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Costumismi, delicate palette cromatiche, film col dramma dentro, fotografia leccatissima, il Listone, Jane Campion, la forza salvifica dell'Ammmore, le meravigliose lande della Nuova Zelanda, pampini!!, piangerone, tristezza a palate
Ben prima che Peter Jackson trasformasse la Nuova Zelanda in una nazione universalmente nota per la bellezza selvaggia del suo territorio con le lunghe carrellate cult dei suoi paesaggi mozzafiato, la piccola nazione agli estremi del mondo aveva già trovato la sua paladina cinematografica, una delle registe più note ed apprezzante di sempre: Jane Campion. Pur avendo prodotto altrove buona parte dei suoi lavori, Campion è un marchio di fabbrica neozelandese, oltre che ad aver sfornato un paio di pellicole di una bellezza impressionante, che meriterebbero a priori la visione. In questo breve post vi illustro una manciata dei suoi film più famosi e riusciti, scelti capricciosamente sulla base nel mio gusto e sul metro di neozelandesità del contenuto.
Un angelo alla mia tavola (1990) Terzo lungometraggio della Campion è il film che la rese celebre internazionalmente (con un Leone d’Argento a Venezia che in tanti avrebbero voluto d’oro) e il più neozelandese del filotto. Nato come un progetto televisivo in tre parti, si è poi trasformato in una lunga pellicola in 4:3 (con un’edizione home video italiana molto deludente) che conquista soprattutto i puristi dell’arte cinematografica. Personalmente lo trovo ancora poco rifinito ed eccessivamente lungo, ma indubbiamente l’omaggio della Campion alla più celebre scrittrice del suo Paese, quella Janet Frame dalla travagliatissima storia personale, esprime già appieno l’intensità delle sue opere successive, complice la vita straordinaria della protagonista. Janet Frame è una sorta di Alda Merini neozelandese, prolificissima scrittrice la cui cronica timidezza venne curata alla stregua di una malattia mentale, provocandole indicibili sofferenze ma lasciando intanta la meraviglia con cui affrontò la sua gioventù avventurosa, prima di tornare nel caldo abbraccio della sua terra. Il film è un ritratto biografico che bilancia perfettamente meraviglia e crudezza, squallore quotidiano e straordinarietà femminile, regalando il primo di una serie di ritratti femminili che costituiscono la notevole galleria della Campion. Sarebbe però un errore ritenere che la ricorrenza dell’aggettivo “femminile” comporti un qualche ammordibimento. Campion parla di storie femminili con la tempra dei suoi colleghi maschi, facendosi portatrice di un lirismo che non esclude momenti quasi brutali. Da sottolineare anche l’accuratezza del cast, che qui come altrove privilegia il talento e la verosimiglianza all’avvenenza. Splendida la performance di Kerry Fox.
Lezioni di Piano (1993) Con la pellicola successiva Jane Campion esplode a livello mondiale, tirando fuori dal cappello quella che forse è le sua pellicola più bella (no, non fatemi scegliere tra questa e l’ultima!) con cui ha vinto tutto: Palma d’Oro e 3 Oscar. Ovviamente niente Oscar alla regia, ma il suo sostituto più vicino, ovvero quello per la sceneggiatura originale. Il film è universalmente noto per aver fruttato alla pargoletta Anna Paquin un’Oscar come miglior attrice non protagonista, immaginatevi lo shock di rivederla adulta a combinar sconcezze in True Blood dopo averla vista caparbia e sciocchina danzare di fronte all’Oceano. Anche Holly Hunter (che lottò per avere il ruolo nonostante fosse una delle scelte di ripiego dopo tanti rifiuti) vinse e lei sì a ragione, per un’interpretazione superba di un personaggio molto nelle corde dell’Academy (sposa con una figlia illegittima, semi-muta, appassionata pianista, venduta al marito per corrispondenza e spedita insieme a piano e bimba in Nuova Zelanda, in mezzo a una foresta popolata di maori trattati come primitivi dalle comunità cristiane di bianchi che laggiù tentano di fare affari) reso con una nota di pacata disperazione lontanissima da altri ritratti più caricaturali.
Il personaggio di Anna Paquin è uno degli esempi più belli dei bambini che popolano la cinematografia della Campion, sempre presenti ai margini dell’immagine come spettatori e talvolta improvvisi protagonisti grazie alla loro fanciullezza, inquieta e crudele, ritratta con un’espressività tale da lasciar percepire allo spettatore come siano nettamente separati dal mondo degli adulti per indole, quasi degli alieni. Anna Paquin che ficcanasa in giro sarà sempre un ricordo bellissimo.
Oltre alla difficoltà di girare in quelle location (la spiaggia e la foresta) un film in costume e con tanti passaggi complicati legati al pianoforte, Jane Campion riesce ad infondere lirismo e onirismo -senza scomodare l’efficacia delle inquadrature e la perfetta economia del montaggio- in una storia vittoriana selvaggia e intensa, castigata ma sensualissima. Lo spirito di un’epoca intriso in una pellicola agli antipodi del mondo. Un film indimenticabile e simile a nessun altro, la risposta migliore per chi pensa che i period drama siano solo smancerie e storie d’amore, che questo giro non ho scomodato perché questo film è talmente tante cose che ridurlo a una mera storia d’amore sarebbe ingiusto.
Ritratto di Signora (1996)
Se non vi è chiaro perché Nicole Kidman, ora completamente paralizzata dalla chirurgia plastica e dal broncio perenne, sia diventata una stelle di questa portata, dovreste vederla in questo ruolo che le ha affidato la Campion, al fianco di una fantasmagorico John Malkovich, capace di superarsi in crudeltà gelida dopo la prova de “Le relazioni pericolose”. Il capolavoro di Henry James prodotto dalla vicina Australia e interpretato da un’australiana, il film ha i toni della pellicola di formazione femminile ben più marcati rispetto al passato di Jane Campion, ma qui, nonostante la performance dolente della Kidman, gli splendidi costumi e scenografie e il notevole materiale di partenza fornito dal libro, qualcosa s’inceppa e la pellicola ha l’imperdonabile difetto di essere molto fredda, così come i suoi poco sentiti personaggi. Concesso, la sfida di adattare un titolo del genere è da far tremare i polsi (romanzo psicologico vuol dire cavoli amari su grande schermo), siamo comunque di fronte a una storia d’amore e disperazione da vivere a nervi tesi dall’inizio alla fine. Purtroppo si sente che c’è qualcosa che non va; alla Campion il film scappa un po’ di mano nella parte centrale e, a fronte di un finale che funziona, la parte centrale è appesantita da qualche lunghezza di troppo. O forse è solo che la liberazione di una donna imprigionata dalle costrizioni sociali e fisiche come in “The Piano” è meno straziante da osservare di una donna che, conquistata tale libertà, si va ad imprigionare in un confino mentale con le sue stesse mani. Perché ho scelto questo film allora? Perché non si dice mai di no a un period drama in più della Campion e perché i due successivi sono IL MALE ASSOLUTO.
Bright Star (2009)
Nel mondo in cui vivo io, tra il 1996 e il 2009 Jane Campion non ha fatto niente (niente), se non prepararsi a realizzare uno dei film romantici più belli di sempre. Per romantico intendo capace di evocare con precisione straordinaria l’epoca romantica in ogni sua sfumatura: le convenzioni sociali, l’arte, la poesia, la miseria, il rapporto con la natura, l’intensità del sentimento amoroso via lettera, attraverso una delle figure simbolo del periodo, John Keats. Non è la biografia del poeta però, bensì quella della sua fitta corrispondenza amorosa con la sua amata, personaggio alla pari in un film che esplora l’impatto dell’ideale romantico e la crudeltà della convenzione sociale sui rapporti uomo donna. Graziato da un equilibrio perfetto e da due protagonisti in stato di grazia (come si può scegliere tra Ben Wishaw e Abbie Cornish e decidere chi sia più bravo?), potenziato da una serie di inquadrature estetizzanti al limite della pornografia romantica (il campo di lavanda, la stanza invasa dalle farfalle, il sogno sull’albero) e consacrato dal MIGLIOR GATTO DELLA STORIA DEL CINEMA EVAH (ok, forse parimerito col poveretto di Alien), Bright Star è un film da cui vi farete volentieri lacerare l’anima. Perché se non ne uscite distrutti, dopo quel finale lì, non avete un cuore. Se pensate di essere troppo uomini per questo genere di frivolezze, sappiate che Quentin Tarantino ne è uscito così distrutto anche lui (cito: “Never has heartache been so realistically and movingly portrayed as Abbey taking to her bed”) da scrivere a Jane Campion che lo ama, nonostante odi i period movie (QUI). Ah, rudi cinefili, vi ho fregato con Tarantino, moh vi tocca., ahahah! Tranquilli, fingeremo di non vedere le lacrime che scorreranno sulle vostre guance a fine visione.