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Australia, Feltrinelli, Libri letti per poter (s)parlare del film, riprese di paesaggi commissionate dall'Ufficio Turismo, Robyn Davidson
Nonostante il film Tracks mi sia piaciuto molto e abbia contribuito parecchio alla mia recente rivalutazione di Mia Wasikowska, il libro su cui è basato non era entrato nel mio radar d’interesse. Mi sentivo soddisfatta dalle fotografie di Rick Smolan e dall’aver constatato che la Wasikowska non solo ha reso giustizia a un ruolo così particolare, ma vanta anche una notevole somiglianza con la ragazza che nel 1977 stupì il mondo attraversando a piedi con quattro cammelli e un cane il selvaggio occidente australiano.
Quando però il libro mi è capitato fra le mani, consigliato da una persona che l’aveva amato molto e non aveva visto la pellicola, ho deciso di dargli una chance, guidata dalla curiosità di chi, come me, non può astenersi dal fare confronti e raffronti. Si è rivelata un’ottima idea.
Non sono un’estimatrice della narrativa/saggistica di viaggio, perciò non saprei nemmeno come posizionare questo libro rispetto al suo genere di appartenenza, ma l’impressione è che sia un tomo a se stante, così personale e sentito da superare i confini del semplice reportage.
La storia è sempre quella: nel 1977 una giovane solitaria e un po’ spiantata lascia l’Australia delle grandi città e si avventura nel selvaggio west, nella soffocante e lugubre Alice Springs. Ha un’idea stramba per la testa: imparare a governare i cammelli, che alcuni in città catturano ed addomesticano, e poi usarli per un viaggio d’esplorazione, proseguendo verso ovest, tra deserti, terre degli aborigeni e paesaggi mozzafiato, fino a raggiungere l’oceano.
Fin dall’inizio però è evidente che Davidson nel suo memoriale di quest’impresa incredibile non ha intenzione di indorare la pillola o omettere i risvolti più personali, anzi, il suo intento sembra essere proprio quello di distruggere l’immagine patinata e romantica del viaggio che le foto di Rick Smolan hanno trasmesso al mondo. Così l’inizio del libro non coincide con la partenza, bensì con un lungo excursus sulle difficoltà che la ragazza ha dovuto affrontare per ottenere i suoi cammelli, inesperta e senza un soldo com’era. Anche l’idea dell’impresa si forma pian piano, perché Robyn non nasconde le proprie ingenuità e la sua scarsa riflessione sulle profonde implicazioni di una simile impresa.
Orme più che un racconto di un’esplorazione è una riduzione alla realtà di questo genere di imprese, un memoriale in cui colpisce l’estrema sincerità dell’autrice, che non glissa né sulle continue delusioni né sulla costante dimensione di compromesso che da una parte le ha permesso di imbarcarsi nell’impresa, ma dall’altra ne ha irrimediabilmente cambiato i contorni rispetto a quanto da lei immaginato e desiderato. Davidson ricorda con dolorosa precisione quanto “la svendita” del suo progetto al National Geographic (necessaria per finanziare l’impresa) l’abbia fatta star male, così come i continui incontri con i turisti che giudica odiosi, il compromesso della costante presenza del fotografo Rick (colui che le ha suggerito di rivolgersi alla rivista e che è pronto a ricavarci un importante passato avanti nella carriera) e del non poter sempre viaggiare da sola come aveva desiderato. Più che un resoconto di un’impresa conclusasi con successo è un doloroso fluire di ricordi di ogni errore, ogni compromesso, ogni cantonata presa dall’autrice.
La dimensione personale di Robyn è così forte nella sua scrittura che il classico assunto del partire alla scoperta di sé stessi finisce di essere un cliché ai primi segni di squilibrio che la donna si trova ad affrontare, una psiche con tanto irrisolto messa a dura prova dalle condizioni climatiche e dall’altalena emotiva del suo carattere, introverso e via via sempre più indurito dal deserto e dal ritorno a uno stadio “puro”, slegato dalle costrizioni di una società che a Robyn è sempre andata un po’ stretta. Tanto che durante la lettura mi sono chiesta come la Davidson riesca oggi a vivere in una città cosmopolita e asfissiante come Londra.
Prevedibilmente il libro è anche una splendida diapositiva dell’Australia occidentale, tanto bella quanto primitiva e pericolosa, ma sempre filtrata attraverso lo stato d’animo della protagonista e alcuni tratti del suo viaggio appaiono “allucinanti” da quanto sono influenzati dalle difficoltà emotive che la protagonista deve affrontare. Più che un sterile racconto di tramonti mozzafiato e dune rossastre, l’australiana Robyn racconta lo spirito di una terra terribile, abitata da persone incredibili su entrambi gli estremi dello spettro: da una parte fattori poverissimi ma generosi e gentili con Robyn e gli aborigeni che la aiutano a districarsi in un labirinto spesso mortale, dall’altra cittadini vessati da una misoginia e un razzismo senza limiti e dalla piaga dell’alcolismo. La Davidson, innamorata della cultura aborigena e dell’approccio alla vita dei primi abitanti del continente, denuncia con forza la condizione meschina di queste popolazioni, raggirate dall’opportunismo degli occidentali, cacciate dai proprio terreni e sfruttate dai turisti spesso in maniera grottesca.
Non è difficile indovinare il periodo in cui il viaggio si è svolto e l’età della protagonista, perché il suo racconto è così impregnato dello spirito del ’68 e della ribellione giovanile che è difficile non immaginarlo come un unicum irripetibile.
Sembra ormai tramontato anche l’approccio di Robyn con il mondo animale, con la sua adorata cagnolina Diggity e i suoi quattro cammelli. La Davidson infatti ama alla follia i suoi animali e ne intuisce i caratteri e le emozioni con rara precisione. Pur arrivando a preferire la loro compagnia a quella degli umani, rimane sempre consapevole del loro ruolo di mezzi per raggiungere il suo fine e non esita ad essere brutale con loro quando c’è in gioco la sua sopravvivenza. Seppur tormentata dai sensi di colpa e talvolta portata da scaricare sugli animali la sua frustrazione (risvolto mai attenuato dall’autrice), Robyn rimane sempre consapevole di essere al comando della spedizione e di dover decidere per tutti, anche quando ciò si rivela straziante, come nelle battute finali del libro.
Personalmente trovo che il film renda giustizia a un libro tanto sentito ed intenso, apportando qualche cambiamento cinematografico nell’impostazione dell’impresa ma senza mai scadere nella patinatura, conservando lo spirito del libro. Sono due media diversi, ma il livello qualitativo è il medesimo e a mio parere Robyn Davidson ha di che essere soddisfatta.
Lo leggo? Se avete voglia di un libro d’avventura pieno di rischi e rocamboleschi eventi, non fa per voi. Se invece volete respirare l’Australia e i suoi abitanti e vederla attraverso un percorso piuttosto duro di crescita personale e presa di consapevolezza di una giovane inizialmente senza obiettivi, dalla psiche talvolta fragile ma dalle posizioni ferree, allora Tracks sarà un’ottima lettura.
L’edizione italiana a cura di Feltrinelli (262 pp.) mi è sembrata sostanzialmente buona, anche se la postfazione di Benedetta Bini (traduttrice del tomo) mi ha un po’ indispettito, decisa com’è a sottolineare quanto Robyn fosse bella a cavallo dei suoi cammelli, dopo duecento pagine di urlo disperato di una giovane donna che ti chiedere di guardare oltre l’apparenza delle foto e del suo aspetto e di scoprire quanto abbia inciso a livello di crescita personale un’impresa intrapresa per affrontare il proprio doloroso irrisolto personale.