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pixels1Pur non essendo esattamente un’estimatrice della comicità provolona e americana (nel senso dispregiativo del termine) che va a braccetto con Adam Sandler, non mi aspettavo che Pixels si rivelasse così genuinamente brutto e privo di ispirazione.
L’inflazionata nostalgia per gli anni ’80, intesi come periodo adolescenziale e come prolifica epoca cultural popolare, avrebbe prima o poi portato qualcuno al di fuori degli affezionati estimatori a metterla al centro di un’operazione cinematografica e commerciale, questo già lo sapevamo.
Quel che è peggio è che Pixels, pur non essendo un’omaggio ricco di affetto e inventiva come un Ralph Spaccatutto o un Guardiani della Galassia, qualche idea ben piazzata dalla sua ce l’avrebbe anche, ma una sceneggiatura e una recitazione ingiustificabili lo rendono un’esperienza dolorosa e del tutto evitabile.

1982, l’epoca d’oro delle sale giochi. Un ragazzino americano che intuisce gli “schemi” dietro alle dinamiche degli arcade arriva secondo al campionato mondiale di videogiochi, battuto per un soffio ad una sfida al difficilissimo Donkey Kong.
2015, il ragazzino è il miglior amico del presidente degli Stati Uniti più improbabile della storia che, incapace di superare quel trauma, porta avanti mogio mogio la sua attività di installatore di impianti e apparecchiature elettriche di ultima generazione.

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Se è vero che parte della dolce amara nostalgia che anima questo filone deriva dal fatto che sotto sotto invidiamo la spensieratezza e la semplicità con un approcciavamo i prodotti culturali allora dall’alto del nostro io ipercritico e talvolta malevolo del nuovo millennio, il ritratto dell’ex nerd sconfitto dalla società di Adam Sandler è davvero squallido.
Non c’è davvero un motivo che l’abbia portato a non essere famoso, ricco e stimato al pari del suo improbabile amico e soprattutto sembra che la chiave della sua felicità stia nel possedere queste tre cose… e una strafiga al suo fianco. Niente però lo ha davvero ostacolato nell’ottenere la sua discutibile forma di successo, se non un notevolissimo secondo posto in un campionato mondiale, il che è un po’ poco anche per un film in cui gli alieni sviluppano una tecnologia militare che “spixela” la nostra realtà.
Oltre che ad essere la parte di gran lunga più divertente assieme a un paio di product placement (cfr. Mini) in cui si è investita tutta l’inventiva a disposizione, l’invasione aliena è di gran lunga il segmento più realistico, a differenza del background dei protagonisti, ricchissimo di stereotipi triti e ritriti e così incapace di scrollarsi di dosso una stanchezza cronica e un vittimismo strisciante che è difficile definirlo davvero comico, figuriamoci credibile.

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Pixels ha un paio di buone idee e tanti giochi a cui attingere, ma la povertà della sua sceneggiatura è tale che in sala si può percepire la tensione del pubblico che non è mai veramente a suo agio con un film che non è divertente, non è dissacrante, non è rassicurante, non è innovativo e non è nemmeno becero, bensì stanco, tanto stanco. Stanco e costretto a portare su schermo una manciata di svolte ridicole e un soggetto che sotto sotto non è mai stato suo e quindi risulta ancora più raffanzionato e forzato.

Sean Bean, Jane Krakowski e Josh Gad si trovano intrappolati in personaggi così irrilevanti ai fini della trama che non godono nemmeno del beneficio dell’aperta antipatia del pubblico. In questa ecatombe recitativa, aggravata da un doppiaggio che suona spesso fasullo e macchiettistico, si salva solo Peter Dinklage: non perché il suo personaggio sia meglio scritto o più accattivante sulla carta, ma perché con la sua bravura porta un po’ di sana recitazione all’interno di una pellicola in cui davvero non era pervenuta. Lo stacco con il resto del cast è davvero inclemente.

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Lo vado a vedere? No. Pixels è un film davvero mal fatto e pessimamente recitato, che non coinvolgerà chi è interessato alla comicità più che alla nostalgia e farà imbestialire chi invece in quei ragazzini non vede l’ora di identificarsi. Statene alla larga.
Ci shippo qualcuno? No, non so se è più umiliante o offensiva la storia d’amore del protagonista con la snobbie (tale perché non l’ha voluto baciare mentre lui si approfittava di un suo momento di debolezza) o quella dell’amico con Lady Lisa (costretta dal suo ruolo di trofeo di battaglia a stare con lui, cambiando il suo aspetto originario).