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venezia72Si chiude oggi il settantaduesimo festival del cinema di Venezia. Stavolta sono in grado di pubblicarvi il mio solito suntone di quanto passato sul tappeto rosso, in corcorso e fuori, a poche ore dalla premiazione, a patto che sopportiate per un po’ quest’edizione severa, scarna e senza immagini, che sistemerò nelle prossime ore.
Le regole sono sempre quelle: non sono al Lido e non ho visto i film in questione, vi riporto solo un paio di pensierini sulle pellicole veneziane, maturati tramite lettura quotidiana dei reportage di giornalisti italiani e stranieri, sulle grandi testate e sulle tag di Twitter.
EDIT: Finalmente il post è aggiornato con le considerazioni post premiazione e, finalmente, le immagini!

Stavolta l’elenco è così corto e laconico che credo che su un dato saremo d’accordo: edizione sottotono e senza grandi pellicole. Un festival in crisi di pubblico (e si capiva dall’insistenza con cui la mailing list offriva biglietti scontati a tre giorni dalla chiusura) e di talenti da lanciare, nonostante la fuga americana verso Hollywood abbia portato Barbera a rilanciare il Lido in chiave periferica (lontana dalle patinature e dal grandi centri cinematografici) e sulla carta giovane.

i piedi di Kristen Stewart e la parte finale dell'abito Chanel tra i più chiacchierati del tappeto rosso

i piedi di Kristen Stewart e la parte finale dell’abito Chanel tra i più chiacchierati del tappeto rosso

Un festival veneziano tuttavia così privo di capacità di scoprire nuovi nomi rilevanti o quantomeno attirarne di consolidati che fino all’ultimo si è pensato di assistere all’epico scontro tra Sukurov e Gitai per un Leone d’Oro che ha vinto l’indifferenza del mondo.
Questa non è l’opinione generale e anzi, molti si sono affrettati a parlare di un festival rivoluzionario per intenti e incoraggiante per risultati a fronte di un edizione di Cannes “moscia”. Anche ignorando che i due film più belli ad oggi del 2015 li abbiamo visti proprio a Cannes, il rivale francese quest’anno era tutto, davvero tutto all’insegna dei grandi nomi del passato e dell’usato sicuro. Un solo esordiente in gara, eppure è diventato la grande promessa e ha vinto un premio di spicco: un esordiente, un nome lanciato nel firmamento cinematografico. Non sono mancati gli esordienti e i nomi interessanti al Lido, ma davvero voi avete percepito nuova generazione di cineasti su cui puntare per il futuro?

HOLLYWOOD E I GRANDI VECCHI

everest locandinaEverest di Baltasar Kormakur
Le ultime due edizioni di Venezia hanno salvato il loro prestigio internazionale nei confronti di Cannes azzeccando alla stragrande il film d’apertura, diventato poi front runner agli Oscar, vedi alla voce Gravity e Birdman.
Ecco, quest’anno il trionfatore agli Oscar non sarà certo Everest, il dramma superstar basato su una storia vera di un gruppo di alpinisti occidentali che vogliono raggiungere l’omonima vetta ma sul ritorno trovano una mega tempesta e cazzi amari, per riassumere. La potenza dell’alta definizione regala al film la magnificenza del disaster movie, ma si dice in giro che l’ambiguità della vicenda venga del tutto smorzata, tanto che tutto questo popò di cast hollywoodiano si limita a fare il compitino e a dire quanto facesse freddo durante le riprese (e qualcuno si chiede: non sarebbe stato meglio dare più spazio ai veri sherpa che interpretano i loro colleghi caduti nel tentativo di salvare i ricchi turisti?). Insomma, ci si aspettava uno scorcio tagliente su questi turisti occidentali che vanno in una delle zone più pericolose del mondo mettendo in gioco la vita propria e altrui per motivazioni spesso discutibili e invece bisogna aspettarsi il film dei poveri ometti bianchi 30 something che vogliono disperatamente sopravvivere alla montagna cattiva.

jake_gyllenhaal

Beasts_of_No_Nation_posterBeast of No Nation di Cary Joji Fukunaga
Vi ricordate quando Fukunaga sfornava il non sempre convincente Jane Eyre, pur girato benissimo nell’indifferenza assoluta perché c’era bisogno di una confezione virile come True Detective per far uscire allo scoperto i maschietti? Ecco. Ora invece Fukunaga è uno da tenere d’occhio, anche quando si presenta con un film potenzialmente pesantissimo come l’adattamento del romanzo di Uzodinma Iweala del 2005 sulle sventure di un bimbo soldato. Onore al merito a Fukunaga: non sono tanti i registi americani disposti ad ambientare il loro film in un posto lontano ma non esotico e con un cast all black in cui l’unica vera star è Idris Elba versione signore della guerra africano. Al momento è uno dei film più amato dalla critica e di sicuro lo stile impeccabile di Cary Fukunaga a livello registico e visivo aiuta molto, ma chi ha anche letto il libro sottolinea come manchi dell’incisività della storia originale.

francofonia posterFrancofonia di Alexander Sokurov
Depredata delle firme più sicure dalla rivale Cannes, Venezia ha dovuto sperimentare, con pochi alti, tanti bassi e qualche titolo interessante. Quando arriva Sokurov però le chiacchiere stanno a zero e si è pensato fino all’ultimo di essere di fronte a un probabile Leone. Sarebbe bello però se a fronte del cinema che si fa Arte in senso assoluto (e, ricordo la proiezione di Faust, a tratti potentemente soporifero), qualcuno desse filo da torcere e magari un approccio più contemporaneo. Stavolta però questo ultimo Sokurov dicono sia decisamente più accessibile con un film dedicato al Louvre nel difficile momento della Repubblica di Vichy, col suo curatore impegnato ad evitare che i tedeschi depredino i suoi tesori. Un film che però tutti dicono impossibile riassumere in un riassunto, un grande affresco tra città, museo, arte e guerra, che possiede la sottigliezza e la complessità che finora erano mancate ai film in concorso. Ah, pare sia un esemplare molestissimo di voice over reiterato, quindi occhio.

Rabid, The Last Day di Amos Gitai
Certo che se il Leone d’Oro se lo contendono Sokurov e Gitai, il Lido ha completamente fallito il suo intento di essere una vetrina e una rampa di lancio, di creare e non aspettare i cineasti del futuro, salvo sorprendere tutti ma non in positivo. Detto questo, il film ripercorre il drammatico assassinio del premier israeliano Yitzhak Rabin, tralasciando l’uomo politico e concentrandosi sulla lenta, acuta autopsia della commissione che fu incaricata di investigare e risolvere, e in fretta, la crisi politica del Paese. Con un approccio e un soggetto forse più da saggio che da film, Gitai indaga il sottobosco culturale che rese possibile quella crisi e il germe del Paese che Israele è diventata.

blackmassBlack Mass di Scott Cooper
La furbata di Cooper, che si è accaparrato la rampa di lancio meno affollata per gli Oscar con una pellicola che si mormorava da tempo essere in grado di resuscitare la pericolante carriera di Depp. Certo, Toronto è più vicina ed economica, ma vuoi mettere sbarcare al Lido praticamente senza rivali e da assolute star, beccandosi tutta la copertura della stampa americana, senza dividerla con gli altri titoli dell’affollata kermesse canadese?
La vicenda è sempre quella dello spietato James “Whitey” Bulger, una perfomance drammatica che ha ridato lustro alle stella di Depp ma che a quanto pare è uguagliata da quella di Joel Edgerton al suo fianco. Bisogna però scorrere la lista degli attori fin quasi alle comparse per trovare qualcuno meno che famoso e, quanto si dice, il livello tecnico è pari alla sfilata di bravura attoriale. Il problema è che Venezia dovrebbe averne almeno altre due o tre pellicole hollywoodiane di questo livello, ogni anno, soprattutto considerando la sua strategica posizione pre Oscar.

the danish girl posterThe Danish Girl di Tom Hooper
Hooper non sarà il regista più raffinato (anzi) ma non è fesso e quindi non solo torna a lavorare con un Redmayne fresco di Oscar per il ruolo di Einar Wegener – lanciato nella corsa all’Oscar sin dalla prima foto pubblicata – risolvendo ogni problema di lancio promozionale del film, ma si tira dentro anche l’ormai acclamata Alicia Vikander.
La sorpresa è proprio lei: le ovazioni per il protagonista ce le aspettavamo tutti, ma pare che la Vikander sia addirittura migliore. Il film complessivamente non dovrebbe essere male, ma anche fosse tremendo (ricordate i primi piani di Les Mis?) ce lo troveremmo comunque al Kodak Theatre.

aliciavikander

LE PERLE

anomalisaAnomalisa di Charlie Kaufman
Il titolo che incarna più di ogni altro la supposta volontà innovatrice della rassegna e forse quello verso cui provo maggior curiosità, Anomalisa segna il ritorno di Kaufman (Eternal Sunshine of Being John Malkovich in a nutshell) nei cinema dopo una lunghissima, travagliata realizzazione, peraltro finanziata con il crowdfunding (400 mila dollari raccolti).
Il lungo non così tanto metraggio (40 minuti), realizzato in stop motion, è il suo primo lavoro animato che ruota attorno a, cito “The film is about a man crippled by the mundanity of his life“. Non dirò di più perché si è mantenuto volutamente un alone un po’ misterioso e nemmeno io voglio rovinarmi la sorpresa. Ne ho sentito parlare solo bene e i passaggi al Telluride e a Toronto non sembrano smentire l’ottima impressione suscitata.

ablukaAbluka di Emin Alper
Registi da tenere d’occhio e contesti difficili da loro raccontati: insomma, il Son of Saul di noi altri veneziani. Il regista turco racconta senza sconti lo squallore della sua nazione mettendo al centro due fratelli: il paraonoico Karid inviato a cercare terroristi inesistenti e l’accalappia cani Ahmed, che gli animali li uccide non limitandosi a catturarli, salvo poi nasconderne uno in casa su cui riversare il suo affetto. Roba tosta e a quanto pare molto bella.
Il paesaggio brullo, spoglio e privo di estetica che via via fa impazzire i due, i cui deliri si fondono su schermo alla realtà lasciando in forse anche lo spettatore ha ricevuto pari apprezzamenti ai due protagonisti. La critica si è deliziata nel tentativo d’interpretarlo e spero presto di cimentarmi anche io.

spotlightSpotlight di Tom McCarthy
Ok, non è piaciuto esattamente a tutti e non ha fatto strappare i capelli a nessuno, ma Spotlight irrompe al festival come uno dei pochissimi titoli forti di una qualche carica innovativa. E poi Rachel McAdams, che porta avanti un 2015 di splendide performance in ruoli vergognosi. Date un’occhiata alla locandina per avvistare almeno un altro paio di nomi glamour, di quelli di cui Venezia quest’anno è stata quasi del tutto sprovvista.
Il film ricostruire l’importante inchiesta giornalistica con cui la stampa americana ha portato alla luce la vera entità dei casi di pedofilia nella chiesa cattolica, prima su suolo americano, poi a livello mondiale. Il suo pregio è che non solo il contenuto, ma anche la forma è quanto più possibile un’inchiesta giornalistica, scevra di fronzoli e concentrata in una mimesi quasi perfetta della realtà così come accaduta.

hermineL’hermine di Christian Vincent
Si fosse voluta fare una bella sorpresa, si poteva dirottare il leone qui, al posto di miglior attore e miglior sceneggiatura, che di fatto lo assurgono a vincitore morale dell’edizione. Sarebbe stato anche un modo carino per ricordare ai cugini che nonostante la pattuglia discutibile che hanno schierato a Cannes e i tanti film dell’annata, è probabile che il loro prodotto migliore ce lo siamo presi noi.
Sai la novità, quando tutto ruota intorno a quel mostro di bravura di Fabrice Luchini (ve lo ricordate in Nella Casa, vero?) che fa il giudice irreprensibile che si trova davanti all’amore inconfessato della sua vita, interpretato da Sidse Babett Knudsen, e al dilemma lavorativo e sentimentale. Pare sia romanticamente suggerito al punto giusto. Ancora una volta, che invidia per l’erba del vicino.

fabrice luchini

C’E’ ANCHE UN PO’ D’ITALIA

l'attesaL’attesa di Piero Messina
Sulle pellicole italiane è spesso una mezza tragedia, tra il disinteresse internazionale e le guerre di posizione della stampa italiana, dettata più da preconcetti politici che da quanto visto in sala. Quest’anno però i quattro titoli italiani hanno almeno fatto discutere. Messina era recensito anche sui siti di Empire e Variety e come esordio italiano in mostra pare sia stato più che egregio, anche se la sua forma raffinata a molti è sembrata affettata. Certo, con Juliette Binoche madre ‘blue’ – che attende con la fidanzata del figlio l’arrivo di quest’ultimo in un’assolata Messina – al proprio fianco non deve essere una sfida così terribile, ma c’è già chi scomoda l’eleganza di Sorrentino (di cui è stato assistente) e Messina l’aveva già ospitato di sfuggita anche Cannes. Detto questo, io sento odor di lesbicata en passant e spero di non essere smentita.

A bigger splash di Luca Guadagnino
Non sto ad infierire: cornice meravigliosa, cast internazionale ma unanimi fischi a pioggia.

sanguedelmiosangueSangue del mio Sangue di Marco Bellocchio
Il più sostenuto dalla critica italiana e il più italiano, racchiuso com’è nell’amata e casalinga Bobbio e interpretato come da tradizione tra amici attori di lungo corso e parenti non professionisti del regista, ma diviso tra il passato di una suora tormentata e torturata per aver indotto al suicidio il suo amato confessore e il presente di un marito scomparso, “vampiro” che appare solo di notte, sulle cui tracce si muove la distinta moglie.
Il pubblico lo ha lasciato abbastanza freddino, ma le sviolinate, anche sulla stampa internazionale, non sono mancate. Bellocchio si merita il suo momento di cinema autoriferito ma forse noi ci meritiamo la possibilità per una volta di dire “no, grazie”.
Nota: Bellocchio ormai sulla stampa estera è preceduto sempre da master. Un grande autore su cui si può fare affidamento anche quando non fa nulla di davvero nuovo.

peramorvostroPer amore vostro di Giuseppe Gaudino
Valeria Golino cerca di vincere le sue paure e cambiare vita in un contesto difficile, liberamente ispirato al terzo canto dell’inferno, con tanto di immagini strane e un filo kitsch nei secondi di montato trasmessi dai vari tg. Così a naso una roba estremamente artistoide che non correrò a vedere in sala, nonostante la stampa italiana abbia fatto il tributo d’onore alla Golino, che poi ha vinto la Coppa Volpi, molto per merito ma un pochino anche per quella regola non scritta che qualcosina ai padroni di casa va lasciata e ultimamente è la coppa volpi al femminile.
Ovvio che se poi la premiazione cade nell’anniversario della sua prima vittoria nello stesso festival dello stesso premio della suddetta attrice, sarà un testa a testa tra Mollica e Praderio a chi realizza la sviolinata più smaccata.

coppavolpi golino

non essere cattivoNon essere cattivo di Claudio Caligari
Film già al cinema da qualche giorno e che mi strazia per la mia assoluta incompatibilità momentanea con qualsiasi pellicola PESO e il fatto che ne hanno tutti parlato assai bene. Terzo e ultimo lavoro del regista, completato postumo dall’amico Mastrandrea, a causa della scomparsa dell’autore lo scorso anno.
Quanto è PESO il film? Lascio giudicare voi: Ostia, anni Novanta, due amici tentano di resistere al microcosmo che li circonda e li inghiotte, tutto impregnato di droga e della violenza che il suo traffico genera.
Se però volete vedere un bel film italiano e non sapete quale scegliere tra quelli affollatisi a Venezia e che si preparano ad arrivare nelle sale, stando a quanti li hanno visti, dovreste proprio orientarvi su questo.

ariannaArianna di Carlo Lavagna
L’italiano dimencato delle sezioni minori che schiaffa lì l’ennesima attrice giovanissima dai magnetici occhi azzurri e gli alternative gender studies. Mh. Pare sia uno strano debutto a tinte LGBT, il coming of age di una ragazza 19enne tenero, sensuale e dai toni suffusi, che non spiega, entra sottopelle. Sulla carta me l’hanno già più che venduto. Se non fosse che tutti hanno parlato benissimo della pellicola qui sopra, per me sarebbe l’italiano più interessante.

I FRANCOFONI E I RESTANTI EUROPEI

margueriteMarguerite di Xavier Giannoli
Battendo sul tempo Stephen Frears che ha deciso di mettere in campo Meryl Streep, Xavier Giannoli porta per primo su grande schermo le vicende tragicomiche di Florence Foster Jenkins, la cantante soprano americana che si è fatta strada sotto i riflettori dei grandi teatri a suon di soldi, data la completa mancanza di talento.
Uno dei primi gioiellini che ha regalato Venezia e tra i primi titoli ad arrivare poi nelle sale italiane, si dice, una piccola, graziosa commedia divertente e dissacrante sul potere dei soldi e sul valore del talento che si poggia sulla al solito camaleontica Catherine Frot, la cui perfomance impeccabile rende spendibile il paragone preventivo con l’attrice americana. Forse non imprescindibile, ma fa venir voglia di andare in sala.

Lolo_posterLolo di Julie Delpy
Locandina che fa scattare subito l’allerta cinemozioni5, bam! Sceneggiatrice, scrittrice e interprete di questa commedia sentimentale francese e di un oculato cinema indie anglofono che l’ha resa nota internazionalmente, Julie Delpy è Violetta, una parigina tutta lavoro e carriera che in vacanza decide di concedersi una notte di passione con uno sconosciuto, salvo poi innamorarsi di lui, francese geek provincialotto, e portarselo a Parigi.
Il poverino, sperduto nella caotica Parigi e nei codici non detti dei suoi ritrovi chic, si ritrova a dover fare i conti anche con Lolo, figlio dell’amante rientrato d’improvviso nel nido materno dopo una rottura drammatica della sua storia d’amore. Un film che non ha chance di arrivare sul mercato internazionale ma che in Francia avrà la sua fetta di pubblico e magari vedremo anche qui.

11 minuti di Jerzy Skolimowski
Il film polacco che ha fatto andare in brodo di giuggiole parecchi critici nostrani, sfortunatamente di quella cerchia che mi fa scattare l’allarme rosso, specie se parlano di “pellicola priva di vita che si fa del suo fare cinema”. Undici minuti di un tot di persone dalle vite comuni che, sorpresa sorpresa, poi alla fine si ritrovano per influenzarsi e incontrarsi le une con le altre. Io stra-passo.

Winter on Fire: Ukraine’s Fight for Freedom di Evgeny Afineevsky
Quando in un titolo è racchiuso l’intero film: ore e ore di interviste e filmati della rivoluzione ucraina montati dal regista per la realizzazione di un instant movie storico dal piglio celebrativo, altisonante e disinteressato a cogliere ambiguità e complessità della vicenda. Non è “Maidan” insomma.

SPAGNOLI E SUDAMERICANI

desde_allaDesde allá di Lorenzo Vigas
Aneddoto: in realtà avrei potuto commentare molti più film però alcuni mi erano sembrati così irrilevanti che li ho esclusi a priori dalla prima versione di questo post. Il Leone d’Oro era tra questi, ripescato insieme a quello d’argento da un Alfonso Cuaron presidente di giuria che ok che il cinema sudamericano era in grande spolvero e meritava di uscire vincitore, però anche un po’ meno platealmente sostenere i vicini di casa.
Insomma, se c’è un fatto che ha messo davvero d’accordo tutti è che questo leone non ha fatto bene a nessuno. Non a Lorenzo Vigas, vincitore a inizio carriera con un film che non gli farà certo un favore in futuro, quando dovrà confermare questo titolo. Non a Venezia, che ha scelto un vincitore che non verrà ricordato a distanza di mesi. E soprattutto non alla folta pattuglia sudamericana, che aveva invece titoli più interessanti tra cui scegliere, vedi il paragrafo successivo.

leone d'oro
el clanEl Clan di Pablo Trapero
Un film argentino così forte che compete qui e a Toronto, per una nazione che sta avendo uno sviluppo cinematografico formidabile.
Questo titolo in particolare ha avuto un successo travolgente al botteghino di casa, risultando uno dei più amati del 2015, a 30 anni esatti dall’arresto dei vertici della famiglia Puccio, che per anni si è occupata di rapire facoltosi vicini e amici per chiedere riscatti e mantenere le attività di famiglia.
Il film è ambizioso quanto una produzione media di Hollywood e la curiosità di vederlo, dato l’amore in patria e il cospicuo tentativo di lancio internazionale in corso, c’è davvero tutto.

a monster of thousand headsA Monster With a Thousand Heads (Un Monstruo de mil Cabezas) di Rodrigo Pla
Complimenti per la locandina figa e grazie ai distributori che quest’anno le hanno preparate quasi tutte, così il post ha le figure.
Il thriller messicano che apre la sezione Orizzonti vuole denunciare le storture del sistema sanitario e economico del Paese, dove una coppia passa a mezzi estremi e violenti dopo che la loro compagnia di assicurazione sanitaria nega il rimborso per le cure necessarie.
Chi è al Lido ci rassicura: niente d’imperdibile, soprattutto perché la denuncia che porta avanti il film.

The Memory of Water di Matias Bize
Film con titoli troppo generici e abusati per riuscire a ripescare una locandina, vi odio.
Amanda e Javier sono una coppia di bellissimi genitori che hanno perso il loro figliuolo e tentano di confrontarsi sulla loro tragedia inoltrandosi in un bosco: se sei in un melodramma, mica ti metti in salotto no? Dal regista cileno maestro del melodramma possiamo sentire da qui profumo di estetismo che tracima nel sentimento. L’impressione, leggendo le recensioni di quanti lo hanno visto, è che si salvi sul piano estetico ma non si avvicini ai precedenti lavori presentati al Lido del regista.

EL DESCONOCIDORetribution (El Desconoscido) di Dani de la Torre
Ve lo ricordate Tom Hardy al volante per tutta la durata del sorprendentemente intimo Locke? Ecco, togliete tutta la poesia e l’esistenzialismo e metteteci un uomo sporco, un banchiere corrotto con una moglie trofeo e tanti clienti arrabbiati per i suoi raggiri, preso di mira da un misterioso personaggio mentre è al volante sulla sua fichissima BMW. Ad accomunare i due film c’è la marca del bolide e l’uomo al volante, ma qui si preme l’acceleratore (lo so, sono pessima) sul versante action, con un regista che non avrà problemi sul suo mercato e magari verrà pure assoldato per girare tanti equivalenti di seconda fascia a Hollywood (o almeno si dice così nei circoli giusti). Non manca di un certo stile dicono gli spettatori, ma la trama è troppo esile per sostenere la durata della pellicola.

I CINESI

behemontBei xi mo shou (Behemont) di Liang Zhao
Sicuramente un film dalla purezza assoluta, solo bisogna capire in che direzione: per alcuni pura poesia visiva, per altri puro stracciamento di parti intime.
Sono ufficialmente confusa perciò vi dico quel che ho capito e voi fate sì con la testa: regista di documentari che riprende toccanti quanto drammatiche immagini delle miniere che si mangiano letteralmente pascoli fioriti sconfinati cinesi.
Se sbaglio mi corigerete. Dai, abbiate clemenza, a questo punto del post non ho nemmeno più la forza di inventarmi un paragrafo coerente su quelle quattro notizie in croce di cui qualcuno si è degnato di parlare. E mi mancano ancora una marea di film.

Mr. Six di Guan Hu
Io mi arrendo. Sarò stanca è ma da una parte ho alcuni tra i pochi partecipanti della stampa alla proiezione del film di chiusura (offerto gratuitamente ai veneziani) che ne parlano un gran bene, dall’altra ho una sinossi che urla Liam Neeson cinese. Mr. Six è un ex criminale che nessuno si fila più di pezza il cui non brillantissimo figlio riga la Ferrari di alcuni punk di quartiere che lo rapiscono per vendetta. Il padre, seppur malato di cuore, deve andare a salvarlo. State visualizzando Liam, vero? Ecco, non so: se mai arriverà ne riparleremo.

Afternoon di Tsai Ming-liang
Un regista che filma una lunga chiacchierata con il suo attore feticcio Lee Kang-sheng: mai la Cina è stata più lontana da quello che vogliamo da lei. E mi permetto di ricordare che a Cannes, quest’anno, dall’Asia hanno ricevuto The Assassination. Sigh.

LA FUFFA VARIA ED EVENTUALE

equalsEquals di Drake Doremus
Partiamo già dalla copertina che somiglia a certe linee grafiche editoriali di young adult a sfondo romantico apocalittico, signori.
Momento teen glam della rassegna e curiosamente primo e ultimo spottone fantascientifico di vago livello con i già lanciati e sempre chiacchieratissimi Kristen Stewart e Nicholas Hoult che vivono in un futuro privo di emozioni ma impeccabilmente fashion (questa è è la fantascienza irrealistica ma fashionista che vogliamo, capito Spike Jonze e i tuoi pantaloni improponibili di Her?) e, guarda un po’, finiscono per innamorarsi senza nemmeno rendersene conto. Siete sorpresi, lo so.
Variety parla di “fantascienza semplicistica” e io ci credo, ma ci faccio anche soldi che questa pellicola avrà meno difficoltà ad approdare qui che tante altre. E comunque ne me sincererò di persona, sicuro! Anche questo farà una passeggiatina a Toronto.

kristen stewart

Janis 1-Sheet final.inddJanis: Little Girl Blue di Amy Berg
A Cannes Asif Kapadia ha lanciato il suo documentario Amy, a Venezia approda la controparte dedicata a un’altra icona femminile musicale, un passaggio senza cui la Winehouse forse non l’avremmo avuta, la sempreverde e sempre scapigliata Janis Joplin.
La differenza di copertura mediatica dei due film non è data tanto dalla qualità (pare che la Berg abbia svolto un lavoro non innovativo ma preciso e interessante), ma dall’appeal mediatica legata alla scomparsa tragica della Winehouse e dai festival dove si sono presentati, che hanno un bacino di stampa in cerca di news rivendibili anche ai noi cinefili lievemente differente. Meditate.

Ma di Celia Rowlson-Hall
Momento artistico un filo WTF per il debutto registico di una famosa coreografa (mi faccio avanti e ammetto la mia ignoranza: vado sulla fiducia) che mette in danza il cammino allegorico di una moderna Maria che si avvia a partorire e abbandonare un bimbo possibilmente concepito per imposizione divina a Los Angeles. Non manca di una certa poesia ed è artisticamente over the top anche per gli standard prettamente più festivalieri, il tutto ovviamente con due lire. In un’edizione però un film così ci sta.

Heart of dog di Laurie Anderson
Questi momenti di autoindulgenza artistica di chi giustamente tenta di elaborare il lutto per il marito Lou Reed cacciando lì un film dallo spiritualismo infantile e dalla realizzazione universalmente ritenuta imbarazzante (con tanto di citazioni famose corredate da scritte a tutto schermo e montaggio in bassa qualità) invece no, non va tollerato, nemmeno per dare qualcosa da scrivere ai giornalisti che devono rivendere il festival al pubblico generalista. C’è più modestia ed onestà intellettuale nei video amatoriali dei fan su Youtube. Forse il momento più WTF a mezzo stampa col cane mezzo cieco che con la zampetta fa sculture.

A War di Tobias Lindholm
Giusto per farvi presente che anche quest’anno avremo il nostro film di guerra drammatico anglofono, con un titolo super onesto almeno. Niente di innovativo, ma Lindholm sa decisamente come girarsi tra le mani e le telecamere un sospetto crimine di guerra compiuto in Afghanistan

Man Down di Dito Montiel
Pensavate di averla scampata con un titolo? Macchè, qui abbiamo Shia LaBeouf ex marine con la PTSD che torna a casa e la situazione è pure peggio in un thriller che è un macello in campo gestionale, ma che brilla proprio per il suo protagonista. Si sa, la divisa e l’approccio fisico aiutano tutti, ma innegabilmente LaBeouf sta crescendo.