRAMMA dentro, libri sull'amore per i libri, Llyod Jones, tristezza a palate
Dopo il primo successo di “The Bone People” (1984) e prima della travolgente vittoria dell’anno scorso con “The Luminaries”, a rappresentare la Nuova Zelanda al prestigioso Man Booker Prize è stato Llyod Jones con Mister Pip.
Nonostante sia uno dei romanzi neozelandesi più noti a livello internazionale e goda di una traduzione italiana a cura di Einaudi, io non ne avevo mai sentito parlare, non prima di aver fatto una ricerca in chiave geografica piuttosto ristretta.
Peccato, perché questo romanzo per lunghezza e contenuti lontanissimo dagli ultimi vincitori è davvero di livello, tormentato sia nei contenuti che nella stesura, che leggenda vuole sia stata effettuata per ben sette volte prima di arrivare alla versione finale. Anzi, ha una certa rassomiglianza con quello che è stato forse il libro più acclamato del 2013, The Goldfinch (di cui vi ho già parlato QUI), a partire dai richiami dickensiani e dalla bibliofilia che impermeano le pagine di entrambi.
Curioso come dopo “Il Cardellino” mi sia a ritrovata a leggere un libro che sin dal titolo si rifà al grande classico di Dickens, quel “Grandi speranze” che, assieme alla Bibbia, è l’unico libro alla portata della giovane protagonista sulla sperduta isola del Pacifico dove sono ambientate le vicende travagliate avvenute negli anni ’90, anche se la dimensione temporale è così sospesa che è difficile capire se si tratti davvero del 1900 o del secolo precedente.
A differenza di Tartt, Jones non si limita a qualche moderno rimando, bensì rende il protagonista dickensiano uno dei personaggi del proprio romanzo, la cui presenza si fa via via più palpabile ancorché invisibile. Tutto comincia quando viene chiesto al signor Watts, l’unico uomo bianco rimasto su quest’isola una volta ricca di rame e ora tornata ad uno stato quasi primitivo, di fare da insegnante ai figli degli isolani, gli autoctoni dalla pelle scurissima che conservano solo ricordi dell’evengelizzazione tentata anni prima dai coloni.
Mentre all’embargo dell’isola segue una sanguinosa guerra contro i pellerossa (gli abitanti delle isole vicine, di un’etnia dall’epidermide più rossastra), rimasti anch’essi senza soldi e lavoro con l’esaurimento delle miniere nell’indifferenza del vicino continente australe, Watts “Pop Eyes” comincia a leggere alla sua classe poco più che capace di comprendere l’inglese il suo libro preferito, quel “Grandi Speranze” che ritiene il più grande esempio di umanità letteraria e il più alto insegnamento per veri gentiluomini prodotto da Dickens.
A poco più di metà tomo alcuni avvenimenti drammatici rompono il sottile equilibrio che aveva reso fino ad allora il romanzo una sorta di racconto d’esotica formazione letteraria della giovane protagonista, Mathilda, divisa tra l’amore per la madre cattolica e la fascinazione verso il maestro ateo, portatore del suo amico immaginario Pip, conosciuto con la lettura collettiva di un capitolo al giorno, fino a diventarne quasi un’intima amica. Sarà proprio la presenza spirituale di Pip – o meglio ancora l’impossibilità di una sua presenza fisica – a causare una catena di eventi che avranno conseguenze tali da comportare una rottura dell’equilibrio paradisiaco dell’isola e dello stile stesso del romanzo. Nella seconda parte infatti il tono si fa più cupo e realistico, lasciando al lettore l’amara scoperta di aver letto un meta-romanzo il cui finale è ben più amaro di quanto si poteva aspettare.
Un romanzo bellissimo, sospeso in una dimensione temporale e spaziale imprecisa ma tragicamente preciso nel raccontare come la guerra e i suoi orrori non abbiamo bisogno che di un attimo per distruggere la normalità, spesso tra l’indifferenza del mondo.
You saw how disrespectful the sun could be, and how dumb the palms were to flutter back at the sea and up at the sky. The great shame of trees is that they have no conscience. They just go on staring.
Llyod Jones compie un lavoro formidabile, usando Pip come perno attorno a cui far cambiare via via la percezione di Mathilda della madre e del maestro, scoprendone i segreti taciuti ma senza spiegarne fino in fondo le motivazioni, facendo variare il polo di negatività ora su un personaggio ora sull’altro, fornendoci così in prospettiva la presa di coscienza e la perdita dell’innocenza di una giovane adulta, fino alla sua decisione finale: tradire il suo stesso ideale dickensiano (l’ossessione di una studente che finisce per trasformarsi anch’essa in amara disillusione) e compiere l’unica scelta che la farà sentire davvero a casa. Sotto questo punto di vista, Jones batte Tartt e con 600 pagine in meno.
Lo leggo? Ho preferito non dilungarmi troppo sulla trama e sulle considerazioni, perché “Mister Pip” è un romanzo che va scoperto, così come ho avuto la fortuna di fare io. A differenza di quanto è successo per me, voglio solo che siate preparati sul grado di angoscia e orrore che raggiunge, senza essere mai veramente violento, solo drammaticamente realistico. Un nominato al Booker prize da quel Commonwealth quest’anno così ingiustamente ignorato che vale la pena riscoprire e l’ennesimo, stupendo libro sull’amore per i libri.
Di “Mr. Pip” nel 2012 è stata girata la trasposizione cinematografica, con Hugh Laurie (House) nel ruolo di Mr. Watts….
L’ho visto. Un po’ mogio, forse fiaccato dall’ammorbidimento delle svolte più crude del romanzo.