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Alec Baldwin, base militare russa, Christopher McQuarrie, cool guys don't look at explosions, doppio triplo gioco quadruplo specchio riflesso, figa-macchinone-esplosioni, gente figa, Gerontofilia, Jeremy Renner, l'addominale prende aria, Rebecca Ferguson, Sean Harris, Simon Pegg, Tom Cruise, uno spia l'altro pure, Ving Rhames
In un 2015 in cui ogni serie vecchia o nuova incentrata sullo spionaggio ha fatto la sua mossa in attesa dell’uscita di 007 Spectre, non poteva certo mancare uno degli epigoni moderni più noti e amati sul grande schermo, Ethan Hunt, l’uomo delle missioni impossibili. Diciannove anni e quattro film dopo lo straordinario esordio di Brian de Palma, all’attore d’azione per antonomasia, almeno prima che la sua stella si oscurasse un bel po’, è riuscito un vero colpaccio: Tom Cruise è uno dei re dell’estate cinematografica. Se dopo Ghost Protocol sembrava che il periodo di transizione verso il nuovo Ethan fosse ormai verso la conclusione, un nuovo solidissimo capitolo come Mission:Impossible – Rogue Nation lo ha consacrato a 53 anni come uno degli attori più affidabili per i ruoli d’azione con un risvolto ironico.
Dato che il film non ha certo bisogno del mio supporto visti i più che positivi risultati al botteghino e i pareri entusiasti della critica, stavolta mi permetto di fare l’avvocato del diavolo, affermando che Mission: Impossible – Rogue Nation è un film dal livello insperato, ma non certo il migliore della serie.
Stavolta l’impresa impossibile di portare un 53enne attore dalla stella un po’ offuscata ad essere l’agente americano più spericolato ma ironico e charmant per antonomasia è toccata a Christopher McQuarrie, a cui non si può che tributare un grande applauso, sia in veste di sceneggiatore sia in veste di regista.
Alla sceneggiatura McQuarrie compie il vero salto necessario al franchise per consolidare il proprio presente e il proprio futuro: attualizzare un prodotto figlio degli anni ’90 all’epoca in cui un lungometraggio retronostalgico e vagamente cazzaro come Jurassic World incassa l’inimmaginabile. Cazzaro di suo Mission: Impossible lo è sempre stato, con i suoi gadget tecnofuffici e i suoi stunt esageratissimi. In un’epoca in cui nessuna tecnologia sembra davvero impensabile e in cui il tocco sapiente del digitale ha reso quasi quotidiana la follia più spericolata, McQuarrie ha saputo dosare sapientamente l’uno e l’altro elemento, dando concretezza e quindi spettacolarità alle incredibili scene d’azione (di cui il tanto pubblicizzato decollo di Cruise non è che l’apertura del film). Oltre ai tre stunt più spettacolari, McQuarrie ripiega sul più classico del genere, il combattimento dietro le quinte teatrali con tanto di cecchini in corso d’opera, dimostrando però di saper padroneggiare da regista ritmi e composizioni di linee temporali sempre più stringenti alla perfezione. Da sceneggiatore non si dimentica di riempire con una storia sufficientemente complessa gli spazi narrativi tra una sequenza adrenalinica e l’altra. Una buona scrittura esaltata da una regia perfetta per lo scopo e mai dimentica della sostanza necessaria a mantenere il continuo rimpiattino action su cui si basano le avventure di Hunt.
Da caratterizzatore ha poi l’indubbio merito di aver ridato smalto al personaggio di Tom Cruise, ricalibrando l’ombroso e sfuggente agente Hunt su toni più autoironici, un versante su cui la star ha sempre brillato e appunto, con la solita tremenda professionalità verso le scene d’azione e con un Ethan finalmente più alla mano la stella dell’attore è tornata a brillare e improvvisamente più nessuno parla di una sua sostituzione, attorno a cui sembrava ruotare tutto il precedente film di Brad Bird (su cui saggiamente questo film capitalizza moltissimo).
Al suo fianco però si muove una nuova leva di personaggi in via di stabilizzazione: Simon Pegg nerd dei pc (che purtroppo non viene sviluppato di un’oncia, finendo per essere la replica del precedente film), Ving Rhames il nero che ne sa a pacchi (idem) e la new entry Alec Baldwin, in un’indovinata e divertente caricatura del burocrate della CIA.
Il piatto forte per una volta è costituto dalla controparte (l’unica, mi pare giusto ribadire) femminile, Rebecca Ferguson, cui spetta il ruolo di elemento in bilico tra tradimento e lealtà verso Ethan e IMF. Lo sguardo di ghiaccio di Ferguson trafora lo schermo, la sua personalità la porta a fine film ad essere un agente alla pari di Ethan e la sua bellezza non pienamente canonica ne fanno un’anti-Bond girl davvero memorabile. Così catalizzante da rubare un po’ di spazio al cattivone di turno, un fantastico Sean Harris con il volto che trasmette la giusta inquietudine e la perfomance che dà quel brividino estivo, anche se lontano dai livelli di tremore di Ghost Protocol. Non dispiacerebbe vedere il ragazzo più spesso su schermo.
A McQuarrie, regista forse finora un po’ sottovalutato, bisogna riconoscere di aver aggiornato con successo questa serie al 2015, tirando fuori un film che si vede con vero piacere, che in poco più di due ore regala istanti di comicità e stunt di livello che si fanno ricordare. Da qui a intaccare la leadership del primo, folgorante capitolo di De Palma però ci passa un grande, unico sostantivo: originalità. De Palma prese una serie televisiva, ne distillò i tratti salienti e tirò fuori un film di spionaggio pieno di scene cult, tradimenti e contro tradimenti, divertente, ritmato ma anche piuttosto cinico sul significato dello spionaggio e della guerra di fazione. McQuarrie ha vinto sì, ma puntando tutto su questo tesoretto che 19 anni fa tirò fuori dal cappello De Palma, non spostandosi di un millimetro. Abbiamo di nuovo l’FMI sotto attacco che viene chiuso, Ethan fuggiasco, personaggi dalla dubbia lealtà, il cattivo sadico, il ci è mancato tanto così, l’ostilità del governo opposta al supporto dei vecchi amici e il discorso, qui ridotto a un flebile balbettio, su quanto le fazioni che si danno battaglia siano poi simili. Il resto è un collage di caposaldi del genere (veramente ci stiamo strappando i capelli per la battaglia silenziosa all’opera, una scelta che era già un classico all’esordio di Bond?) e rielaborazioni di lusso, che non riescono però ad evitare al film di essere enormemente prevedibile per gran parte del suo sviluppo. Questa è la vera qualità che manca dal primo capitolo, che si vedeva davvero col cardiopalma, mai troppo sicuri che Ethan avrebbe scoperto la verità e portato a casa la pellaccia. Ora invece siamo tutti tranquilli, che Cruise tiene famiglia e tornerà certamente dai suoi nella forma smagliante (ma forse un filo aiutata da qualche ritocchino post produzione, sì?) in cui ci appare.
Lo vado a vedere? Posto che è essenzialmente un Mission: Impossible, al 100%, Rogue Nation è un gran bel capitolo della serie, che riapre il destino di una saga forse data così per scontata da essere caduta in declino. L’usato sicuro di McQuarrie non spariglia di certo le carte, ma non lo fa assolutamente sfigurare tra i mostri sacri che si sono alternati alla regia nel corso dell’ultimo ventennio.
Ci shippo qualcuno? Ma magari! La superiorità di 007 sta anche in questo, direi.