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Adelphi, Irène Némirovsky, Kristin Scott Thomas, ma anche no, Margot Robbie, Matthias Schoenaerts, Michelle Williams, nazisti cattivissimi, Némirovsky, Ruth Wilson, Sam Riley, Saul Dibb, seconda guerra mondiale, Tom Schilling
Il caso letterario dietro il ritorno di Irène Némirovsky in libreria è una di quelle storie in cui l’intrecciarsi di fatalità e destino meriterebbe un film a parte. Di origine russa ed ebraica anche se convinta antibolscevica e cattolica praticante, la scrittrice non ebbe scampo e fu su uno dei primi convogli a partire dalla Francia occupata per finire nei campi di concentramento, dove la sua cagionevole salute e le crisi di asma la portarono in pochi giorni nelle camere a gas. Le figlie invece sopravvissero grazie al coraggio di una bambinaia, al supporto di un convento e all’intervento economico dell’editore della madre, con una rocambolesca fuga che durò per l’intero secondo conflitto mondiale. Portarono con loro solo una valigia con pochi averi, che si trascinarono dietro da un nascondiglio all’altro. Decenni dopo una delle due figlie la ritrovò in soffitta, l’apri e riscoprì decine di manoscritti della madre, tra cui spicca il suo capolavoro incompiuto, Suite Francese, la sua eredità che i nazisti non erano riusciti ad annientare.
IL LIBRO
C’è qualcosa di vouyeristico nel leggere Suite Francese, un dittico di quella che nelle intenzioni in continuo mutamento dell’autrice doveva essere una mastodontica opera in cinque parti, che raccontasse vizi e virtù della Francia che capitola al nemico e viene occupata. Non che la sua natura di prima stesura affidata a un diario sia davvero intuibile a un lettore inconsapevole, il che dà un riscontro importante sulle capacità di grande narratore e castigatore di personaggi che la Némirovsky ha sempre dimostrato di avere, anche nelle sue opere più brevi.
Tutte le cifre stilistiche e i temi ricorrenti della scrittura dell’autrice sono qui espressi alla massima potenza: il rapporto terribilmente conflittuale tra madre e figli, i vizi delle classi sociali più agiate e in particolare il loro velato disprezzo e razzismo verso la servitù, la fame di rivalsa di servitori e contadini nei confronti dei signori e dei latifondisti, che sembrano considerarli subumani, incapaci di comprendere le complessità di una vita di cui si sentono unici protagonisti ed intepreti.
Il libro è diviso nettamente in due parti, anche se grazie all’utilizzo di alcuni personaggi ponte l’effetto è quello di un grande affresco bruscamente interrotto dall’arresto dell’autrice. La prima, Tempesta, è un grande racconto corale con al centro la fuga irrazionale e brutale dei francesi dalle città dopo l’annuncio dell’avanzata dei tedeschi verso Parigi. Proprio da Parigi partono la maggior parte dei protagonisti di questa fuga convulsa e illogica, che portò grandi folle a compiere un vero e proprio esodo verso le campagne, mettendo fianco a fianco ricchi borghesi e poveri diavoli, bloccati su una strada intasata di persone ed effetti personali, spesso costretti a lottare per lo stesso pezzo di pane a causa della scarsità di cibo. Pur senza focalizzarsi su nessun personaggio in particolare, o forse proprio per questo, Tempesta è una scudisciata, una precisa diesamina dei differenti approcci che ricchi e poveri hanno al problema di arrivare alla meta (che non esiste, dato che i tedeschi si preparano ad occupare tutto il Paese) e di farlo con i propri averi, con lo stomaco pieno e in buona salute. Una madre di famiglia borghese con bimbi e suocero malato al seguito, la sua servitù, un giovane prete con un gruppo di orfanelli, due impiegati bancari sposati e il loro direttore, diviso tra la giovane amante ballerina e la moglie, un misantropo collezionista di oggetti d’arte, un soldato ferito in fuga dal fronte, alcuni contadini, una donna poverissima che ha appena partorito, uno scrittore raffinato e la sua compagna vanitosa; questi sono alcuni tra gli innumerevoli punti di vista attraverso cui la scrittrice evidenzia le meschinità più atroci e le bassezze più vili generate dal caos della fuga e dalla lotta per la sopravvivenza scatenata dallo sporadico passaggio degli aerei con mitragliatrici dei tedeschi. L’analisi della Némirovsky è così raffinata e così millimetrica che è impossibile non riconoscere, sgomenti, una radice, un seme di quella cattiveria che muove i suoi personaggi dentro il lettore, pronto a germogliare in ciascuno di noi non appena la situazione diventi terreno fertile di scontro come quello della Francia caduta in mano ai tedeschi. Il suo potere d’introspezione è tale che c’è persino un bellissimo paragrafo che ha come narratore il gatto cittadino di una delle figlie della ricca borghese; con il favore del buio conquista la libertà per la prima volta e assapora, estasiato, i profumi della notte e la sua capacità di uccidere le piccole creature che popolano la campagna, la sua giocosa indole assassina precedentemente soffocata dalla vita d’appartamento.
La seconda parte del romanzo, Dolce, è dedicata al tratteggio della lenta presa di potere dei tedeschi, che arrivano ad occupare ogni più piccolo villaggio, fino a quello dove vive la protagonista Lucille, apparsa di sfuggita nella prima parte del romanzo. Giovane da poco sposatasi con un ricco proprietario terriero locale, Lucille è costretta a vivere con la suocera, consumata dal pensiero del figlio prigioniero in Germania e costantemente astiosa nei riguardi della nuora e dei suoi contadini. Il silenzioso rapporto di tensione tra le due e il fragile equilibrio di pettegolezzi e mezze voci tra paesani ricchi e contadini poveri viene scosso dall’arrivo di un plotone di tedeschi che occupano di fatto il paese, imponendo la legge marziale e prendendo alloggio nelle case. Bruno, un’ufficiale tedesco, viene ospitato nella casa silenziosa dove si consuma la vita di Lucille e l’astio della suocera verso tutto il popolo teutonico, creando una definitiva spaccatura. Contravvenendo agli ordini della suocera, Lucille contrappone al muto silenzio richiestole un timido dialogo con il tedesco, rafforzato dalla loro comune passione per la musica. Ne nasce una grande relazione amorosa che vive tutta all’interno delle menti dei protagonisti, che impregna le pareti della villa e i rapporti sempre più tesi tra contadini e soldati, senza mai trovare un vero e proprio svolgimento. Lucille, coinvolta da un sentimento tortuoso e più sferzante di qualsiasi cosa provata negli anni precedenti, vive quasi di sfuggita i drammi della comunità francese, perennemente in bilico tra solidarietà umana con i soldati tedeschi e odio imperituro verso il nemico.
Solo leggendo le due appendici incluse da Adelphi si capisce quanto il finale comunque suggestivo di Dolce sia provvisorio: nelle lettere dell’autrice e negli appunti ritrovati sulle pagine a sinistra del suo manoscritto (un diario che conteneva nelle pagine a destra le bozze e in quelle a sinistra tutte le notazioni quotidiane e le riflessioni sullo sviluppo della storia della Némirovsky) si scopre come solo l’intervento dei nazisti abbia decretato che il grande amore di Lucille fosse Bruno, mentre nei piani dell’autrice quello doveva essere solo il suo risveglio emotivo prima di una grande avventura nella resistenza parigina, al fianco di un contadino ribelle e del figlio dei due impiegati disilluso. Anche le parti già concluse erano oggetto di profonde riflessioni e continui ripensamenti da parte dell’autrice, preoccupata di dare un resoconto il più possibile cristallino e comprensivo di quel momento storico che stava vivendo.
Si può solo definire toccante invece la raccolta finale di lettere che vedono protagonista il marito e i suoi amici all’indomani della sua scomparsa. S’intuisce la straordinarietà della persona da come tutti tentino l’impossibile per riportarla a casa, vedendo la partenza verso i campi polacchi così com’era allora, una scomparsa inspiegabile e angosciante verso l’ignoto. Le ultime lettere del marito (deportato pochi mesi dopo con la sorella) testimoniano l’affetto per la moglie, quando si spinge a ipotizzare di proporre ai tedeschi uno scambio di prigionieri per consentire alla moglie di tornare in libertà. Non ci si può che augurare di avere una rete di amici come quelli che, per allusioni e rimandi, si scambiarono notizie sulle due figlie ormai orfane in fuga per la Francia, facendo arrivare quando possibile un aiuto economico.
Lo leggo? Per farsi un’idea di come scriva la Némirovsky basta leggere uno dei suoi romanzi brevi, tra cui spiccano Il Ballo e Come le mosche d’autunno. Nonostante il numero esiguo di pagine mantengono un’efficacia narrativa simile a una frustata. I suoi romanzi, brevi o brevissimi, sono una lettura perfetta: incalzante, evocativa, spietata, sempre brillante. Se però volete superare la barriera di cinismo e fredda cattiveria ed entrare in contatto con la madre dolcissima e amica devota che fu la scrittrice, Suite Francese è una lettura più che consigliata, capace di narrare una grande storia d’amore senza un’oncia di stucchevolezza, un affetto che si concretizza per un battito di ciglia, mentre sullo sfondo si consuma la grande, tragica storia della Francia occupata.
IL FILM
Ci si lamenta spesso di come questo nuovo millennio abbia portato nelle sale cinematografiche la scellerata abitudine di sostituire registi con uno sguardo originale, capace di riliggere in maniera personale l’opera di partenza, con meri traspositori di parole in immagini, per non irritare i sentimenti di comunità di appassionati pre-esistenti. Ecco, film come Suite Francese forniscono un’ampia scusante a questo trend forse poco originale, ma capace di tutelare il lettore spettatore da film così scialbi e traditori della fonte originale.
Dopo un successo così travolgente in libreria e contando su una grande storia d’amore combinata a un periodo storico molto amato dai cineasti, un gruppo di produttori canadesi ed europei si sono uniti per adattare un romanzo sì incompiuto e bisognoso di scelte forti, ma comunque ricco di materiale su cui lavorare.
Ci sono decisioni molto personali che si può amare o odiare, come per esempio la scelta di condensare l’intera prima parte in un paio di minuti iniziali del film, che diventa di fatto la trasposizione di Dolce.
Ci sono invece scelte che è più difficile comprendere anche nell’ottica di chi, come lo sceneggiatore e regista Saul Dibb, decide d’intervenire in maniera profonda sulla fonte, prendendo scelte arbitrarie che ne vadano a colmare il senso d’incompiutezza. Purtroppo però, ben lungi da divenire ancora più netto e sferzante, il risultato annacqua la scrittura rapida e pungente dell’autrice in una visione stucchevolissima della campagna francese in cui un cast di attori anglofoni dagli occhi chiari cerca di dare vita a personaggi completamente svuotati dei loro tratti più marcati.
In particolare come lettori non si può che rimanere raggelati dal trattamento riservato alla povera protagonista interpretata da Michelle Williams, diventata una donna debole e succube della suocera invece di una forza silenziosa ma già piena di carattere e indipendenza pronta a germogliare. Se alcuni cambiamenti sono giustificabili nell’ottica di voler dare un finale alla storia, alcuni appaiono del tutto irrazionali: perché Benoit deve diventare un infermo e non può essere il soldato fuggito dal fronte che è nel romanzo? Perché ci deve essere la stucchevolissima aggiunta del lieto fine per la figlia della famiglia ebrea? Perché Lucille può essere più disinibita e sessualmente esplicita ma solo per reazione a un tradimento di cui nel libro era consapevole da tempo e qui le deve venire spiegato via pizzino?
Insomma, un film scialbo per chi ha la sfortuna di non aver letto il libro e un vero disastro per chi vede sfumare i caratteri forti e distintivi (quelli che rendono questo amore ai tempi dell’occupazione un libro dalla voce davvero unica) in una storia che vuole a tutti i costi somigliare al solito film sui nazisti cattivi nell’Europa in guerra, vanificando completamente lo sforzo di portare la Némirovsky al cinema. Unica certezza su cui si può sempre fare affidamento, la bravura di Kristin Scott Thomas, come al solito pazzesca.
Lo vado a vedere? Se l’uscita è passata sostanzialmente inosservata, un motivo c’è: questo film è una copia sciapa, fiacca e assolutamente immeritata di quel bellissimo romanzo incompiuto che è la sua fonte. In questo caso evitate la fila alla cassa del cinema e dirigetevi in libreria, perché solo lì troverete la vera Némirovsky. Non può che stringermi il cuore il pensiero di cosa avrebbe potuto tirarne fuori un regista (uno a caso eh!) come Joe Wright.
Ci shippo qualcuno? Macché, ettolitri di virilità in entrambe le versioni. Sono però molto curiosa di vedere cosa combinerà Matthias Schoenaerts nei panni del servo della gleba Gabriel in Far from the Madding Crowd.
Non posso che condividere le impressioni sul film. Beninteso, io non ho amato particolarmente il libro (diciamo che l’ho apprezzato, soprattutto Tempesta), ma guardando il film non ho provato una singola emozione.
Mi sono ritrovato testimone di eventi senza esserne coinvolto. Peccato per tutto: l’ambientazione interessante, la fonte, l’occasione persa
Davvero, un’occasione sprecata malamente.
“Suite francese” è uno dei pochi libri che, per le caratteristiche che hai evidenziato anche tu, è riuscito a farmi piangere. Non credo di dover aggiungere nulla.
E direi che il film non lo guarderò proprio, a questo punto… Peccato.
Sconsigliatissimo, anche solo come film romantico.