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Arthur C. Clarke Award, Bompiani, delicate palette cromatiche, Emily St. John Mandel, fantascienza, mondi distopici, omoaffettività, PEN/Faulkner, tristezza a palate, vincitore di premio a forma di qualcosa di un metallo solitamente dorato
Innanzitutto, il bruciante dilemma: come presentarvi il vincitore dell’Arthur C. Clarke Award come miglior romanzo del 2015 se ritengo che gli appassionati di fantascienza potrebbero essere i grandi delusi da questa lettura?
Dopo l’endorsement (infruttuoso) di George R.R. Martin in vista di Hugo e Nebula e l’inclusione in molte delle cinquine finaliste dei premi che contano a livello anglofono, molti di voi attendono con impazienza questo titolo distopico, che Bompiani dovrebbe lanciare a breve sul mercato italiano.
Non abbiate timori: Station Eleven è un libro davvero pregevole, una delle proposte migliori di questa annata, che vale la pena recuperare. Solo, sarebbe più prudente approcciarlo come un gran bel romanzo in toto, lasciando da parte etichette e categorie.
“I’m talking about these people who’ve ended up in one life instead of another and they are just so disappointed. […] They have done what’s expected of them. They want to do something different but it’s impossible now, there’s a mortgage, kids, whatever, they’re trapped. […] High-functioning sleepwalkers, essentially.
Quella che è stata definita l’apocalisse gentile di Emily St John Mandel comincia in una fredda notte di Toronto, quando un aereo porta in città la giovane paziente zero della Georgia Flu. Un nome evocativo per l’epidemia perfetta, quella verso cui i reiterati falsi allarmi degli epidemiologi ci hanno anestetizzato, almeno emotivamente. Altamente contagiosa, di veloce incubazione e letale nella quasi totalità dei casi. In poche settimane l’umanità come la conosciamo viene completamente spazzata via.
Fermatevi ora. Non lasciate che il vostro cervello corra a scenari violenti di morte, mutilazione, stupro e fame. Non che nel mondo dopo la Georgia Flu non siano tutti presenti, ma sono un costante dolore periferico nelle vite dei sopravvissuti, quell’un per cento rimasto a rappresentare il genere umano. Raggruppati in piccoli assembramenti e superati i primi mesi di terrificante anarchia, a vent’anni dal tracollo della civiltà gli esseri umani si raggruppano fisicamente, ma sono divisi da una barriera insuperabile: da una parte coloro che ricordano il prima e non possono che interpretare il presente attraverso quella matrice, dall’altra quelli nati nel dopo, che faticano persino a immaginare e comprendere gli scenari favolistici che gli anziani raccontano loro. In mezzo, uno sparuto gruppo di giovani che hanno solo ricordi confusi dei loro primi anni di vita, spesso falsati dal racconto e dal desiderio stesso di ricordare e comprendere davvero.
A permeare il romanzo è una sorta di situazione di stallo, di perenne shock mai riassorbito. La mente fantascientifica non può che chiedersi perché non si raggruppino in città più grandi o provino a ristabilire il livello più essenziale di tecnologia per comunicare nelle immediate vicinanze, riscaldarsi, conservare il cibo, perché vivano in una sorta di anarchia sospesa dove i confini e le nazionalità non esistono più, ma neppure un sistema minimo di protezione e giustizia, dove l’arrivo di un piccolo gruppo esterno può ribaltare in poco tempo le sorti di una cittadina.
Uno dei limiti del romanzo è che si rifiuta persino di dare una qualche spiegazione: sotto traccia scorre la sensazione che gli adulti siano troppo inermi per agire e i giovani non siano poi così insoddisfatti delle loro vite fatte di capanne, caccia, agricoltura rudimentale e sporadici raid a quel poco che è rimasto nelle rovine degli edifici di un tempo.
Sopravvivere però è insufficiente, come recita il moto di Star Trek e della Symphony Orchestra. La grande lezione che Station Eleven dà ai suoi compari catastrofisti e alle distopie dittatoriali iperarticolate è che quel quid che garantisce la nostra umanità sfugge ai nostri bisogni primari ma può essere creato e tramandato anche in uno scenario poco più che primitivo. Nonostante i pericoli ancora presenti nei tragitti da una cittadina all’altra, un gruppo di sopravvissuti continua a viaggiare e a portare nel nuovo mondo la musica classica e Shakespeare, laddove si credevano perduti per sempre e dove li si accoglie con sincera commozione.
Il loro viaggio però non è esente da pericoli e il loro gruppo è esposto alle mutazioni che la pericolosità di un mondo in cui un banale incidente, un taglio, un infezione, un lieve malanno, possono condurre a morte certa. Cosa li spinge a viaggiare, a esporsi continuamente ai pericoli degli spostamenti, quando il microcosmo che è diventato il loro orizzonte pare sempre più stanziale? Loro, un gruppo di giovani e adulti, raccolti nelle situazioni più disparate, estranei eppure diventati un rifugio e una famiglia gli unici per gli altri, uniti da Shakespeare e dalla musica, dalla volontà di portarla in ciò che chiamano mondo.
It is possible to survive this world but not unaltered, and you will carry there men with you through all the nights of your life.
Questa però è solo una metà del romanzo e nemmeno la più rilevante. La Georgia Flu non è un punto d’inizio né il fulcro del romanzo, che invece ha un nome e un cognome: Arthur Leander, talentuoso attore divenuto stella di Hollywood poi sbiadita tra divorzi e pettegolezzi, fino al ritorno in teatro per il tanto agognato ruolo di King Lear. La notte dell’arrivo del paziente zero, in apertura del romanzo, Arthur muore sul palco, stroncato da un infarto, nonostante i tentativi di un giovane paramedico di salvarlo e il pianto dirotto di una delle giovanissime comparse.
Una notizia potenzialmente di richiamo mondiale, inghiottita dalla fine del mondo stesso. Arthur se ne va, inconsapevole di ciò che verrà, ma tra le tante cose dimenticate, la sua memoria continua a tramandarsi, grazie al gruppo di persone che l’ha conosciuto, la cui parabola è stata definitivamente deviata dall’aver creato e poi rotto legami con lui.

alcune illustrazioni della graphic novel di Miranda sono contenute nell’edizione con la copertina rigida
Ci vorrà l’intero romanzo, composto di frammenti distopici ma anche di parecchi capitoli ambientati venti, trent’anni prima della morte di Arthur, per ricostruire il profondo impatto di quest’uomo sulle vite delle persone attorno a lui, per ricostruirne la vita e i fantasmi. Il romanzo presenta personaggi assolutamente meravigliosi a cui Arthur ha fatto più o meno volontariamente del male. Su tutti Clark, l’amico d’università che assiste al suo lento trasformarsi nell’interpretazione perenne di sé stesso, e Miranda, la prima moglie, perennemente incompresa dall’attore a dal suo entourage ma principale artefice della sua immortalità grazie a una graphic novel da lei ideata, che dà il titolo al romanzo. Bisogna trascorrere molto tempo con entrambi per scoprire quando arriverà la rottura con Arthur, quando l’incontro con la Georgia Flu, e non mancheranno momenti di improvvisa lucidità e di grande comprensione di sé, della propria vita, dei propri errori. Station Eleven è un romanzo che si guadagna facilmente l’aggettivo di poetico, perché nei suoi scenari c’è una continua nota malinconica unita a una grande capacità di descrivere limpidamente l’animo dei suoi protagonisti.
Non mancano poi persone influenzate dall’Arthur personaggio pubblico , anche se l’esito è altrettanto profondo. Ad esempio Kirsten era quella piccola attrice che piangeva alla sua morte sul palco. Di quell’evento ha ricordi confusi, ma di Arthur conserva un’immagine, mentre non ricorda nulla del terribile anno trascorso sulla strada in compagnia del fratello, prima di unirsi all’orchestra.
Nonostante siano questi i personaggi a cui ci si affeziona e con cui si trascorre la maggior parte del tempo, alla fine Station Eleven subisce la stessa malia dei suoi sopravvissuti, rivelandosi un superbo ritratto di un uomo involontariamente crudele, incurante dei sentimenti altrui e in perenne ricerca di un luogo e una persona con cui connettersi senza sentire il bisogno di fuggire. L’isola dove è cresciuto, la città dove si è sentito a casa, la donna che poteva comprendere il suo stato d’animo e una serie di fughe che rendono la sua vita vuota, ogni suo possedimento materiale un peso, anche quando contiene le risposte che tanto desidera ma che finisce per ignorare egoisticamente.
Per questi continui squarci di consapevolezza su un acquerello distopico dai contorni confusi, soprattutto sul finale, ma dalle forme evocative, Station Eleven ricorda molto la tipologia di libri solitamente inclusa nel Man Booker Prize: letteratura contemporanea, ibrida di generi letterari e alla ricerca di forme espressive letterarie ma emozionali. Per sensazioni di lettura è molto vicino a Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, quindi avrete capito che forse descriverlo come un libro di fantascienza, più che riduttivo, è fuorviante.
Lo leggo? Station Eleven è un libro di grande atmosfera, che sa essere crudele senza mai abbandonare i suoi toni soffusi, la sua perenne malinconia, la poesia che sprigiona da ogni frammento di racconto, dal prima e dal dopo, che ricompone il ritratto di un gruppo di individui uniti solo dall’aver incrociato il loro destini a quelli di un uomo suo malgrado grande, anche se non è sempre chiaro in quale dimensione e con che valenza per chi gli è sopravvissuto. Scritto con grande eleganza e costruito con notevole perizia, usa l’apocalisse più per creare un’atmosfera che per intavolare una serie riflessione a riguardo. Se però il viaggio tra le pagine della Mandel è così evocativo, non importa molto con quale mezzo decida di farmelo percorrere. Peccato solo per la manciata finale di pagine, davvero mal gestita e lacunosa di una chiusa armonica rispetto al romanzo. Non chiedevo risposte, ma verità circostanziali e poetiche, come nel resto del libro.
Ci shippo qualcuno? Domanda problematica causa spoiler, ci gireremo intorno dicendovi che il mio personaggio preferito, posto che Luli è inarrivabile, è ovviamente Miranda. Come però non si può adorare Clark, anche se non credo a una parola di quel discorso riguardo a lui e Arthur da giovani, sia chiaro.
[…] at three or four or five in the morning, during what seemed at the time like adulthood and seemed in retrospect like a dream. The dream lasted just a moment, but the moment was bright.
Nota finale: il libro ha una notevole dimensione cinematografica, che non è passata inosservata. Si sta già lavorando a un adattamento. In mano al giusto regista (e qui un bel nome autoriale ci starebbe tutto) potrebbe uscirne una pellicola affascinante. Facciamo partire il fancast!
EDIT – Il libro è stato pubblicato in Italia da Bompiani nel 2015.
Acquistato sull’onda dell’entusiasmo.
speriamo che tu rimanga sulla cresta della stessa onda a fine lettura.
Adoro “Il tempo è un bastardo”, libro passato del tutto inosservato al pubblico di genere (nonostante i capitoli di ambientazione fantascientifica). Se questo lo ricorda, aspetterò l’edizione Bompiani, sperando sia illustrata.
Mi sono spiegata male io: non esiste un’edizione illustrata, semplicemente in quella americana con la copertina rigida erano inserite un paio di pagine del fumetto. Nota: io non me lo immaginavo per niente così, come stile.
Non che i due libri si somiglino, però c’è un certo qualcosa che li fa risuonare in modo simile. Qui di “A visit from the goon squad” si è parlato, ma c’è da dire che il finale SF è molto ridotto (e frangetta) per connotarlo proprio in senso lato.
Se però ti è piaciuta la Egan, diciamo che ci sono ottime probabilità che ti piaccia anche questo.
Finalmente si sa qualcosa della versione italiana edita da Bompiani (fonte: lafeltrinelli.it): “Stazione Undici” uscirà il 05 novembre 2015, prezzo Euro 18,00 (15,30 sui siti delle librerie). Copertina in stile grafico, visibile su detto sito. Nessuna informazione circa il nome del traduttore/traduttrice e l’uscita della versione ebook.
La tua recensione mi ha fatto venire voglia di leggere anche questo libro (grazie per “Siamo tutti completamente fuori di noi”, da solo non ci sarei mai arrivato). Ciao
Grazie a te per l’info. Appena posso aggiorno!
Il passaggio incessante tra un livello temporale e l’altro è di una fluidità rara, difficile da riscontrare in romanzi con analoga struttura narrativa. I personaggi resi in modo nitido e la scrittura semplice e scorrevole costringono a centellinare le pagine del libro, altrimenti si rischia di giocarsi il piacere della lettura nel giro di poche serate.
Il finale sottotono, forse più “abbozzato” che affrettato, potrebbe essere dovuto ad una scelta: riesce difficile credere che, dopo la notevole abilità dimostrata nel costruire la sceneggiatura, l’autrice non abbia saputo creare una degna conclusione. La “fine” della storia è imprevedibile fino all’ultima pagina, tuttavia sembra mancare qualcosa, magari anche soltanto di valenza simbolica (la ricomparsa di un personaggio o di un semplice oggetto a riannodare rapporti personali o eventi).
Ho terminato di leggere “Stazione Undici” qualche giorno fa e, diversamente dal solito, non ho ricominciato subito con un altro libro. In casa o fuori, solo o in compagnia di qualcuno, tra un pensiero e l’altro si insinuano in modo discreto e irresistibile l’Orchestra Sinfonica in cammino su strade deserte, il pericolo in agguato tra foreste e cittadine diroccate, Miranda, mille oggetti irrinunciabili divenuti tristemente inutili, l’incredulità delle nuove generazioni in visita al Museo della Civiltà, la natura che riprende i propri spazi, grattacieli di vetro pieni di cadaveri, Clark, i capelli di seta del bimbo di J., un aereo fermo da vent’anni col suo carico di morti sulla pista di un aeroporto, la riscoperta della meraviglia e della bellezza di cose date per scontate, Kiki (“fildiferro di donna”) con la cicatrice sullo zigomo e i pugnali tatuati sul polso, le notti con cieli di nuovo neri e la luce delle stelle sulla terra…
C’è poca fantascienza? Sì, ma anche in “Un cantico per Leibowitz” c’è poca fantascienza (eppure è considerato uno dei capolavori del genere). E credo tu abbia ragione quando dici che a molti non piacerà; già immagino le “recensioni” sui siti delle librerie con la valutazione minima perché è un romanzo “lento” (come se la lentezza fosse un difetto, anziché una caratteristica).
Comunque, per me, “Stazione Undici” è un libro bellissimo.