Tag
Einaudi, Giappone, giapponesi tristi forte, Haruki Murakami, letteratura giapponese, omoaffettività, Psicologia e Psicosi, se capisce e non se capisce
Forse non tutti sanno che: io non sono esattamente un’entusiasta estimatrice di Haruki Murakami, tanto per dirla con un eufemismo. Tanto che ieri, quando ho chiesto su twitter a quale dei libri in attesa di un post dedicato dovevo dare la priorità, Murakami ha vinto la partita. Questo perché chi mi conosce come lettrice sa che ci sono buone probabilità di veder scorrere del sangue quando comincio a parlare di lui, Haruki Murakami, lo scrittore giapponese vivente (e forse anche non) più famoso, venduto e venerato a livello internazionale.
Forse non tutti sanno che, parte due: ho una discreta conoscenza della letteratura giapponese, dai classici stile Genji Monogatari e compagnia cantante ai contemporanei. Quindi presto o tardi quello che viene pubblicato da noi proveniente dal Sol Levante lo passo in rassegna, pur sapendo che finisce per essere tradotta solo una certa tipologia di romanzo contemporaneo: quello pruriginoso di denuncia e Murakami (massimo Banana Yoshimoto, se proprio). Nonostante la mia profonda irritazione verso lo scrittore giapponese meno giapponese di tutti (o meglio, accuratamente calibrato per proiettare i giapponesi come si vorrebbero in patria e come ci piace immaginarli all’estero), finisco quasi sempre per leggere le sue novità.
L’appuntamento con L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio era poi quasi obbligato, dato che ha venduto un numero impressionante di copie ovunque, dal Giappone agli Stati Uniti fino al Regno Unito (e immagino che anche in Italia non se la sia cavata male), merito della devozione del suo pubblico sì (e di un battage mediatico impressionante, ve lo dico da follower su Twitter dei suoi editori inglesi) ma anche di una quarta di copertina che comunicava un ritorno alle origini.
Se ho ceduto abbastanza velocemente a Tazaki Tsukuru è perché già dall’incipit era chiaro che ci sarebbe stata una trama vera e propria e non quell’esile spunto che si perde tra deliri magici e comode passeggiate oniriche per le strade di Tokyo (e i gatti che scompaiono e i personaggi femminili ancor meno consistenti dei felini). E se pensate che sia cattiva adesso, avreste dovuto sentire cosa avevo da dire alla fine della lettura di After Dark (di cui, per la mia sanità mentale o per la pochezza del tomo, ho rimosso *tutto*).
Tazaki Tsukuru ruota attorno a un mistero irrisolto destinato a rimanere tale, ma dai contorni molto più consistenti della media di Murakami. L’omonimo protagonista è un solitario costruttore di stazioni ferroviarie originario di Nagoya a cui la pseudo fidanzata Sara chiede di risolvere il quesito che l’ha consumato fino quasi alla morte e reso una persona con un lato inaccessibile che potrebbe ostacolare la loro relazione qualora si facesse seria: perché i suoi quattro amici di Nagoya a cui un tempo era legatissimo di punto in bianco durante l’università gli hanno chiesto di non contattarli mai più e sparire dalle loro vite?
Il tomo di fatto riassume il tentativo di Tsukuru di dare una risposta a questa domanda ma anche di darsi una risposta sul suo valore come persona, sempre in bilico tra vittima e carnefice.
La prima domanda che sorge spontanea nel lettore occidentale è: ma perché Tsukuru non ha chiesto motivazioni agli amici al momento della sua cacciata? La risposta, sorprendentamente, è squisitamente giapponese nel comportamento di Tsukuru, consumato dal rifiuto eppure incapace di ergersi contro quel no deciso del gruppo, di commettere la scortesia di insistere. Questo è solo uno degli aspetti che forse al lettore poco avvezzo al sentito orientale sembreranno improbabili; a me invece ha molto sorpreso quanto poco Murakami abbia raffinato e addomesticato questo lato giapponese del suo romanzo, anche a costo di lasciare perplesso il lettore straniero, operazione per lui quasi inedita.
Se la parziale risoluzione del quesito in sé non è nemmeno troppo originale è perché il fulcro del romanzo è un altro, ancora una volta molto giapponese. Tsukuru e i personaggi coinvolti in quella storia si trovano a confrontarsi con quelle vicende passate e quel sentimento irrimediabilmente perduto di comunanza spirituale che condividevano, un equilibrio quasi miracoloso che la cacciata di Tsukuru ha inevitabilmente distrutto. Come il fulgore dei fiori di ciliegio viene spazzato via al primo alito di vento, così tutta quell’intesa spirituale del gruppetto si rivela tristemente compromessa quando i suoi protagonisti provano a ripercorla e non solo nel presente di adulti ormai profondamente cambiati, ma anche nell’interpretazione contrastante che ognuno dà di quello che sentivano di percepire come un unico armonico.
A unire il cuore delle persone non è soltanto la sintonia dei sentimenti. I cuori delle persone vengono uniti ancora più intimamente dalle ferite. Sofferenza con sofferenza. Fragilità con fragilità.
Non che manchino i momenti in cui la trama si frema bruscamente per permettere ai personaggi di mostrare quanto siano profonde le riflessioni del loro autore né i classici momenti onirici e visionari che meritano il più sentito se capisce e non se capisce, ma per la media di Murakami si tratta di un romanzo strutturatissimo e piuttosto lineare, quasi semplice. Tanto da ricordare, non a caso, uno dei suoi primi successi, quel Norwegian Wood con cui condivide davvero tanto, sia per tematiche che per personaggi.
E adesso il momento tanto atteso in cui finalmente sbrocco: perché i personaggi femminili di Murakami devono essere sempre ombre opalescenti, comprimari così futili e passivi? In questo romanzo abbiamo Kuro e Shiro (i cui nomi contengono riferimenti al colore nero e bianco) e Sara. Le prime due fanno parte del gruppo di Nagoya, completato dai due maschi Ao e Aka (rispettivamente blu e rosso). Si vede così spiegato il ruolo “incolore” di Tazaki, tra i pochissimi personaggi del romanzo a non avere un riferimento esplicito a un colore nei kanji del nome. Kuro e Shiro sono l’aggiornamento delle due protagoniste di Norwegian Wood, i due archetipi di donna che popolano l’universo dello scrittore: Kuro espansiva, gioviale, sarcastica e più disinibita, Shiro riservata e un po’ frigida, di una bellezza delicata da bambola di porcellana, gentile. Sebbene entrambe ricoprano un ruolo notevole nell’economia del romanzo, in realtà del loro vero carattere oltre questa contrapposizione di bianco e nero, introversa ed estroversa, disinibita e frigida non sappiamo nulla né nulla mai sapremo. Una novità c’è: Kuro ha le tette grosse, particolare impossibile da non notare dato che ad ogni sua apparizione ci viene ricordata con grande solerzia la notevole dimensione e voluttosità del suo seno (particolare decisamente irritante nelle fasi avanzate del libro, dove il punto dovrebbe essere ben altro), Shiro piccole. No comment.
Sara insieme ad Haida è il personaggio più misterioso del romanzo e a mio parere l’ingenuità che a un altro autore contesteremmo delusi. Sara ci viene presentata come una donna misteriosa e piena di lati da scoprire ma, eccettuata la sua notevole eleganza nel vestire, di lei non sappiano davvero nulla. Il vuoto. E questo perché Sara e il suo vice nei flashback Haida sono due giganteschi deus ex machina a cui Murakami fa continuo ricorso per spingere Tsukuru verso l’azione, in un romanzo che nel suo fluire di spiegoni e rivelazioni ha un ritmo più che sincopato, quasi faticoso, a cui è necessario questo continuo intervento di comprimari per spiegare, contestualizzare, fare il punto.
Quel ricordo lo puoi anche nascondere, certo, lo puoi seppellire da qualche parte in fondo alla coscienza: ma non puoi cancellare il passato, – disse Sara guardandolo dritto negli occhi. – Faresti bene a tenerlo a mente. Si possono seppellire i ricordi ma non si può cambiare il corso della storia. Sarebbe come uccidere il tuo stesso essere.
Un altro appunto: il protagonista ti urla dalla prima pagina “guardami, è la proiezione letteraria di Murakami che ti parla!“. Non che sia particolarmente irritante (anzi) ma devo dire che sono rimasta abbastanza delusa quando a fronte della sua tanto sbandierata mancanza di colore viene fuori che in realtà si tratta del solito uomo eccezionale pieno di qualità e capace di scatenare tumulti nel cuore delle donne (non della presente, sia chiaro). Sarebbe stato bello, per una volta nella vita, che l’ego di Murakami avesse concesso a un suo protagonista di essere davvero mediocre, e non l’ennesimo scapolo d’oro dall’eccezionale sensibilità e gusto pronto a rincorrere i fantasmi femminili nelle notti di Tokyo.
Il cuore umano è come un uccello notturno. Attende in silenzio qualcosa e, quando viene il momento, vola dritto in quella direzione
Lo leggo? Non mi illudo nemmeno per un secondo di riuscire a far desistere uno degli adoranti fan di Murakami dal tuffarsi sulla sua ultima fatica e forse, in questo caso, non è nemmeno il caso di farlo. Tazaki Tsukuru è forse il romanzo più godibile della produzione recente di Murakami e sicuramente il più giapponese. Se avete amato Norwegian Wood, vi piacerà anche questo, nonostante condivida col suo esordio certe ingenuità mostruose che da uno scrittore così navigato mai t’aspetteresti. Se ci fosse stato un altro nome in copertina, sarebbero tutti stati così entusiasti? In questo caso, io non lo credo.
Ci shippo qualcuno? [vagamente spoiler] FINALMENTE! In questo libro l’ambiguità è così palpabile e le donne così inutili che io sfido chiunque a non desiderare ardentemente un ritorno sulla scena di Haida (il personaggio grigio, di cui Murakami a un certo punto fa pure un foreshadow che poi si perde nel nulla…Nobel subito!). Premessa necessaria: Murakami non è uno che affronta obliquamente le scene più sensuali ma qui l’atmosfera è (ancora una volta, come in Norwegian Wood) quantomeno esplicita in almeno un paio d’occasioni e in particolare il climax del libro è una scena piuttosto diretta a livello sessuale. Ma anche a livello di shippatrici folli. Vi dico solo che la cosa prende una piega così dettagliatamente omosessuale che persino Tsukuru si domanda se dentro di sé magari si nasconda un’inaspettata sfumatura arcobaleno.
Non mi stupirei se al Mandarake ci fossero già delle doujinshi (per i non avvezzi: brevi pubblicazioni autoprodotte dai fan in formato manga spesso dedicate a realtà alternative dove personaggi di qualsiasi prodotto culturale scopano come ricci, suppergiù) perché la scena raggiunge un livello di dettaglio che vi giuro, mi sono detta Se arriviamo a qualcosa di concreto, giuro che mi prosterò ai piedi del malvagio vitello d’oro Murakami. Ovviamente non è succeso ma gente, quanta roba. Mamma mia, tra questo e The Goldfinch quest’anno piovono metafanfic anche nella letteratura di alta fascia! EVVIVA!
Vorrei rassicurare gli eterosessuali e non fangirl all’ascolto: andate tranquilli, ci sono così tanti riferimenti eleganti a peni turgidi, vagine penetrate e tette abbondanti che potrete ben sopportare una decina di pagine di devastante omosessualità onirica.
L’edizione italiana è a cura di Einaudi, che io avrei tanto voluto insultare per quell’insulsa copertina (specie se paragonata a quella inglese o americana) ma ahimé, é la copia di quella giapponese, con l’illustrazione di Morris Louis che in effetti ben rappresenta il mio sentimento appena scorgo il nome Murakami in copertina. Ho sentito fan di Murakami compiangersi perché chissà quale perdita avrebbe subito la scrittura del loro beniamino in traduzione e stavo cedendo a una reazione violenta. Lamentarsi di Antonietta Pastore, traduttrice che insieme ad Amitrano, Boscaro e altri 2,3 nomi è nel gotha italiano dei traduttori giapponese/italiano e che si occupa anche dei classici del Novecento e di Soseki per Neri Pozza (casa editrice nota per l’attenzione alla traduzione) significa non meritarsi Antonietta Pastore. Punto. Fate penitenza e magari leggete il suo bellissimo “Il Giappone delle donne”.
QUI trovate un’intervista in merito al libro in cui il povero Murakami si definisce un “outcast” perché non tutti i colleghi e i critici in patria lo amano alla follia. Chissà come mai!
QUI trovate l’illustrazione sotto la sovracopertina grigia dell’edizione statunitense. Se avete letto il libro, potrete apprezzare l’impressionante lavoro svolto sulla grafica dell’edizione con copertina rigida, che è un capolavoro di senso e stile, quella sì.
E infine ricordate.
Anche se il mondo si prosta ai piedi di Murakami, nell’ombra, noi Murascettici resistiamo e proliferiamo, scuotendo tristemente il capo.
A metà recensione ero fieramente tentata di appuntarmelo per la prossima gita in biblioteca, hai visto mai che riesca a piacermi un romanzo di Murakami, e anche il titolo mi ispirava.
Ma se me lo paragoni a Norwegian Wood, che mi ha seriamente innervosito… (tanto che con quello è finito per me l’esperimento Murakami (cominciato ad est del sole e a ovest della luna e finito appunto col legno norvegese)…
Magari provo Il Giappone delle donne, invece.
Dal tuo nick intuisco una certa passione per la narrativa giapponese.
Se mi spieghi per bene che tipologia di lettura stai cercando, magari posso consigliarti qualcosa dalle mie passate letture.
I consigli per le letture sono sempre graditi, ma non sto cercando niente di particolare. Voglio dire, non ho un genere o un filone preferito, a parte forse il romanzo vittoriano. Mi piacciono le storie d’amore, preferibilmente a lieto fine, e anche i gialli di tipo classico.
La storia di Genji mi è piaciuta moltissimo (ma questo magari l’avevi già capito), come le Note del guanciale. La Yoshimoto non mi dispiace, mi piacque molto “Il sole si spegne” di Osama Dazai, Mishima non mi ha mai entusiasmato (non ricordo nemmeno cosa ho letto), mi sono piaciuti i racconti di Akutagawa, ho piantato a metà le Quattro casalinghe di Tokyo e l’ho riportato in biblioteca perché non ne potevo più.
Ho letto anche qualche manga; i miei preferiti sono stati quelli della Takahashi (soprattutto Ranma), di Ai Yazawa e Proteggi la mia terra.
Non voglio farti perdere tempo, ma se hai qualche consiglio da darmi lo prendo davvero molto volentieri, e grazie comunque ^__^
Credo di essermi fatta un’idea, quindi per te ho pensato a questi titoli, con la premessa che il lieto fine non è mai esattamente nelle corde di mangaka e scrittori giapponesi (come avrai già notato):
-L’oca Selvatica di Mori Ogai
un titolo poco conosciuto ma una delle storie d’amore più belle scritte da un giapponese. Sentendo molto l’influenza europea non è nemmeno troppo strano.
-Il Cuore delle Cose di Natsume Soseki
Il classico moderno per antonomasia, il Promessi Sposi giapponese. Piuttosto leggibile, è tradotto splendidamente da Neri Pozza.
-Maschere di donna di Enchi Fumiko
La mia scrittrice giapponese preferita. Avendo letto il Genji potrai anche apprezzare lo splendido livello metanarrativo su quest’opera. Molto sensuale.
-il Paese delle Nevi di Kawabata Yasunari
Veloce, agile, ha una delle scene d’apertura più belle e poetiche della letteratura tutta.
-I giorni della sposa di Kaoru Mori
Attualmente in corso di pubblicazione, sono convinta ti possa sorprendere. Molto romantico, molto originale e disegnato splendidamente. Splendido e toccante.
-Emma di Kaoru Mori
Se ami la Londra vittoriana, questo è assolutamente da leggere! Appena ristampato da Jpop, è un gioiellino stile Upstairs Downstairs ma con un tocco imprescindibilmente giapponese.
-The Wedding Eve di Hozumi
Volume unico appena pubblicato (quindi poco dispendioso e facilmente reperibile) ti riporterà nelle atmosfere della prima Takahashi con risvolti sempre sorprendenti.
Questo è quanto, fammi sapere come è andata nel caso decidessi di provare qualcosa!
Che meraviglia, non ne conosco nemmeno uno!
Ti ringrazio di cuore e mi farò sentire.
Che lista commovente. I primi tre sono tra i miei preferiti di autori giapponesi assieme a Chinmoku di Endo Shusaku. Passo solo per dire questo, ma ci tenevo dato che superare la barriera costituita da Murakami e dalla Yoshimoto sembra impossibile.