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cinema d'animazione, delicate palette cromatiche, Giappone, giapponesi tristi forte, Isao Takahata, Kaguyahime, Lucky Red, Oscar 2015, Studio Ghibli
Mentre lo studio Ghibli vive un difficile momento di riassetto post (supposto) addio al cinema di Hayao Miyazaki, arriva nei cinema italiani l’ultimo lavoro di quella che ormai è un’istituzione dell’animazione mondiale, un progetto scritto e diretto da Isao Takahata, dopo una difficile gestazione decennale.
La storia della principessa splendente è il campione dell’amarcord animata, con il suo stile squisitamente pittorico e un sapiente uso in sordina delle tecnologie più innovative, che entrano prepotentemente in scena solo nei picchi narrativi della storia. Non solo: è l’omaggio di un uomo e un’artista a una delle mitologie fondanti la cultura stessa del Giappone, i cui echi sono rintracciabili in una marea di prodotti culturali del Sol Levante, da più rigorosi ai più pop.
La storia della principessa splendente è la trasposizione di una delle opere cardine della letteratura giapponese classica, il Taketori Monogatari (che vanta una bellissima edizione italiana edita da Marsilio, QUI). Sul nucleo mitologico di un’essere fatato disceso dalla luna sulla terra sono nate numerose versioni, che vedono protagonista ora la principessa, ora il tagliatore di bambù, ora un pescatore in svariati gradi di esito narrativo, dal lieto fine al dramma più spinto.
Il progetto di Isao Takahata mette al centro la vicenda meravigliosa della piccola bimba splendente rivenuta da un anziano tagliabambù all’interno del fusto di una pianta, salvo poi ricollegarsi a numerose altre versioni, ora per accenni (il pino marittimo che s’intravede a metà film) ora fondendo assieme varie mitologie riguardanti la veste piumata che consentirebbe alla giovane di tornare sulla luna.
Il progetto si rivela essere da subito uno dei più imponenti senza Miyazaki; è infatti il film più lungo realizzato dallo studio Ghibli e tra ideazione, doppiaggio e realizzazione ha richiesto più di un decennio di lavoro (not so fun fact: ci hanno messo talmente tanto che alcuni realizzatori e doppiatori nel frattempo sono morti). Il risultato è un film squisitamente giapponese, un’omaggio non solo a una delle storie più amate del Sol Levante, ma anche alla cultura classica dello stesso. Lo stile visivo scelto per raccontare questa storia è l’aspetto più evidente di questo omaggio e a molti ricorderà i celebri dipinti di Hokusai o gli acquerelli minimalisti di carattere naturalista a cui spesso vengono associate le arti pittoriche cinesi e giapponesi in Occidente. Personalmente ho trovato che il rimando più forte fosse ai rotoli pittorici tipici dell’epoca abbastanza indefinita ma “medioevale” in cui è ambientata la vicenda, rotoli che non a caso fanno una breve apparizione anche nel film, e alle vicende di corte di un altro classico della letteratura giapponese, il Genji Monogatari.
Il film di Isao Takahata è una versione digitale di uno di quei rotoli, dove l’azione scorre lentamente (talvolta troppo lentamente), per immagini giustapposte, slegata da quel rapporto stretto di causa/effetto che traccia la più netta divisione tra narrativa occidentale e orientale. In un paio d’occasioni il racconto subisce una brusca impennata, come se appunto qualcuno spingesse via il rotolo facendolo srotolare a folle velocità, imprimendo una qualità cinematografica a un film che altrimenti ne è quasi privo, innamorato delle sue immagini poetiche e del suo stile raffinatissimo ma davvero dimentico della necessità di rendere partecipe lo spettatore.
Nel caso di uno spettatore occidentale poi la visione è resa ulteriormente difficoltosa da una gap culturale che rende alcuni passaggi un’enigma e da tematiche e messaggi tutto fuorché universaliste, ovvero manca l’approccio di Miyazaki che ha saputo negli anni parlare con suoni e immagini giapponesi di tematiche esistenziali radicate in ogni parte del mondo.
Insomma, un tripudio di contrapposizioni classiche (vita di città/campagna, naturalismo, aspirazioni personali vs dovere sociale) e tematiche favolistiche, sicuramente ricercato e qualitativamente eccellente ma riservato a un pubblico ben selezionato che non ne teme lo scarso ritmo e la narrativa poco inclusiva. Insomma, la mia principessa splendente rimane questa.
Lo vado a vedere? No, non alle condizioni a cui è stato proposto in Italia. Molto sinteticamente: 1-Perché Lucky Red deve far pagare a prezzo maggiorato l’uscita di un film del 2013 che ha avuto una release internazionale quest’anno ed è entrato nella rosa dei candidabili agli Oscar 2015? Perché dovrei pagare un obolo anche questa volta, per un film che rientra nella normale programmazione e non è né un evento speciale, né una riproposizione inedita, né un adattamento rinnovato? Inoltre qui si persevera con la nefesta scelta di un doppiaggio aulico ai limiti dell’ermetico, una traduzione quasi letterale di forme grammaticali giapponesi che non hanno corrispondenti in italiano. Il film non è adattato, è solo tradotto da una commissione di nazisti della purezza linguistica. Il risultato è che tra “Ohibò” e “s’appropinquarsi” il film risulta ridicolo in molti passaggi e assolutamente improponibile per il pubblico dei più piccoli.
Ci shippo qualcuno? Naaaa.
Il trattamento che la distribuzione italiana continua imperterrita a riservare ai film dello Studio Ghibli mi sconvolge. Comunque, visto quanto sono affezionato al lavoro di Takahata, sono ansioso di vedere il film (in versione originale)
Prima non arrivavano i film e il poco che arrivava era fortemente rimaneggiato. Ora arrivano a prezzo maggiorato (sottolineando ancor più l’idea che non facciano parte del cinema “normale”) e con un adattamento altrettanto discutibile.
Amarezza!
‘Ohibò’ si legge infatti proprio nelle favole per i bambini. Il film al cinema era fantastico.
T’esordo ad approprinquarmi favole per bambini non coevi al Manzoni trascritte con siffatto linguaggio.
Che poi sia un film per bambini è argomento tutto da esplorare.
Sono cresciuta leggendo le favole di Gianni Rodari che lo riporta spesso. L’italiano!
Gianni Rodari è morto nel 1980, quell’italiano che citi ha continuato ad evolversi e cambiare per altri 34 anni.
I piccoli spettatori e il pubblico generalista non si meritano di rimanere esclusi dai film dello Studio Ghibli per far bagnare un gruppetto di puristi invasati di Ca’ Foscari o dell’Orientale. Punto.
Lo stile grafico utilizzato, da te ben descritto coma a metà tra acquerelli tradizionali e Hokusai, mi ha portato alla mente il videogioco “Okami” in molte occasioni. Non portate i bambini a vederlo, assolutamente soporifero per i più piccoli – discorso ancora più valido per “S’alza il vento” di Miyazaki.
Non so se lo stesso discorso valga per i bimbi giapponesi, ma per i bimbi italiani è più una tortura che un bel pomeriggio al cinema.
Sui videogiochi purtroppo sono davvero negata, quindi mi fido ciecamente! ^-^
Allora l’italiano è io shippo, naaa. Ridicola, presuntosa, ottusa e chiusa al dialogo. Spero che anche i bimbi apprezzino questo film, anche se è pregno di Giappone
Sì, talmente chiusa al dialogo che sto rispondendo a questo flame.
E sì, nella cerchia dei fandom italiani a cui questo blog fa riferimento, si tende a shippare e non a “voler cogliere una sottotesto sessuale tra personaggi che nel canone non sono considerati come legati da un coinvolgimento affettivo o sessuale”.
Questo blog non è una release cinematografica di diffusione nazionale a prezzo fisso e maggiorato di un film che non costituisce in alcun modo un “evento speciale” come promosso, quindi non ha obbligo alcuno verso l’italiano standard.
Se non è questa scelta d’adattamento e distribuzione la definizione di “ridicolo, ottuso, pretenzioso e chiuso al dialogo”, lasciamo che parli l’incasso finale: 44.067 euro.
Con un biglietto secco a 10 euro e quel linguaggio, questa è una release per fanatici dello studio Ghibli, cioè quelle 4 mila persone di cui stiamo parlando, non certo bimbi e famiglie al seguito.
Sarà mia premura appena sarà disponibile una copia del film riportare ampi stralci di questo adattamento pomposo e inutilmente arzigogolato, che purtroppo a memoria non riesco a citare con precisione.
Non è un adattamento pomposo e inutilmente arzigogolato, perché nell’essere fedele all’originale è semplicemente come il film giapponese si mostra ai suoi spettatori
Il film giapponese si mostra a spettatori che ne condividono la lingua e hanno già estrema familiarità con la vicenda; il pubblico italiano non ha la stessa piattaforma culturale e linguistica: l’adattamento serve a quello.
Non esistono livelli univoci di traduzione ed adattamento: sta a chi di dovere decidere il giusto compromesso tra un giapponese con alcune concessioni all’aulico (connaturato ad una lingua che prevede forme onorifiche e umili anche nelle accezioni moderne) e l’italiano che non prevede queste forme.
Ci sono tanti modi per rendere un registro formale: quello scelto è il più desueto e rende il doppiaggio stesso zoppicante e poco coinvolgente, perché difficilmente recitabile con naturalezza e trasporto.
Peraltro sono andata a vedermi un po’ di clip di lingua originale e la lingua non è poi così aulica a livelli impenetrabili. Non è esattamente il giapponese antico del Heike Monogatari.
Esempio con la stessa lingua e le stesse difficoltà di adattamento: Ooku di Yoshinaga Fumi. Nella traduzione inglese hanno tentato di rendere il giapponese formale storico della corte imperiale con i corrispettivo inglese e ne è uscito un guazzabuglio che rende la lettura difficoltosissima, l’edizione italiana ha privilegiato la fruibilità immediata e, seppur meno letterale, il risultato finale è molto più godibile e restituisce meglio la ricchezza di una saga tanto minuziosamente costruita.
Che poi lì c’è proprio il problema del mancato adattamento dal giapponese, con dei costrutti (dei nante, delle forme te kureku, te morau) tradotti quasi letteralmente e assolutamente scorretti in lingua italiana. Ero a vedere il film con una persona che di lavoro adatta prodotti culturali giapponesi e in un paio di punti il commento è stato “proponessi traduzioni simili, sarebbe lo stesso committente a cassarmele!”.
Che dire? Non condivido, forse bisognerebbe fare esempi veri, io le scelte le condivido, anzi spesse volte mi sento delusa dalla facineloneria di traduzioni dal giapponese all’italiano all’Istituto Giapponese di Cultura.
No. Se è di Gualtiero Cannarsi E’ pomposo, arzigogolato e inutilmente criptico. Io sono italiano, se voglio vedermi un film doppiato gradirei che fosse doppiato in italiano e NON in un incomprensibile mix di italiano con la grammatica giapponese e parole d’uso comune 80 anni fa, e il tutto perché il signor Cannarsi deve far vedere che ha studiato.
Cannarsi, non adatta, traduce letteralmente da una lingua totalmente diversa dalla nostra. È inascoltabile nella stra grande maggioranza dei suoi lavori, per essere peggiorato poi in modo esponenziale negli ultimi anni. Boccio a priori qualsiasi iniziativa che vada coinvolto il “sommo”, mi dispiace perché amo lo studio Ghibli ma amo anche la lingua italiana.
Esattamente.
Le traduzioni a spanne non erano gradevoli ma a mio modo di vedere questo misticismo linguistico ai limiti dell’incomprensibilità in nome della vicinanza a costrutti che in italiano nemmeno esistono è ugualmente sbagliato.
Si conosce poco il giapponese e l’italiano… I costrutti esistono eccome!!! In viaggio, su!
A parte insultare chi non idolatra Cannarsi e il suo quantomeno discutibile metodo di adattamento, a cosa serve esattamente questo commento?
A spiegarvi come i costrutti esistono eccome.
Tutti i costrutti giapponesi, e soprattutto quelli delle forme arcaiche? Tutti tutti? Pensa che scemi, quelli che fanno anni di università per imparare a trasporli correttamente nei costrutti dell’italiano corrente.
Scusate se entro a discussione già iniziata, ma sto leggendo delle assurdità totali fra i commenti a questa recensione.
Alcune non riguardano nemmeno la questione dell’adattamento, ma sono nozioni di italiano semplice. Ad esempio, “fiaba” e “favola” NON sono la stessa cosa e NON sono sinonimi, come non sono la stessa cosa e non sono sinonimi “poesia” e “saggio giornalistico”. In questo caso, “La storia della Principessa splendente” è un mito, se lo vogliamo considerare per categoria è un racconto fantastico, se lo vogliamo considerare in forma letteraria è una fiaba. Non è una favola.
Quanto al rapporto fra il giapponese e l’italiano, non posso non appoggiare in pieno l’autrice della recensione. Premessa: abito in Giappone da 14 mesi, e poiché a) non ho studiato la lingua in Italia e b) ho cominciato a lavorare fin da subito quando mi sono trasferito, non ho avuto tempo e modo di frequentare un vero corso di lingua, ma solo quelli gratuiti da un’ora la settimana messi a disposizione dal comune dove abito per gli stranieri, svolti dai volontari non professionisti e che arrivano sì e no a imparare come si chiamano gli animali della fattoria. Dato il mio approccio atipico, se in un anno sono riuscito a firmare contratti, lavorare a contatto con i soldi, scrivere ordini commerciali e in generale arrivare a quello che gli inglesi chiamano “business level” (che è più di “conversational”, ma meno di “fluent”) è perché ho conscemente abbandonato totalmente l’italiano e ho smesso di pensare a tradurre 1 in 1 e 2 in 2, tanto è impossibile. Tutto questo per dire, e a ragion veduta, che: il giapponese non è l’italiano. Nemmeno il francese è l’italiano, ma almeno esistono dei legami profondissimi e secolari, eppure è estremamente difficile tradurre Proust. Col giapponese no. Tutti i giorni scopro nuove forme della lingua assolutamente assurde in italiano. Un esempio facilissimo e non assurdo, giusto per: non esiste “portare”, esiste “prendere” ed esiste “venire”, quindi se voglio chiedere a qualcuno di portarmi qualcosa gli dico 持って来て (mottekite) che vuol dire “prendi (quella cosa) e vieni (qui)”, ma si usa come in italiano uso “portami (qui quella cosa)”. “Mottekite” sono due parole o una? E per rispetto all’originale come andrebbe tradotto, “prendi e vieni” o “porta”? No, perché “mottekite” si usa per esprimere il concetto di “portare”, non di “prendere e venire”.
Nei film Ghibli non si usa il giapponese difficile. Forse nelle università si inizia dal keigo, poi il kenjou-go, poi il teinei-kei, poi il futsuu-kei e giusto alla fine il gyongo, magari, ma inutile dire che nella vita quotidiana la percentuale d’uso di queste forme è nell’ordine esattamente opposto, anche nei film Ghibli. Non dimenticherò mai lo choc di quando ho visto per la prima volta “Ponyo sulla scogliera” in lingua originale: una lingua per bambini di 5 anni accessibile anche a me che sto qui da così poco tempo, quando invece in italiano suonava così articolato e sovrastrutturato pure nei dialoghi dei due analfabeti Sosuke e Ponyo. Le edizioni italiane di Cannarsi sono la follia: se con “Neon Genesis Evangelion” esisteva, anzi era necessario un piacere perverso della complessità linguistica, nei film Ghibli no. Che poi quest’ultimo film di Takahata abbia ambientazioni nobiliari e quindi richieda un registro più alto va bene, ma l’incomprensibilità non è fascino: è incomprensibilità.
Piuttosto del giapponese, il problema rimane l’italiano.
Esempi concreti ? Perché di quelli ci sarebbe bisogno.
«Piuttosto del giapponese» è italiano?
Ovviamente intendo i costrutti italiani che usa il Cannarsi. Esempio: Verrà a piovere (esiste!)
Onestamente credo che ci si debba sforzare al max per tradurre letteralmente. Anche la mia prof. di tedesco pensa che adattare sia una arte, ma io penso ch sbagli eccome. Per me incomprensibilità significa non percepire quello che si dice nella lingua originale. Se io dico sumimasen o bitte non mi dire che si traduce come arigatou o danke solo perché in italiano diciamo sempre grazie! Perché se io ti chiedo un bichier d’acqua e ti dico bitte o sumimasen non è come se ti sto ringraziando ma mi sto scusando. Molto diverso. Infatti gli italiani non sono di certo né tedeschi né giapponesi né americani etc. Le varie culture vanno mantenute ossenò guardatevi le cose italiane e basta.
Mottekitte è portamelo e il Cannarsi lo tradurebbe così. La tua osservazione non ha senso. Portare è una parola o due se uno pensa alla radice latina? Uno deve vedere l’uso, come per la differenza di sumimasen e arigatou. I giapponesi dicono sumimasen al posto di grazie perché si stanno scusando per l’incomodo. Infatti si vede dalla faccia che è così 😦 mentre quella di un italiano è così 🙂 dicendo grazie. Allora, se uno ti dice sumimasen tu in giapponese rispondi iie (no). Pensa in italiano reso con grazie, poi tu rispondi ‘no’. Ovviamente gli adattatori metterebbero ‘prego’ al posto di ‘no’ e così ci ingannano all’infinito…
Ma cosa ingannano? Se traducessero «no, no!» ingannerebbero, dato che un “no” come risposta a un “grazie” suona illogico. «Uno deve vedere l’uso»: esatto! Ed è per questo che quando sono andato a vedere “Quando c’era Marnie” mi sono segnato un paio di frasi che a orecchio mi sembravano papabili per una sovratraduzione in stile Cannarsi, tipo «Daremo sundeinai no kana…», al limite del dialettale, che diventerà «Che non v’abiti nessuno, mi chiedo…», ne sono certo.
“Onestamente credo che ci si debba sforzare al max per tradurre letteralmente”
No, ti ricordo che i film si adattano e non semplicemente si traducono. Devi far rientrare mille cose, il sync coi movimenti delle labbra (che negli anime moderni in tecnica digitale è fatto in partenza col giapponese: in italiano non lo beccherai mai con precisione ma ci si sforza), la lunghezza delle frasi, i modi di dire.Altrimenti fai come nei telefilm della TV polacca: c’è una voce che LEGGE i dialoghi, che non sono recitati e probabilmente sono la traduzione letterale.
E con gli adattamenti letterali ti escono cose da far accapponare la pelle tipo, esempi in inglese, nel dr Wno “it’s a tear in the reality’s fabric” che diventa “è una lacrima nella fabbrica della realtà” invece che “è uno strappo nel tessuto della realtà” oppure “mettiti nelle mie scarpe” per “stand in my shoes” (espressione idiomatica che in italiano dovrebbe essere “mettiti nei miei panni”) in un poliziesco (mi pare Law & Order). E “silicon”, “silicio”, che diventa “silicone”.
Esatto. L’adattamento è fondamentale, *anche* per questioni tecniche, come il sync. Se per essere letterale sfori di 3/4 secondi i movimenti delle labbra, devi ridurre, limare, anche a costo di scostarti un po’ dalla traduzione più fedele.
Also: poveri polacchi.
Il sync!!! Yeah adattato a ‘sì’!!! Perché, da italiana, sono stupida a non capire ‘mettiti nelle mie scarpe’? Siate meno italocentrici. Siamo ancora al tempo del fascismo nel doppiaggio
Yeah non viene utilizzato spesso come risposta affermativa in lingua inglese, come noi utilizziamo, dunque, vediamo…il sì?
Che spesso il doppiaggio lasci a desiderare non lo mette in dubbio nessuno. Certo, pretendere i film in uscita in contemporanea con gli States “perché non aspetto tre mesi, piuttosto me lo scarico” non aiuta molto a mantenere la qualità che si aveva anche solo una decina di anni fa. Qui poi mischiamo film live action americani con animazione giapponese (e il tasso di doppiaggio di film animati per pubblico più giovane nel mondo è molto alto, fascismo o no).
Non scarichiamo però le colpe oggettive su un adattamento che è l’esatto opposto dell’italocentrismo: la preservazione dell’originale a tutti i costi, ai danni della comprensibilità.
Intendo dire che la questione del sync è irrilevante, perché ‘sì’ non stara mai su un ‘yes’
Credo che sulla questione dell’adattamento dei film Ghibli non si troverà mai un accordo. Per coloro però che, come me, preferiscono un adattamento professionale, e non un corso di lingua cannarsiana, comunico l’invito a questo gruppo di Facebook dove ne stiamo parlando da molto tempo. E siamo tanti.
https://www.facebook.com/groups/132361799200/
A me il film è piaciuto tanto. Una favola per adulti, più che per piccini, viste le tematiche profonde contenutevi. L’adattamento italiano non mi è per nulla dispiaciuto così come il doppiaggio. Unica nota dolente la scelta di non utilizzare il nome Kaguya.