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Non c’è niente come la finzione teatrale per trasmettere la verità più profonda di microcosmi il cui accesso è precluso al grande pubblico. Se “Carnage” era quasi sadico nel dissezionare le convenzioni ed etichette sociali delle coppie della Brooklyn bene e “I segreti di Osage County” scavava oltre il tollerabile nei legami di un intero parentado americano, The Riot Club distilla in maniera purissima la vita in un Regno Unito in cui le classi sociali sono una convenzione solo nominalmente decaduta e assolutamente invalicabile, in entrambe le direzioni.
“Che scuola frequenti?“. Non a caso è questa la domanda che si pongono i neofiti appena giunti ad Oxford e in procinto di fare nuove conoscenze. È una domanda essenziale in una nazione in cui al nome della scuola chiunque sa associare il livello di preparazione, di reddito, la provenienza geografica e l’effettiva possibilità di una frequentazione con qualcuno. Lo è nella vita reale (dove si tende a intrattenere rapporti di amicizia e matrimoni con persone che hanno frequentato lo stesso istituto o altri di pari livello) e lo è nel film, dove Oxford incarna il simbolo del successo per eccellenza. All’ombra dei suoi edifici storici però scorre continua una tensione irrisolvibile tra chi ci è arrivato perché richiesto (e favorito) dal proprio lignaggio e dal conto in banca e chi ha usato i propri meriti scolastici per ottenere una borsa di studio in una delle più prestigiose università al mondo.
Laura Wade adatta il suo dramma teatrale per il grande schermo ma lo rimaneggia parecchio, tanto che rispetto ai film già citati l’azione è più dinamica e la provenienza teatrale meno immediatamente intuibile.
La trama del film è presto detta: desiderosi di ribadire l’esclusività della propria posizione e la libertà concessa dal loro status, i ragazzi mantengono intatta da decenni la tradizione del Riot Club (l’equivalente fittizio del vero Bullingdon Club). In cerca di due membri grazie a cui raggiungere la quota dieci, vengono invitati i nuovi arrivati Alistair e Harry. Tra di loro, entrambi appartenenti all’aristocrazia moderna oxfordiana, è subito guerra: vuoi perché puntano entrambi la dolce borghese Lauren, vuoi per come interpretano in maniera diversa il loro rapporto con le classi sociali inferiori.
Gran parte dell’azione si svolge durante una cena in cui il Riot Club cerca di dare il meglio di sé, tenendo fede al proprio motto di godere di ogni eccesso fin quanto umanamente possibile. Ovviamente però qualcosa è destinato ad andare storto e presto o tardi i vari membri del club rivelano la loro natura posh, le diverse accezioni che danno alla loro superiorità economica e politica rispetto al volgo. Il film ha uno sviluppo piuttosto teatrale nelle sue svolte più drammatiche, ma dietro alla macchina da presa Lone Scherfig torna a fare miracoli nel ritrarre le inquietudini e i conflitti giovanili, dopo lo splendido “An Education”. Aiutata da un cast campione dei più promettenti talenti inglesi (oltre a Douglas Booth e Sam Clafin fanno una discreta figura tutti i membri del club) la regista riesce nel difficile compito di rendere una manciata di tipi teatrali, peraltro tutti piuttosto sgradevoli, personaggi dall’umanità sofferta, sebbene per i motivi più distorti.
A colpire maggiormente è come la pressione che ogni rampollo riceve dall’ambiente esterno finisca per sublimarsi nel rapporto con le classi inferiori, grazie alla malleabilità e allo status sociale esercitabili in ogni momento. L’odio ispirato dalle aspettative di famiglie e amici viene riversato su una lotta di classe resa sempre più grottesca da una società che sembra voler livellare queste differenze in contesti come Oxford, ma poi consente ai cittadini di creare istituzioni come il club per mantenere intatta e tangibile l’esclusività di alcune cerchie.
Il film è polarizzato sulle posizioni di Alistair, un ragazzo altolocato sempre sul limite del discriminatorio, pronto a ricorrere a qualsiasi scorrettezza pur di dare senso alla propria posizione e Harry, quello che dovrebbe essere l’eroe positivo del film, in grado di esplorare il rapporto con altre classi in maniera propositiva, di interagire riconoscendo eguale valore all’altro. In realtà si rivelano espressioni leggermente diverse dello stesso privilegiato sottobosco culturale, quasi incapaci di comprendere il dilemma etico di chi non ha a disposizione le loro armi manipolatorie e il loro disprezzo a livellare tutti gli altri. In questo senso il finale è il vero punto di forza del film, perché esplica in maniera cristallina come anche Oxford non sia che una sovrastruttura in cui questa elité si inserisce senza però farne mai veramente parte. La vera appartenenza che conta è quella al circolo degli eletti, al Riot Club, quello che ti apre ogni porta, tenuta ben chiusa per chiunque altro e ti salva da situazioni apparentemente irrisolvibili con la forza di istituzioni invisibili ma inamovibili. Così la figura di Harry perde su tutti i fronti, incapace di riscattare la propria posizione con Laurent e ben più debole di Alistair, capace non solo di assestare micidiali colpi scorretti, ma anche di soffrirli e subirli senza tradire il club, lo status e il suo futuro.
Lo vado a vedere? A stare ben lontana dagli spoiler ho finito per essere un po’ astratta, ma The Riot Club è davvero un bel film, che più di ogni altro spiega ai non inglesi i sottili meccanismi che scrivono i destini dei sudditi di Elisabetta II. Imperdibile per chi ama le piece teatrali più sferzanti e per chi non disdegna i giovani attori inglesi bellocci (ci sono almeno un paio di esempi che…). Molto probabilmente di qui a qualche anno questo sarà uno dei film meno noti di qualche attore di prima fascia britannico, quindi sarebbe una buona idea portarsi avanti e vederlo adesso (#elitarism).
Ci shippo qualcuno? Eh, non posso davvero sbilanciarmi onde non rovinare la visione, ma diciamo che alcuni personaggi emanano una carica omoerotica nemmeno troppo occulta.