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Berlinale, Berlinale 65, film PESO, Hanna Saedi, Jafar Panahi, tratto da una storia di poco falsa
C’è qualcosa di assolutorio nell’affermare che Taxi, il nuovo film di Jafar Panahi, sia un gran bel film, una delle uscite autoriali più importanti dell’annata, sicuramente meritevole della vittoria che si è portata a casa all’ultima Berlinale. Questo perché vista dall’esterno è facile cadere nella trappola del riconoscimento all’uomo, al martire, al coraggio. Jafar Panahi è un regista iraniano la cui discontinuità di produzione è dovuta principalmente ad attriti col governo del suo Paese, che ha finito per imporgli formalmente il divieto di realizzare nuovi lavori. Eppure lui si presenta a Berlino (o meglio, manda il film a Berlino e chiede alla giovane nipote di ritirare il premio per lui, perennemente assente, perennemente sull’orlo dell’arresto) con un film, costruito per passare tra le difficoltà produttive e le maglie della censura.
Il problema con il cinema iraniano è che in più di un’occasione a fronte di film discretamente realizzati sono piovuti premi molto importanti, lasciando la netta impressione che tra le ragioni della scelta ci fosse anche il messaggio politico, il contentino per un’industria che oggettivamente si muove ogni giorno tra difficoltà enormi. Così quando arrivò la notizia che a Berlino Panahi aveva battuto il favoritissimo Lorrain (con il suo atteso El Club, già frontrunner insieme a Son of Saul per la statuetta di miglior film straniero agli Oscar) più di un cinefilo ha storto il naso, fiutando la trappola del politically correct.
È stato fantastico constatare in sala come invece Taxi Teheran, pur portando con sé in maniera evidente tutto quel bagaglio politico, sia innanzitutto una bellissima opera di cinema, per scrittura, regia e risultato finale.
Impossibilitato a girare esplicitamente un film, Panahi si è industriato a trovare un modo per aggirare il divieto formale del suo governo. Inizialmente si è limitato a noleggiare un Taxi e a girare per le strade di Teheran con una videocamera nascosta, riprendendo i clienti che salivano a bordo e le conversazioni che aveva con loro. Alcuni di loro però riconoscendolo e capendo il trucco, lo hanno pregato di non includerli nel montato finale, perché spaventati dalle possibili ritorsioni.
Così Panahi ha deciso di mantenere inalterata questa finzione formale (non è un film, è un assembramento semi documentaristico di persone che sono salite sul mio taxi, non ho violato quindi il divieto del governo), assoldando attori non professionisti rimasti anonimi e facendogli recitare un copione che fa della supposta spontaneità il suo fulcro. Panahi e i suoi attori fingono di essersi incontrati per caso e di avere discorsi casuali sul regime, la religione, il cinema, l’amore, così da superare con un’incredibile faccia di tolla i divieti formali imposti al regista.
Quello che stupisce del film è la sua incredibile struttura circolare, la sua coesione interna, la ramificazione di discorsi apparentemente casuali che crescono e si evolvono nel corso della pellicola. Il film è stato interamente girato con tre piccole videocamere poste nell’abitacolo dell’automobile. I tre strumenti non vengono mai portati all’esterno, dando un po’ il senso di reality o video casalingo girato a braccio, ma non serve un grande occhio per capire quanto in realtà siano studiati gli scossoni improvvisi, i campi che si allungano e cineprese apparentemente abbandonate che continuano a girare e ci rendono parzialmente partecipi (senza l’audio) di quanto avviene fuori dall’abitacolo. Sorprende anche la bellezza formale dell’immagine, considerando ad esempio che l’unico ausilio alla fotografia è stato il tettuccio panoramico, per l’impossibilità di girare con luci professionali, che avrebbero troppo attirato l’attenzione.
Quello di Jafar Panahi è nel contempo un inno d’amore al fare e consumare cinema e un ritratto corale, affettuosamente divertito e solo a tratti drammatico della sua città Teheran e della sua gente: chi lo riconosce e lo ammira, chi lo tratta da fesso, chi si aspetta da lui pericolose mosse sovversive, chi, come l’adorabile nipotina saccente, gli rimprovera di averla dimenticata per ore all’uscita di scuola. C’è anche un’indubbia componente politica, certo, ma Taxi Teheran è un film che parla di quanto c’è d’importante nella vita di un uomo, di un’artista, di una città.
Lo vado a vedere? Uno dice film iraniano e già la testa e il cuore si fanno pesanti, perché le uniche opzioni sembrano essere drammi coniugali mai risolti e film di denuncia girati alla bisogna. Taxi Teheran invece è uno splendido film autoriale sull’amore per la vita, per il cinema e per la propria città che include anche una sassy nipotina tra le più adorabili di sempre. Non è un film da vedere perché è importante, è un film consigliato in quanto proprio ben fatto e pieno d’amore.
Ci shippo qualcuno? No.
Giusto poco fa ho visto che usciva questa settimana e poi ho trovato il tuo post, me lo segno per il futuro.
Fammi sapere poi che ne pensi!
Cercherò di ricordarmi. XD
Lì dove parli di circolarità è una invisibile citazione a “Il cerchio” aka il mio primissimo Panahi nel 2000 al cineforum di San Benedetto del Tronto nel Cinema Calabresi buonanima possa l’orribile condominio di appartamenti di lusso progettato da geometri che ha preso il tuo posto fare una fine bruttissima?
No, una coincidenza lessicale, possa avvenire quando sono tutti in vacanza, amen.
Diciamo che gli inquilini sono complici, ma io non sono così cattivo. Comunque se non hai visto “Il cerchio”, recuperalo ora: la scena della bimba in rosa è nella top 3 della più tristi della storia del cinema, l’ho vista solo una volta eppure a ripensarci mi si stringe il cuore ancora oggi dopo 15 anni.