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Benicio del Toro, delicate palette cromatiche, drog, Emily Blunt, film col dramma dentro, fotografia leccatissima, Jóhann Jóhannsson, Jon Berntal, Jon Bernthal, Josh Brolin, Roger Deakins, spara spara ci stanno massacrando, Taylor Sheridan
Il rischio di partecipare a una rassegna ricca come quella di Cannes 2015 è quello di passare inosservati.
Checché ne dicano i detrattori, un anno non esaltante sulla Croisette è comunque così competitivo che questo spietato e intenso thriller di un regista già affermato tra i cinefili come Denis Villeneuve non ha raccolto che tiepidi entusiasmi.
In attesa di sincerarsi se Venezia sia stata in grado di celare perle nascoste di medesima levatura, sgombriamo subito il campo: Sicario è un gran film che centra appieno la mediana tra trama da thriller hollywoodiano e contenuto autoriale, all’altezza delle precedenti prove di uno dei portabandiera del cinema canadese contemporaneo.
La debolezza principale di Sicario è che una semplice sinossi non trasmette la giusta sensazione, anche a fan villeneuviani della prima ora come la sottoscritta: dici film sui cartelli della droga messicani e pensi subito o alla pesantezza autoriale più deleteria o al classico film americano in cui il cattivo è interpretato da un sudamericano. Figurando nel cast Benicio Del Toro, che proprio con Traffic si portò a casa l’Oscar, il sospetto è anche legittimo.
Stavolta quindi proverò a descrivervi il film per vie collaterali, perché molte virtù che si rispecchiano nel film derivano da una produzione altrettanto affascinante e meritoria. Sicario è figlio della sceneggiatura di Taylor Sheridan (sì, proprio il David di Sons of Anarchy) che è cresciuto proprio nella parte meridionale del Texas, dirimpetto a un Messico settentrionale che si è sgretolato nell’ultimo decennio. Le traversate in macchina e i soggiorni in cittadine come Juarez, nota per essere la cittadina con più omicidi al mondo, oggi sono impensabili. Sconfortato dalla mancanza di un film che raccontasse davvero questo mutamento distruttivo e subdolo, Sheridan ha cominciato a parlare con i migranti clandestini che si recano negli Stati Uniti per lavorare: dai loro racconti nasce Sicario, un thriller che non si focalizza ossessivamente sulla violenza dei cartelli, quanto sulle logiche politiche e commerciali degli stessi, sul loro lento avanzamento oltre confine. Un’analisi simile e altrettanto spietata io l’ho trovata nel libro The Water Knife: il Messico settentrionale è perduto e la sfera influenza negli States è tale che ha suscitato una risposta militare e mercenaria, mortalmente silenziosa, del governo.
Sicario non è il solito thriller i cui cattivi sono i messicani dei cartelli, che potrebbero essere facilmente scambiati coi malvagi russi o cinesi, perché al centro non c’è il cartello come agente, bensì come causa scatenante di un’azione ambigua americana, di cui il film risulta un’analisi tagliente e senza sconti.
Secondo elemento: Denis Villeneuve accetta di girare il film. Dopo Prisoners, che gli è valso il consenso della critica (ma non il mio) poteva aspirare a un budget di prima fascia, invece si ritrova a lavorare con 50 milioni di dollari, perché non cede alla richiesta degli studios di cambiare il sesso dell’agente dello FBI protagonista della vicenda. Un piccolo episodio enormemente significativo della politica delle major, del carattere di Villeneuve e delle sbavature di Prisoners, dove forse quella ribellione non riuscì. Personalmente non avevo amato la prima prova americana di Villeneuve per una sceneggiatura inutilmente morbosa e ossessionata dal romanzare e inasprire un racconto realistico, fino a renderlo noiosamente prevedibile nel suo sadistico rilanciare la posta in gioco. Sicario è un thriller teso i cui toni ora cupi, ora violenti, ora macabri sono sempre trattenuti in un equilibrio silenzioso e quasi mesto. Ci sono cadaveri sfregiati, c’è un tentativo di omicidio che si consuma in una mancanza di suoni e urla quasi irreale, che sottolinea le esagerazioni cinematografiche che altrove delineano questi episodi.
Soprattutto c’è una scelta penalizzante che si trasforma in un enorme traino per il film, con buona pace dei capoccia sessisti di Hollywood. Del film si è giustamente parlato soprattutto per la meravigliosa prova di Emily Blunt, una di quelle che potrebbe valergli un’importante nomination da assoluta protagonista (e non spalla muliebre di…). Kate è un agente dell’FBI a ridosso dello stereotipo: votata al lavoro, noncurante della sua persona e della sua sfera privata, attratta dall’uomo sbagliato e tenacemente alla ricerca di giustizia. Con un’interpretazione tutta reaction shot calibrati al millimetro e una certa durezza e purezza connotata dalla sua persona (o dalla sua carriera), ne tira fuori un personaggio dall’intensità non comune, capace di trasmetterti a pelle le sue emozioni. L’attenzione al casting e alla direzione degli attori è confermata dalle ottime prove di Josh Brolin, la spalla capace di esaltare lei e un immenso Benicio Del Toro, forse un po’ trascurato perché di nuovo ai massimi con un ruolo che ha molto in comune con quello di Traffic. Io invece voglio dargli il giusto spazio, in quanto protagonista titolare del film che racchiude in sé l’irrisolta ambiguità morale della spiegazione etimologica con cui si apre il film, ma soprattutto l’incredibile lavoro di coppia con Emily Blunt: il film è costellato di una relazione d’amore in potenza tra i due, completamente convogliata da sguardi e gestualità, mai esplicitata eppure intensa come poche. La reazione tra i due personaggi riesce nell’impossibile compito di dare una dimensione sensuale, quasi romantica, a un film che parte da queste premesse.
Certo, poi se sei Denis Villeneuve puoi anche richiamare con il peso del tuo nome due giganti sul versante tecnico e convenzionare un film di fatto action ma di confezione splendidamente autoriale. Il ritorno alla fotografia di Roger Deakins (aiutato da una serie di scene al crepuscolo e nell’oscurità completa, che da sempre sono tra i suoi cavalli di battaglia) porta un’eleganza a un film che si mantiene comunque in un territorio realistico. Jóhann Jóhannsson garantisce al film un accompagnamento musicale che mantenga alta la tensione senza mai risultare didascalico o pedante.
Lo vado a vedere? Sicario è la versione compiuta e riuscita di Prisoners, oltretutto impreziosita dall’importanza del discorso e delle domande che pone sull’esercizio della forza e della giustizia. Certo, richiede una certa predisposizione alla tematica o al genere, ma è un’altra ottima prova del regista canadese, che sembra tornato in ottima forma e maturato. È ancora ossessivamente attaccato all’idea in un certo senso romantica alla base del suo cinema, ma progressivamente sta raggiungendo il giusto distacco per sfruttarla al meglio. Peccato che un po’ di conoscenza del tema o la visione di un certo filone di cinema contemporaneo (penso a film di guerra come Zero Dark Thirty) rendano alcuni passaggi ampiamente prevedibili.
Ci shippo qualcuno? No, ma sono assolutamente innamorata di Alejandro e raramente Benicio Del Toro mi è piaciuto tanto in un ruolo. La sua continua relazione affettiva/glaciale con la Blunt è una delle cose più involontariamente sensuali viste al cinema negli ultimi tempi. E poi ovviamente grande amore per Roger Deakins: già attivata la modalità #TeamDeakins in vista degli Oscar.
Al momento ci sono due film che voglio vedere assolutamente: Inside Out e questo qui. Spero di riuscire a vederli al cinema.
Per il momento non leggo quanto hai scritto, ritornerò a visione effettuata.
Cerco di non essere lo Stefano Masi della situazione, ma capisco che voglia preservare al massimo l’esperienza di visione.
Due ottime scelte, difficilmente ti deluderanno.
Alla fine me la sono letta! E così ho scoperto una persona a cui non è piaciuto Prisoners, piccolo gioiellino che dovrei sempre rivedermi in dvd ma non trovo mai la voglia… Leggendo quanto hai scritto e ripensando al trailer mi viene da pensare a Il potere del cane.