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Amy Adams, Christoph Waltz, delicate palette cromatiche, dramma familiare obbligatorio, Johnny Depp, Krysten Ritter, ma anche no, Tim Burton, tratto da una storia di poco falsa
Negli ultimi anni non sono stata mai particolarmente tenera con Tim Burton, regista che sembra aver smarrito la sua vena creativa proprio in concomitanza con il suo successo commerciale più sorprendente degli ultimi anni, Alice (sequel in arrivo, da lui solo prodotto).
Dopo un paio di pellicole marcatamente gotiche, Big Eyes sembra segnare il ritorno del regista ai suoi film incentrati sul grottesco e l’assurdo nascosti nel quotidiano del sogno americano, narrando la storia del celebre pittore Keane e il segreto dietro allo straordinario successo economico dei suoi ritratti di orfanelli dai grandi occhi.
Il risultato, purtroppo, è ancora una volta talmente monocorde e incolore da rendere difficile l’attribuzione della paternità artistica dell’opera a chiunque non sappia chi si nasconde dietro la cinepresa.
Siamo sinceri: Big Eyes è un biopic non solo assolutamente non all’altezza del talento dimostrato in passato dal suo realizzatore, ma anche un film mediocre a sé, una produzione del tutto secondaria, senza un solo elemento memorabile.
Nonostante vengano meno parecchi dei capisaldi di Burton (l’atmosfera gotica, la moglie Helena Bonham Carter e Johnny Depp nel cast), il tratto da una storia vera di partenza ha del potenziale: una pittrice negli anni ’50 costretta a mantenere il segreto sulla maternità delle opere con cui il secondo marito ha fatto fortuna, in realtà realizzate da lei, per anni, finché troverà il coraggio di divorziare e affrontarlo in aula per rivendicare il proprio lavoro e salvare il legame con la figlia adolescente.
L’intento sembra essere quello di ritrarre gli anni ’50 come un’epoca impietosa per le aspirazioni femminili, proponendo la storia di una delle prime donne ad avere avuto il coraggio di divorziare, pur sembrando incapace di vivere a lungo senza una figura maschiledi guida e sostegno accanto a sé. Lontano dalle scelte iper ovvie degli anni passati, Margaret Keane viene interpretata con grande emozione da Amy Adams e il marito via via più grottesco e manipolatore dall’ottimo Christoph Waltz. Il film riesce nell’incredibile impresa di farli recitare entrambi sopra le righe, in chiave esagerata e lontanissima dalle grandi performance a cui i due ci hanno abituato, checché ne dicano le nomination ai Golden Globes. Se Adams si ritrova un personaggio caratterialmente debole che perde di profondità nel goffo tentativo della sceneggiatura di limarne la facilità di manipolazione e la creduloneria, Waltz esagera in tutto e risulta ancor più grottesco del maniacale ed egoista personaggio che si ritrova ad interpretare.
Il resto è ben poca cosa; una Krysten Ritter ancora una volta sottoutilizzata in un ruolo puramente accessorio, la colonna sonora di Danny Elfman senza sprazzi né scintille, una sceneggiatura che sarebbe ingiusto definire “televisiva” rispetto al livello raggiunto oggi anche dai più commerciali sceneggiati delle grandi reti generaliste americane.
Lo vado a vedere? No. L’unica chiave di lettura che sembra funzionare alla perfezione è quella del film metafora della crisi artistica di Tim Burton, costretto a copiare il se stesso del passato in un paio di passaggi distintivi (le allucinazioni con i grandi occhi, le casette color pastello, l’incendio), rivelando impietosamente la mancanza d’ispirazione in questi calchi visivi dei suoi lavori di un tempo. Pessimo.
Ci shippo qualcuno? No, non direi.
Note – cominciate già a tremare in vista dei prossimi lavori di Burton: l’attesissimo adattamento filmico del titolo young adult cult Miss Peregrine’s Home for Peculiar Children (nel 2016) e il sequel di Beetlejuice. Brividi!
Iniziamo bene l’anno, bella stroncatura!
In questi giorni sarò cattivissima. Vedrai!
Attenderò con ansia, stroncali tutti così soffrirò meno per la mancanza del cinema in zona!
Lo ammetto, sono stato a un passo dall’andarlo a vedere. Non amo particolarmente Tim Burton, nemmeno le sue opere migliori, ma questo Big Eyes mi incuriosiva. Per fortuna, alla fine, ho optato per The Imitation Game (che magari sarà una delle tue prossime stroncature! XD)
coff coff.
Per il momento mi limiterò ad anticipare che “The Imitation Game” sarà la genesi di una nuova, epica tag qui sul blog.
Peccato. A me Burton piace(va) molto, ma i suoi ultimi film mi sono sembrati piuttosti piatti e frettolosi.
Burton aveva fatto qualche passo falso in passato, ma non aveva mai infilato un filotto di film mediocri. A partire da “Alice” mi sono dovuto ricredere, e a quanto pare la tendenza continua. Inizio a credere che dopo “Sweeney Todd” abbia finito le cose da dire. E sì che dalle premesse speravo in un nuovo Ed Wood o un nuovo Big Fish…
A giudicare dal numero di commenti a questo post però è un nome a cui i cinefili tengono e su cui vogliono dire la loro.
Purtroppo sì, la crisi è evidente e ti dirò: questo è ben peggio di “Dark Shadows” (e non solo per l’assenza di Eva Green, beninteso).
“…questo è ben peggio di Dark Shadows”
Ouch!!!
Effettivamente le uniche scene con un minimo di personalità in tutto il film sono state l’apertura con le stampe dei quadri e quando ha attaccato “Big Eyes” di Lana del Rey. Per il resto la regia è priva di genio.
Comunque, e qua mi riferisco anche al tuo più recente articolo su The Imitation Game, è da anni che non trovo un film biografico al cinema che sia al livello di un film con “sceneggiatura libera”. Per contrasto rispetto ad altri molto più noiosi come quelli su Yve Saint Laurent e Steve Jobs, questo mi è parso ottimo.
Per me si tratta di un problema imprescindibile delle biografie: bisogna aderire alla storia originale, una storia di vita vera che non ha certo tutto il movimento nè la geometria di una storia inventata. Gli archi di tempo sono spesso lunghi, i fatti spesso prevedibili, molte persone passano, danno la loro orma alla storia ma dopo non si rivedono più, e soprattutto quando mancano le testimonianze su un fatto occorre lasciare sul vago, glissare per evitare querele da parte del diretto interessato.
Potrei sbagliarmi e dovrei approfondire, ma credo che l’epoca dei film biografici interessanti sia stata anche quella in cui ci si poteva prendere molte più libertà artistiche sulla storia originale.
Non sono d’accordo: un film biografico è comunque un’opera di fiction, perciò spazio di manovra ne rimane parecchio, soprattutto se si coprono periodi di tempo limitati nella vita del protagonista (fermo restando che nessuno ha mai obbligato nessuno con un fucile alla tempia a fare il biopic di qualcuno dalla vita noiosa).
É ancora possibile cavar fuori biopic cinematograficamente ineccepibili? Tre parole: the social network (adapted screenplay). Di biopic ben fatti, interessanti e inconsueti poi è pieno il mondo, basta cercarli. Ne vuoi uno del 2014 bellissimo? “A proposito di Davis”. Il problema è che attirano più l’attenzione quelli noiosi o mal fatti, come questo.
Un personaggio reale può avere avuto una vita noiosa, o meglio, una vita i cui fatti rilevanti si sono spalmati su un lungo periodo e comunque aver dato un contributi rilevante alla storia. Vedi Keane che é stato il fondatore dell’arte commerciale, vendendo anche le copie dei quadri e obbligando la moglie a sfornare tutti i giorni variazioni dello stesso tema. Purtroppo le vite reali sono quasi tutte così, piene di ripetitiva quotidianità con qualche evento esplosivo nel mezzo. L’ultima biografia vista dove la trama andava a grande cilindrata é stata The Wolf of Wall Street, stracolmo di sesso, droga e turpiloquio, ma mi vorresti dire che questo personaggio, per quanto emblematico della categoria dei broker disonesti e dell’opulenza degli anni ’90, abbia davvero dato un contributo rilevante alla storia?
A mio parere, un film deve essere un buon film innanzitutto, non necessariamente avere funzioni pedagogiche.
Il protagonista del film di Scorsese peraltro ha dato un contributo significativo a un’epoca eccome, anche se in chiave distruttiva.
Poi uno può fare anche il biopic di una persona normale dalla vita noiosa: il punto è tirarne fuori un film che non sia noioso a sua volta. Vedi appunto “A proposito di Davis”, la storia di uno che è sempre stato a tanto così dallo sfondare ma non c’è mai riuscito.
Credo che indubbiamente non è la miglior opera di Tim Burton, ma qui riposiamo rivedere o intravedere il ritorno del vero Burton con la sua malinconia grottesca. Il film alla fine risulta delizioso e godibile, a mio parere. Non un capolavoro ma un film fatto bene, che di questo tempo non è poco.
se il montaggio e l’editing sonoro del film fosse fatto bene, di questi tempi ci sarebbe davvero poco di cui potersi lamentare.
Insomma, l’ho trovato meno che mediocre anche a livello tecnico.