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bigeyesNegli ultimi anni non sono stata mai particolarmente tenera con Tim Burton, regista che sembra aver smarrito la sua vena creativa proprio in concomitanza con il suo successo commerciale più sorprendente degli ultimi anni, Alice (sequel in arrivo, da lui solo prodotto).
Dopo un paio di pellicole marcatamente gotiche, Big Eyes sembra segnare il ritorno del regista ai suoi film incentrati sul grottesco e l’assurdo nascosti nel quotidiano del sogno americano, narrando la storia del celebre pittore Keane e il segreto dietro allo straordinario successo economico dei suoi ritratti di orfanelli dai grandi occhi.
Il risultato, purtroppo, è ancora una volta talmente monocorde e incolore da rendere difficile l’attribuzione della paternità artistica dell’opera a chiunque non sappia chi si nasconde dietro la cinepresa.


Siamo sinceri: Big Eyes è un biopic non solo assolutamente non all’altezza del talento dimostrato in passato dal suo realizzatore, ma anche un film mediocre a sé, una produzione del tutto secondaria, senza un solo elemento memorabile.
Nonostante vengano meno parecchi dei capisaldi di Burton (l’atmosfera gotica, la moglie Helena Bonham Carter e Johnny Depp nel cast), il tratto da una storia vera di partenza ha del potenziale: una pittrice negli anni ’50 costretta a mantenere il segreto sulla maternità delle opere con cui il secondo marito ha fatto fortuna, in realtà realizzate da lei, per anni, finché troverà il coraggio di divorziare e affrontarlo in aula per rivendicare il proprio lavoro e salvare il legame con la figlia adolescente.

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L’intento sembra essere quello di ritrarre gli anni ’50 come un’epoca impietosa per le aspirazioni femminili, proponendo la storia di una delle prime donne ad avere avuto il coraggio di divorziare, pur sembrando incapace di vivere a lungo senza una figura maschiledi guida e sostegno accanto a sé. Lontano dalle scelte iper ovvie degli anni passati, Margaret Keane viene interpretata con grande emozione da Amy Adams e il marito via via più grottesco e manipolatore dall’ottimo Christoph Waltz. Il film riesce nell’incredibile impresa di farli recitare entrambi sopra le righe, in chiave esagerata e lontanissima dalle grandi performance a cui i due ci hanno abituato, checché ne dicano le nomination ai Golden Globes. Se Adams si ritrova un personaggio caratterialmente debole che perde di profondità nel goffo tentativo della sceneggiatura di limarne la facilità di manipolazione e la creduloneria, Waltz esagera in tutto e risulta ancor più grottesco del maniacale ed egoista personaggio che si ritrova ad interpretare.
Il resto è ben poca cosa; una Krysten Ritter ancora una volta sottoutilizzata in un ruolo puramente accessorio, la colonna sonora di Danny Elfman senza sprazzi né scintille, una sceneggiatura che sarebbe ingiusto definire “televisiva” rispetto al livello raggiunto oggi anche dai più commerciali sceneggiati delle grandi reti generaliste americane.

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Lo vado a vedere?
No. L’unica chiave di lettura che sembra funzionare alla perfezione è quella del film metafora della crisi artistica di Tim Burton, costretto a copiare il se stesso del passato in un paio di passaggi distintivi (le allucinazioni con i grandi occhi, le casette color pastello, l’incendio), rivelando impietosamente la mancanza d’ispirazione in questi calchi visivi dei suoi lavori di un tempo. Pessimo.
Ci shippo qualcuno? No, non direi.

Note – cominciate già a tremare in vista dei prossimi lavori di Burton: l’attesissimo adattamento filmico del titolo young adult cult Miss Peregrine’s Home for Peculiar Children (nel 2016) e il sequel di Beetlejuice. Brividi!