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Piccolo calendarietto di recensioni e riflessioni spicciole che avrei voluto farvi (o forse vi farò) e per qualche strano motivo mi sono persa per strada. Solo una scusa per blaterare più del solito di un po’ di tutto, come al solito.

1 DICEMBRE

thenormalheartStenterete a crederci ma ad oggi non ero ancora riuscita a concludere la visione di The Normal Heart, il film tv basato sull’omonima opera teatrale fatto da, con e per il pubblico gay (e non) per raccontare i primi terribili anni del diffondersi dell’AIDS nella comunità omosessuale newyorkese.
Purtroppo la mia scusante non è che ho un animo sensibile alle sofferenze e ingiustizie altrui che rende la visione insostenibile ma che dopo cinque minuti di Taylor Kitsch nella micidiale combo biondo+in costume+in divisa+in canotta+ubriaco innamorato devo spegnere perché mi vengono le palpitazioni. Ci terrei a precisare che in questo film tv HBO ribadiscono la sua assoluta bellezza quasi tanto frequentemente quanto la sottoscritta. #Realismo.
Detto questo, nonostante il coinvolgimento dello sceneggiatore Larry Kramer (che ha adattato una storia parzialmente autobiografica) e i tentativi di Ryan Murphy di darsi un contegno, il film risulta più spumeggiante quando descrive maliziosamente la comunità gay anni ’80, più che quando tiene la mano ai suoi esponenti morenti. L’irritazione che mi ispira il personaggio “attivista per sempre” di Mark Ruffalo è quasi pari alla sua bravura.
Ancora oggi la cosa che mi devasta di più è che hanno nominato *chiunque* a un Emmy, pure Matt Bomer, pure il gay morente a inizio film (no, non è vero, ma pure l’assistente del sindaco che appare in due scene!) tranne il povero Taylor, che nella serata di premiazione appariva solo in una foto, tagliato a metà. SIGH!

Taylorthat jewish

e con cotanto ben di Dio, l’unica gif ad alta definizione è questa.

2 DICEMBRE

gatto venuto dal cieloÈ stato un caso editoriale anche in Europa dopo aver conquistato il Giappone, a ulteriore conferma del potere dei felini nell’era di Internet. Hiraide Takashi, poeta e critico giapponese classe 1950, fortunatamente non ha raggiunto il successo con un’altra lacrimevole storia su quanto gli animali siano meglio degli umani e si sacrifichino per loro. Il successo del titolo forse è figlio dell’equivoco: si tratta di un romanzo brevissimo in linea con la tradizione giapponese, non di una sviolinata per gattofili e gattari e infatti in molti ne sono rimasti delusi.
La gattina c’è, è bellissima e intelligente, ma anche selvaggia e capricciosa, ma soprattutto non smette mai di essere divisa da uno strato sottile di ineffabile incomprensibile dagli umani protagonisti che ha ammaliato. La distanza narrativa che personalmente preferisco in queste tematiche. Altro dettaglio curioso riguarda gli umani, o meglio la descrizione di Il gatto venuto dal cielo come della storia di una coppia la cui unione in crisi viene salvata dal felino provvidenziale. O ho frainteso io, o forse a un lettore poco avvezzo ai rapporti interpersonali tra giapponesi delle generazioni passate i protagonisti (palesemente autobiografici) possono essere apparsi freddi, distanti, compassati. Io invece li ho adorati, perché mi hanno ricordato tante coppie giapponesi di mezza età, di cui l’affezione è chiaramente percepibile anche se raramente visibile in pubblico.
Un romanzo discreto e intrinsecamente giapponese per forma e tematiche: la lenta scomparsa del mondo tradizionale (stavolta in forma abitativa) e la rassegnata adesione al nuovo privo di poesia, un bellissimo spaccato quotidiano, pacato ma mai zuccheroso, anzi. Adesione alla modernità a cui si ribella almeno nella forma: è abbastanza chiaro che l’autore abbia una certa età e lavori quotidianamente a stretto contatto con canone classico della letteratura giapponese, perché nelle sue memorie riecheggia tanta letteratura nipponica del primo Novecento.

catreturns_cats

3 DICEMBRE

m&c1Vi parlavo oggi nel post qui sotto di In the Heart of Sea e mi è venuta voglia di spendere due parole su un film marinaresco imprescindibile, uno dei più belli, appassionanti e dove la ship più rivelante in questione non è la nave che solca i mari, nossignore.
Master & Commander è figlio di quell’avventura sfrenata che ti porta a godere del ciclo dei Courteney di Wilbur Smith tanto quanto dei corsari di tutti i colori sfornati da Emilio Salgari (compresa Jolanda, la figlia del corsaro nero) alla ricerca di azione! avventura! termini marinareschi urlati tra una riga e l’altra di cui non hai la più pallida idea del significato (forse una vela? Una manovra?)! Amori! Nemici! Cannonate! Tradimenti! Morti! e via dicendo, tutto! con! il! punto! esclamativo!
Colpevolmente ho (ri)scoperto Master & Commander solo alcuni anni fa, quando mi accorsi che era rimasto nel cuore soprattutto alle fanfictionare di mezzo mondo (la sezione su AO3 dedicata è pressoché infinita). Come dare loro torto: oltre che ad essere un film che mischia alla perfezione schermaglie verbali di gentleman inglesi con cannonate a babordo e una ciurma minuziosamente caratterizzata, vede un boccoloso ma sempre rozzo Russell Crowe (lol!) che soddisfa con aria di sufficienza le stramberie scientifiche di un giovine e occhiazzurratissimo Paul Bettany per conquistarne l’amo l’amicizia e suonarci assieme il violoncello (eheheh): impagabile. Personalmente però allungo sempre l’occhio a James D’Arcy, per cui capirete che mancamento quando è diventato l’amante di Ben Wishaw in Cloud Atlas. Lo dico? Lo dico: miglior film di Russell Crowe, altro che gladiatori. Ogni volta che ci penso mi dispero per i lunghi periodi di inattività che il regista Peter Weir si concede, perché a 12 anni di distanza questo film da ancora punti su punti a chiunque abbia tentato di intraprendere la stessa strada (per dirne una: Kon-Tiki). Peter, torna da noi, prometto che non ci toglieremo i guanti finché non saremo uscite dalla città! (cit.).
Da qualche parte ho anche l’ebook del primo di una lunga serie di libri (come tutte le avventure marinaresche, se non hanno almeno 20 sequel le gettiamo fuoribordo!) che hanno ispirato il film, acquistato nel giorno dello sconto da pezzenti, ma voci di una traduzione italiana da filibustieri mi hanno sempre un po’ bloccato. Intanto vado a controllare quanto costa il bluray, che ancora manca alla mia collezione. Voi segnatevelo.

the ship

dicevo sul serio, visto?

4 DICEMBRE

theamericansIeri in proiezione stampa ho visto Bridge of Spies, il nuovo acclamato film di Steven Spielberg. Avremo modo di parlarne a breve, ma il tema giornaliero non può che essere quello delle spie sovietiche. Ricordate a voi stessi che anche prima delle serie di Netflix c’erano canali come FX che producevano prodotti che, oggettivamente, spaccavano culi. La prima stagione di The Americans è semplicemente perfetta, un prodotto capace di rimanere costantemente in tensione, cupo, violento, serratissimo, coerente e realistico, eppure non da mai l’impressione di compiacersi della sua bravura (cosa che vorrei poter dire delle serie di Netflix #einvece).
Elisabeth e Philip sono un’anonima coppia di agenti di viaggio, perfetto quadretto familiare statunitense anni ’70, con villetta curata, due pargoli al seguito e ogni segno distintivo del capitalismo consumista. Se non fosse che in realtà sono agenti infiltrati dal Direttorato S di Mosca per portare a termine missioni classificate in territorio nemico. Recentemente ho avuto il piacere di rivedere la prima stagione con Madre, ormai iniziata a Netflix, e mi sono improvvisamente ricordata perché l’avevo mollato: la-tensione-mi-uccide. Una serie fantastica, calibrata al millimetro e dolorosamente realistica, che dà punti a quasi tutti i cuginetti spioni visti quest’anno al cinema. Se avete Netflix perché voglio vedere serie adulte e curatissime, questa non dovreste assolutamente perderla. Se non mi credete, date un’occhiata alla maestria compressa nella sigla.

theamericans_wrongwithyou

5 DICEMBRE

unagrandeeterribilebellezzaGiornata interamente dedicata a Libba Bray, di cui avrei tanto voluto parlarvi quando ho recuperato qualche anno fa il primo volume della trilogia di Gemma Doyle, ma poi al solito, mi sono persa via e ora non sono poi così sicura di ricordare abbastanza da gettarmi sul secondo e terzo volume senza una ripassatina. Nel lontano 2003, Una grande e terribile bellezza (con corredo di una grande e terribile copertina che mi ha tenuto lontana da questo titolo per anni) è stato il classico esordio col botto.
Esortata dal marito a scrivere uno young adult, la pubblicista Libba Bray tira fuori dal cappello una storia di magia e boarding school capace di rapire il cuore a migliaia di giovani lettori, in un successo tutt’ora ineguagliato dalla sua cospicua produzione successiva.
Sin dagli esordi, il punto di forza dell’autrice è l’ambientazione ricca e piena d’atmosfera: in questo caso il contesto è quello della Spence Academy, il più classico dei collegi per signorine, dove s’intreccia una storia di amicizie femminili, ordini segreti, terribili incendi, uscite notturne proibite e omicidi che delizierà tutti gli amanti del genere. Non si può tacere il fatto che è un libro estremamente acerbo, un esordio in cui è chiarissimo come l’autrice proceda a tentoni, però conosce una crescita spettacolare, capitolo dopo capitolo, e arriva a un finale splendidamente calibrato, capace di essere amaro senza ammorbare o steafare. Il quartetto di protagoniste poi fa rivivere quell’atmosfera tra Picnic at Hanging Rock e Heavenly Creatures che la sottoscritta adora, per cui, dopo essermi così tanto appassionata al successivo (e molto, molto meglio scritto e architettato The Diviners) conto di finire la trilogia ad ogni costo. Certo, se qualcuno pubblicasse una edizione in italiano o inglese con delle copertine passabili (o addirittura graziose!) questo piano verrebbe messo in atto molto più speditamente. Non ce l’ho fatta: mi sono rivolta alla biblioteca. Cos’è quel font lì in rosso? No guarda, no. Davvero. Non fatevi ingannare dalla copertina: per tutti gli amanti delle piccole guerre e le grandi amicizie nelle boarding school è imperdibile. Vi dirò di più: il primo che opziona questa o un’altra serie di Libba Bray e la porta in tv (qualcosa in zona CW), farà il botto.

gemma doyle

6 DICEMBRE

what we do in tPirati, spie, collegi femminili…potevano mancare a quest’elenco di fenomenologie pop i vampiri? Giammai! Perciò è arrivato il momento di parlare di uno dei film più chiacchierati del 2014, il classico lungometraggio nato da un corto e prodotto con due spicci alle estreme latitudini del mondo cinematografico (Nuova Zelanda), diventato celebre nel giro dei cinefili a suon di passaparola post Sundance.
What We Do in the Shadows è la classica commedia scanzonata che di necessità fa virtù ridereccia: sceglie la forma del mockumentary per ovviare ai limiti di produzione e segue i suoi quattro protagonisti nella loro progressiva ed esilarante scoperta della modernità, con tanto di sequenze di commento separate da partecipante ai reality.  Viago, Vladislav, Deacon e il temibile Petyr sono vampiri che si aggirano famelici per le notti di Wellington ma sono costretti a rimanere rintanati in casa di giorno, perciò non hanno veri e propri contatti con la società, almeno finché riescono a scoprire il mondo tecnologico e culturale della capitale neozelandese, con esiti tra il grottesco e il comico. La classica amicizia tra bros (di cui alcuni centenari) piena di momenti dolci e amari, tra uno spaccato poco lusinghiero della Wellington di periferia e gli scontri con i terribili nemici di sempre, i lupi mannari. Un film tutto cuore e idee, che diventerà per voi un cult nella misura in cui amate questi ribaltamenti scanzonati del piglio drammatico con cui si approccia di solito il tema mostruoso.
Da qui a dichiararlo un capolavoro, come hanno fatto alcuni, ce ne passa parecchio a meno che, appunto, voi non siate l’incarnazione stessa dei bros before hoes e ogni vostro amico abbia un soprannome legato a My Little Pony.
whatwedo

7 DICEMBRE

immanuelOggi è festa grande nel milanese per uffici e popolazione: la città festeggia il suo patrono, Sant’Ambrogio, quindi è obbligatorio rimanere in ambito milanese. Vorrei quindi spendere due parole su The Pink Album, la nuova fatica dell’idolo milanese del porn groove Immanuel il Casto Divo. Lo so, partendo dal santo patrono non vi aspettavate di arrivare all’idolo della comunità LGBT locale (e non solo) in meno di dieci righe. #einvece #gerundiopresentehappened
Tentare di fare una recensione musicale sarebbe ben più che farla fuori dal vasino ma ci tengo particolarmente che siate preparati quando prima o poi qualcuno lo tirerà dentro nel cast sanremese come elemento di polemica e Twitter esploderà d’ammmmmore e giubilio. Immanuel è anche la nostra unica chance di attentare di nuovo alla vittoria all’Eurovision. Tra l’altro il video di Deepthroat Revolution è una robina che levati: lo guardo e penso a quanto sarebbe bello e semplice avere l’Eurovision dietro casa mandando Immanuel a rappresentarci e consumando l’atroce vendetta contro i maledetti svedesi.
Come tanti altri, sono stata illuminata dalle gesta del Casto Divo sulla via universitaria, quando ancora le sue produzioni erano così amatoriali da somigliare spaventosamente alle tracce midi dei karaoke giapponesi. Da quei primi, roventi anni di produzioni pezzenti siamo passati a giochi GDR di carte (Squillo), un’autobiografia (Tutti su di me), una menzione nelle 55 belle canzoni del 2013 di Pop Topoi, ripetute acclamazioni su Signor Ponza e alla liberazione di Cracovia dall’associazione obbligatoria col soglio pontificio. Prima di sfottermi, fate un giro sui siti di recensioni musicali italiani e guardate che infornata di stellette si è aggiudicato. Sfortunatamente ad ogni fottuto concerto all’Alcatraz qualcosa si frappone tra me ed Immanuel (e lui qui ci tirerebbe fuori un doppio senso pesantissimo) ma non perdo la speranza, soprattutto nella sua apparente volontà a scrollarsi almeno in parte l’etichetta gioiosamente VM18, perché sono giorni e giorni che mi aggiro per Milano con le bici del bikesharing intonando allegramente Rosicoooooo! con grande soddisfazione. D’altronde chi di noi non vuole rinascere unicorno?

Romina Falconi sogna Cracovia

Romina Falconi sogna Cracovia

8 DICEMBRE

we_have_always_lived_in_the_castleIeri parlo di Immanuel e oggi ricorre l’Immacolata: se non è questo un blog sinergico! Pensa che ti ripensa, alla fine mi è venuta in mente una protagonista immacolata, anche se questo non vuol dire che sia necessariamente una santa: Merricat di Abbiamo sempre vissuto nel castello, recentemente riproposto in un’edizione deliziosa da Adelphi (io l’ho letto in questa qui inglese a lato). Del libro ve ne ho già parlato in dettaglio su Players, mentre qui sul blog vorrei aspettare di leggere altre opere di Shirley Jackson (sempre più sulla cresca dell’onda grazie al passaparola tra booktuber) per affrontarlo in dettaglio.
Se altrove mi sono soffermata ad analizzare la dimensione abitativa della storia e il senso palpabile di euforia scatenata da uno spazio abitativo che diventa sempre più demarcato, opprimente ma anche deliziosamente, irrevocabilmente definito (almeno dal punto di vista di una persona agorafobica come la Jackson), qui vorrei spendere due parole su Merricat, su come lo stare dentro la sua testa dall’inizio della storia denunci più le nostre categorie mentali che le sue. Seguendola nelle sue tortuose vie per comprendere la realtà, ci facciamo un’idea della sua età e del suo aspetto che viene spazzata via quando il romanzo finalmente introduce un punto di vista simile al nostro, che ci rivela quando i nostri presupposti teoricamente diretti e logici siano incapaci di comprendere davvero il reale tanto quanto quelli della protagonista, che con la sua visione istintiva e parziale riesce invece a cogliere maledettamente bene la vera natura dell’unica “persona normale” che entra nella sua vita all’improvviso, e tenta di normalizzarla con la forza.
Mi sono sempre piaciuti i racconti in grado di rendere quel lato quasi ferale, istintivo e spregiudicato dei ragazzini, quell’incapacità di non essere che diretti perché tutte le costruzioni e i condizionamenti della società sono ancora in fase di costruzione nelle loro coscienze. Li preferisci a quelle approssimazioni di beata innocenza che talvolta tocca sorbirsi anche in ottimi romanzi. Questo libro rende questo concetto di innocenza infantile in maniera articolata e sfumata assolutamente alla perfezione.

tecup

9 DICEMBRE

whiplashOgni tanto nel turbinio di film visti / da vedere / troppo tremendi per ammettere di averli visti che anima questo blog, mi scappa un filmone. Lo vedo tardi, magari nel periodo degli Oscar in cui recuperi anche 6, 7 film a settimana e ti riprometti “no, ma domani passiamo anche a te stronzetto!”, finché ti tocca ammettere di non essere più quite your tempo per farlo. Come questo sia potuto capitare a quella piccola perla di Whiplash è ancor più inspiegabile, visto che un paio di persone mi avevano anche detto di attendere la mia opinione a riguardo. È stato uno dei primissimi titoli che mi è venuto in mente quando ho deciso di iniziare il recensionario. Perciò eccoci qui a parlare di quanto sia bello Whiplash, un film sostanzialmente basato su tre idee nemmeno così complesse ma realizzate con precisione estrema, fino a raggiungere un risultato che, anche a una seconda recente visione, rimane un’esecuzione perfetta. Primo: una sceneggiatura che parte da un incipit da Juliard School (il maestro e l’allievo, il rapporto complicato, il sangue, il sudore, la fatica, ehi! I wanna live forever!) ma ne disattende puntualmente i risvolti canonici, lasciandoti sul bordo della poltrona completamente in balia del film, perché non sai se avrà manie di suicidio, rivalsa, sarà ironico, drammatico, comico o pieno di rimpianto, salvo poi essere tutte queste cose (e, diciamolo, anche un bel po’ shippabile per quelli che amano gli insegnanti megane chara nell’animo se non nell’aspetto). Secondo, trovare due protagonisti davvero all’altezza della sfida e, vivaddio, consentire a J.K. Simmons di essere protagonista in un ruolo memorabile (ma anche Miles Teller è fantastico). Terzo: far seguire a tutto questo una regia curata, con uno stile rigoroso e mirato a uno scopo. Qui non è esattamente una passeggiata, dato che si tenta di descrivere visivamente un qualcosa di impalpabile come la musica, ma l’ambizione del film è tale che l’esperimento è riuscito e quest’ultimo punto di gran lunga il più esaltante: Whiplash ti fa vedere la musica. Wow.

tempo

10 DICEMBRE

duff_1Se per ben un giorno vi ho dato l’impressione di essere una personcina seria, vediamo di recuperare immediatamente. Dovete sapere che almeno una volta l’anno vado inspiegabilmente in fissa per un film chiaramente dedicata a un target adolescenziale e potenzialmente piuttosto brutto. Non so se a voi sia mai capitato, ma ci sono dei giorni in cui mi sveglio e ho voglia di una commedia scolastica con tanto di make over della bruttina, rivalsa sulla stronza stragnocca che comanda a bacchetta tutta la scuola e qui pro quo amoroso col figone che si innamorerà di lei e ballo di fine anno in cui è obbligatorio denunciare quanto l’elezione del re e della regina della scuola stiamo mettendo tutti uno contro l’altro. Per dire, la costruzione dell’aspettativa sul ballo di fine anno non manca nemmeno in un prodotto hipster frangetta come Il peggior Quel fantastico peggior anno della mia vita, che esce oggi nelle sale italiane e di cui vi ho già parlato. E quando hai voglia di questi capisaldi montati su una struttura più o meno flessibile non puoi nemmeno affidarti ai grandi classici (Mean Girls, Clueless, qual è il vostro high school movie generazionale?), hai bisogno di qualcosa di nuovo, pur essendo già intrinsecamente già visto e vecchio. E quindi? Quindi quest’anno dopo aver visto il trailer non ho avuto pace finché non sono riuscita a recuperare L’A.S.S.O. nella manica, tratto da un libro young adult ma decisamente più vicino al filone cinematografico tradizionale che ai fenomeni da libreria. In questo caso l’A.S.S.O., amica sfigata strategicamente oscena (o D.U.F.F. designated ugly fat friend) è Bianca, una ragazza che nemmeno ci prova ad aderire ai parametri estetici scolastici e si aggira a scuola praticamente in pigiama. Quando però scopre (o si convince) di essere l’ASSO delle sue amiche di una vita, nonostante continui a professare l’umorismo di chi è superiore, in realtà ci rimane così male da tentare il make over, guidata dall’amico d’infanzia fighissimo ma consapevolemente, cronicamente idiota. Non succede nulla che non possiate desumere da questo sparuto incipit, e tuttavia non mi sono pentita di averlo visto, soprattutto perché ho scoperto il talento della protagonista Mae Whitman, che regge il film da sola con grande naturalezza e umorismo e nei momenti migliori non fa nemmeno rimpiangere troppo Mean Girls. Peccato che però qui alla penna non ci sia Tina Fey, ma il fatto che Bianca sia, almeno hollywoodianamente parlando, credibile come sfigata intellettualoide nerd e che il make over abbia risultati più comici che estetici lo rendono una visione passabile per quelle serate in cui vi sentite liceali…ovviamente sono ben accetti consigli su uscite più o meno tremende degli ultimi anni dagli liceali che albergano in voi. Probabilmente per le stesse ragioni estetiche da allora non l’ho vista in niente di vagamente difendibile.

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11 DICEMBRE

macbesthDato che uscirà a inizio gennaio manca ancora un po’ prima del post dedicato all’adattamento di Macbeth di Justin Kurzel, ma posso già anticiparvi che è stato così emozionante da spingermi a finire di leggere l’ultimo atto che giaceva lì, mollato a metà dal lontano 2013, quando avevo voluto testare l’opera in originale prima di vedere James McAvoy in una versione moderna e distopica (that’s so me).
Pur essendo uno dei più tragiconi e morbosetti e visionari lavori di Shakespeare, è stata una faticaccia. Nonostante abbia comprato l’edizione qui a lato (toppando clamorosamente, perché le note si concentrano più che altro sulla differenza tra le varie versioni disponibili, che se non sei un linguista anche un po’ fottesega, e prefazione e postfazione sono così egoriferite da sembrare meri esercizi di stile), la difficoltà della lingua sembra celeare quasi sempre che la reazione che suddetta dovrebbe comportare nel lettore. Ora, non voglio spingermi a dire che quell’assunto di Shakespeare sia il più grande scrittore mai nato sia la solita efficacissima operazione di marketing inglese (anche perché come alternativa noi proponiamo il re del bacchettonismo Dante, quindi magari no), ma ecco, in mezzo alle scene immortali ma di fondo che sai già a memoria pur non avendole mai lette (le streghe, la macchia sulle mani di Lady Macbeth, considerazioni sulla morte varie ed eventuali del marito) sarebbe carino anche ricordare che ci sono un sacco di passaggi di valletti, messaggeri e noia varia ed eventuale.

macbethdone

12 DICEMBRE

lehomaiparlato-copertinaVi parlavo in questi giorni di Irrational Man e di come l’umore e la condizione psicologica di un dato momento possano influenzare la percezione finale di un’esperienza o un prodotto, anche nel più obiettivo dei critici. Il lato positivo è che si può sfruttare questo continuo fluire di emozioni differenti per apprezzare un libro come Le ho mai raccontato del vento del Nord. Non so se il breve volume di Daniel Glattauer (che definirei una novelette, qualcosa a metà tra il racconto breve e il romanzo vero e e proprio) mi piacerebbe a prescindere, in qualsiasi momento. La prima volta che mi è capitato per le mani fortunatamente ero nello stadio emotivo perfetto per recepire tutto il meglio dello scambio fortuito e via via più sensuale di email tra i due sconosciuti protagonisti della storia, senza che il romanticismo e l’erotismo di alcuni passaggi mi risultassero forzati o stucchevoli. Le ho mai raccontato del vento del Nord è un successo commerciale globale che, senza mai avventurarsi in veri e propri territori letterari, risponde perfettamente al bisogno di una lettura romantica e contemporanea, sensuale ma comunque quotidiana, con personaggi meravigliosamente intriganti ma abbastanza quotidiani da farci illudere di poter essere anche noi altrettanto brillanti, sagaci, scaltri, romantici, avventurieri e sognatori. Appaga un bisogno molto specifico e molto limitato nel tempo, ma coadiuva un’occasionale slancio romantico, maschile o femminile, alla perfezione. Per questo genere di bisogni non c’è niente di meglio di un romanzo epistolare, che sia via pergamena, piccione, lettera, mail: basta che si formi uno scambio simile al dialogo ma non altrettanto univoco, aperto alle sfumature marginali e ai non detti della forma scritta, e che generi l’insostituibile appagamento dell’attesa coronata da quelle magiche parole: you’ve got mail.
mail

13 DICEMBRE

goodkillLa recensione del giorno vuole essere una risposta a un collega di proiezione che, di fronte a un mio lamento sul sottoutilizzo di Ethan Hawke dopo la visione dell’orrendo Regression, mi ha risposto “ma quando mai ha fatto un bel film, ad eccezione di Gattaca?”. Lo struggente Gattaca è stato un po’ il punto di partenza e di arrivo per quasi tutti quelli che vi hanno preso parte, compreso il regista Andrew Niccol. Gattaca è una gran perla di fantascienza che ha conquistato lo status di classico solo molti anni dopo il suo fallimento commerciale e i film del suo creatore (il regista neozelandese non mainstream per eccellenza) ancora faticano a trovare visibilità. Vedi alla voce Good Kill, passato due edizioni fa a Venezia e da allora sostanzialmente scomparso dai radar. Peccato perché, ad eccezione di un finale buonista che cozza malamente col tono tutto fuorché rassicurante del film. è una pellicola forse non cinematograficamente bella ma sicuramente interessante per il tema che tratta e per come lo fa: i droni e il loro impiego nelle missioni dell’esercito statunitense. L’ex pilota di caccia statunitensi Ethan Hawke vive nella periferia di Los Angeles: tutte le mattine si alza, guida fuori città, entra in un container considerato “territorio estero” (alla stregua delle ambasciate) e pilota un drone su obiettivi sensibili per il terrorismo islamico. Il film vive della crisi di coscienza del pilota che vorrebbe tornare a pilotare aerei veri e si ritrova a una consolle, sempre più invischiato nelle vite degli obiettivi che spia ma sempre più alienato da una “buona morte” che arriva da migliaia di km di distanza, premendo un bottone, stando su una sedia girevole davanti a uno schermo.
Si tratta di una pellicola molto fredda, asettica, che fa del distacco geografico tra pilota e obiettivo e dell’alienazione conseguente il suo punto di forza. Se volete capirne di più sull’argomento e in particolari dei chiaroscuri riguardo alle tecniche d’ingaggio e la precisione di bombardamento, recuperatelo assolutamente. Nota: contiene una scena di stupro particolarmente raccapricciante: non tanto per il gesto, decisamente frequente al cinema, quanto proprio per le modalità con cui viene perpetrato e raccontato. Se non fosse grottesco, direi che è una delle scene di violenza sessuale più efficaci viste negli ultimi anni.

goodkill

14 DICEMBRE

MARYLeggere il libro da cui Walt Disney ha tratto Mary Poppins è un trauma simile a quello di “Colazione da Tiffany” di Truman Capote o “Pinocchio” di Collodi. Tutti sappiamo che a zio Walt proprio piaceva metter mano e riplasmare pesantemente le fonti iniziali a scopi personali, ma il trauma legato alla bambinaia inglese è forse maggiore, perché la sua versione originale era assolutamente ignota nel nostro Paese fino a pochi anni fa, quando Bur pubblicò questa bella edizione per ragazzi completa di gradevoli illustrazioni.
Innanzitutto il romanzo è solo il primo di una lunga serie che un tempo costituiva uno dei classici per ragazzini in Inghilterra. Se poi pensavate che la Mary Poppins di Julie Andrew fosse un po’ volubile e talvolta insopportabile, aspettate di vedere le arie altezzose, la malizia e l’amor proprio della sua versione cartacea. La creatura di P.L. Travers non è di quelle a cui ti affezioni facilmente, ma sicuramente mantiene molto, molto di più un’aura di mistero e di inconoscibile magico di fronte ai bimbi che accudisce e ai lettori che intrattiene. La sua Mary Poppins mantiene un lato civettuolo di giovane donna prima ancora di bambinaia amorevole ma severa, il che la rende ancora di più una persona a tutto tondo, dal carattere pieno di spigoli, debolezze e amor proprio, e non solo la versione magica e indimenticabile della figura atta ad accudire i bambini degli altri.

marypoppins

15 DICEMBRE

52tuesdaysOggi è martedì, quindi mi sembra il momento ideale per spendere due parole su 52 Tuesdays. Come li trovo questi film misconosciuti? Semplice: siate piccoli esploratori, quando prendete voli aerei molto lunghi (quelli su cui c’è il monitor e un’enorme selezione di film, quindi addio saggia idea di dormire e benvenuto folle proposito di fare 15 ore filate di visione di cose!). Io vado sempre a scartabellare nella sezione legata alla nazione di destinazione e due anni fa, mentre volavo alla volta della Nuova Zelanda, mi sono imbattuta in questo stranissimo film australiano, che poi ho scoperto essere passato anche a Berlino.
52 Tuesdays è una sorta di film giovanile alla Xavier Dolan la cui visione risulta interessante soprattutto per noi italiani, per ricordarci quanto sia diverso il concetto di famiglia altrove. In questa famiglia australiana, ad esempio, la madre divorziata della protagonista decide di voler cambiare sesso e caccia la figlia adolescente a casa del padre mentre sostiene il difficile cammino ormonale legato alla sua scelta. La ragazza potrà incontrarla solo una volta a settimana, di martedì pomeriggio, per tutta la durata dell’anno che la madre ha deciso di dedicare alla ricerca della sua felicità.
Più che un film bello, è una pellicola strana forte, dove le meravigliose fattezze swintoniane di Tilda Cobham-Hervey ci guidano alla scoperta di un coming of age adolescenziale australiano per molti versi alieno alla nostra visione del mondo. Se avete voglia di qualcosa di davvero diverso o vi interessa recuperare una pellicola sulla fluidità di genere, ci darei un’occhiata.

52tuesdays

16 DICEMBRE

mrbanksOvvia conseguenza della recensione di ieri, parlare oggi di Saving Mr. Banks, uno dei film biografici più belli dell’anno scorso e ingiustamente passato sotto silenzio, anche qui sul blog.
Il film vede Tom Hanks che interpreta Walt Disney, impegnato nel tentativo piuttosto arduo di convincere l’autrice inglese P.L. Travers, interpretata magnificamente da Emma Thompson, a consentirgli di portare su schermo la sua bambinaia inglese.
Non è il solito film di scontro e incontro fino al finale successo commerciale, anzi, vederlo pregiudicherà per sempre la vostra visione del classico disneyano con protagonista Julie Andrews. Saving Mr. Banks è una storia amarissima di paternità difficili e figli che lottano per essere migliori dei propri padri, per non perdere il sentimento di affetto verso i loro genitori, per mantenere le promesse fatte e ripagare quelle ricevute da piccoli e disattese.
Non il film che ci si aspetterebbe da John Lee Hancock (The Blind Side, Biancaneve e il Cacciatore). Una pellicola dalla sensibilità e simpatia (nel senso dell’essere simpatetici) incredibile, capace di mostrarci un altro lato del capolavoro disneyano, quello in cui si sono riflettuti i drammi e dolori dei due creatori, il loro bisogno di ottenere assoluzione per i loro padri almeno su grande schermo. Volendo, anche una riflessione amara sul potere persuasivo dell’american way of living, destinato anche a conquistare un’Inghilterra ancora ai suoi valori e alle sue diversità, oggi scomparsa.

ononono

17 DICEMBRE

highmoonÈ arrivato proprio il momento di parlare di fantascienza, yay! Ma anche di coppie omo, spie russe innamorate, fiori spaziali e di un robot tirannosaurus rex gigante: fate largo a Bryan Fuller e ringraziate SyFy che, pur avendo cassato il pilot di questa serie assolutamente folle, ha deciso di montarlo alla buona (molto alla buona) e di trasmetterlo come una sorta di film tv. Non che High Moon non abbia i suoi problemi, su tutti una sorta di storia misteriosa dai contorni gialli e spionistici ambientata su una base lunare, ma con gli scarsi mezzi a disposizione dimostra un’irruenza inventiva che è davvero difficile recuperare altrove. Non è un prodotto per tutti e forse si tratta in fondo solo di una chicca per completisti fulleriani in attesa di American Gods, però debbo dire che la scelta stilistica ed estetica ancora una volta era superba: il futuro così come immaginato negli anni ’60, con un stile retrovintage molto ironico che ben si adattava alle esagerazioni comiche e nonsense che Fuller aveva accostato ai toni mystery della storia. Un’assoluta follia, di quelle a livello asiatico, ma non mi sono mai pentita di averlo recuperato.

highmoon

18 DICEMBRE

source codeUna volta presa una piega scifi è difficile girare a sinistra, chiedete a Charlize Theron. Io oggi non ci provo nemmeno e ammetto che nel tempo ho finito per rivalutare uno di quel loop movie alla Il giorno della Marmotta di qualche anno fa, Source Code, seconda pellicola di Duncan Jones che aveva un po’ ridimensionato la nostra stima nei suoi confronti. Posto che qui il target rispetto a Moon è evidentemente più commerciale, devo dire che si è mantenuto piuttosto bene anche a una recente seconda visione. Il che prova che prendersi uno smaccatamente bravo come Jake Gyllenhaal come protagonista nel tempo paga sempre.
Anche qui, si soffre un pochino di voler piazzare sempre un mega ribaltine colpo di scena finale, però il film è costruito molto bene, quindi forse i meriti vanno anche a Ben Ripley che se lo è scritto. Potrebbe essere conveniente recuperarlo perché quest’estate girò voce che lo sceneggiatore stava lavorando a un sequel del film. In effetti l’idea fantascientifica di base del film (che ovviamente non vi spoilererò) potrebbe ben adattarsi a un franchise esteso…si vedrà. Particolarmente consigliato agli amanti del settore videoludico contemporaneo, perché la storia ha una vibrazione molto simile a quella dei videogiochi multi-capitolo più in voga.

quel momento Fringe immancabile

quel momento Fringe immancabile

19 DICEMBRE

fireplaceAbbiamo parlato di Jessica Jones e del preoccupante non detto che ormai serpeggia tra gli amanti delle serie televisive: se è nel catalogo Netflix, allora sarà una figata. Il che è di per sé piuttosto rivelatore del nostro bisogno di etichette e marchi di cui fidarci a prescindere in un momento storico in cui la produzione culturale è distribuita in modalità mercenaria e che ci permette di tradire con agilità ogni categoria e contenitore (anche quelli imposti dalla legge) alla ricerca di quello che fa veramente per noi, salvo poi cadere tra le braccia di chiunque ci faccia sentire protetti, sicuri e felici come il nostro adolescente interiore.
Bisogna ammettere però che Netflix ha una grande cura del suo catalogo in toto e riesce sempre a valorizzarne il contenuto, a renderlo meritevole di attenzione e menzione se non di visione perché, appunto, è Netflix.
Proprio oggi ho scoperto che tra gli anfratti del catalogo italiano si nasconde un prodotto stucchevole e new age nel senso più pacchiano del termine come Fireplace for your Home, una serie in tre episodi di…camini che scoppiettano allegramente, per un’oretta, con corredo di canzoni natalizie o neorealisticamente privi di audio aggiuntivi.
Ebbene, direte voi? Ebbene, di questa entusiasmante, sensuale serie esistono:

  • un trailer

  • un making of con il commento l’autorevole Director

Basta dare un’occhiata alle visualizzazioni per capire la genialità di un sistema che da un prodotto piuttosto stucchevole e riempitivo (e che si prende del tutto sul serio in quello che fa) tira fuori una parodia fantastica, capace di far parlare di sé così tanto da rendere tutti consapevoli che sì, su Netflix questo Natale puoi spararti anche una maratona di Fireplace for your Home. Esempi di un modello di business che non intravede nemici che usurpino il suo posto nel vostro cuore (e portafoglio).

fireplace

20 DICEMBRE

atouchofclothAltra parodia stratosferica di un genere diventato antologico proprio per la serietà con cui ripropone sistematicamente le sue formule è A Touch of Cloth, di cui purtroppo al momento ho visto solo la prima serie. Immagino che in pochi di voi al momento stiano assentendo vigorosamente ed è un vero peccato perché se nomino Black Mirror, cominciate a festeggiare. Eppure entrambe le serie condividono lo stesso geniale creatore, Charlie Brooker, ma con budget profondamente diversi, dato che A Touch of Cloth è orgogliosamente realizzato con due lire (ma in HD, pezzenteria in HD!).
A Touch of Cloth è la parodia definitiva del genere poliziesco, del crime, di qualsiasi squadra anticrimine che militi su piccolo schermo. È più di una comedy, è un delirio nonsense schizzofrenico in cui la quarta parete praticamente non esiste e il livello di battute consumate al secondo è tale che si è costretti a vedere l’episodio due volte, perché ogni fottuto cartello, foglio in bacheca, disegnino in basso a destra è un ulteriore battuta nella battuta. Per chi frequenta la zona anime, la sensazione è molto simile a quella di un episodio tipo di Sayonara Zetsubou Sensei.

Più amate il genere poliziesco, più vi rotolerete per terra dalle risate con A Touch of Cloth, perché il numero di pun e battute intercettate cambia molto a seconda del vostro grado di conoscenza del genere e di quantità di serie televisive (inglesi, statunitensi o saghe letterarie) che vi siete sparati negli anni.
È un esempio fantastico di stratificazione della comicità, che ti colpisce a livello sonoro e visivo, per sottrazione e aggiunta. La trama esaspera ogni stereotipo del poliziesco classico e della vita da commissariato, ma anche del modo in cui la televisione ci vuole far percepire questo mondo e persino della pezzenteria stessa della produzione. Prego ogni divinità che continuino a produrlo e che creino uno spin off legal, che mi darebbe davvero il colpo di grazia.

atouchofcloth

 

 

 

 

 

 

21 DICEMBRE

angelQuesto 2015 si è rivelato una penuria di costume drama e io ho smesso di frequentare giornalmente Tumblr come un tempo, il che mi rende molto più difficile scovare vecchi film interessanti mezzo gif fuori contesto. Capite quindi che appena mi sono imbattuta in Angel, un film del conturbante François Ozon (Nella casa, Una Nuova Amica, Giovane e Bella) un melò come non se ne fanno da decenni in costume, ambientato in Inghilterra e con protagonisti Romola Garai e l’allora sconosciuto Michael Fassbender (per testimoniare l’occhio lungo di Ozon), sono andata letteralmente in visibilio.
Ora, è il classico film che scivola dalle mani di un giovane autore in trasferta estera pieno di idee ma ancora poco avvezzo a sintetizzare e a tenere a freno il suo senso estetico ma onestamente chissene frega. Stiamo parlando di un film con al centro una volubile, egocentrica e risoluta ragazzetta che vive in una proiezione irrealistica del suo talento di scrittrice e che per mera ostinazione nel credersi un talento diventa incredibilmente una romanziera di fantasie romantiche di incredibile successo che ottiene tutto ciò che vuole dalla vita, compreso bellissimo marito e passa il resto della sua sempre più drammatica esistenza a tentare di non vedere questa proiezione irrealistica che le scricchiola intorno e a brevi sprazzi le mostra la realtà.
Io amo Ozon, lo amo perché ha il gusto del melodramma (qui espresso in senso letterale), ha la sensibilità francese per l’erotismo e quella omosessuale per l’onnipresente ambiguità di genere, ma nella sua carica erotica, qui incarnata da Romola Garai che è un’autentica visione, la donna è sempre soggetto e mai pezzo di carne. Ha una marea di difetti, ma quelli che forse amo di più; a voi comunque non importa, potrei tentare di convincervi in tutti i modi, ma so che il più efficace è questo:

michael fassbender angel

22 DICEMBRE

lis1Dato che oggi vi ho parlato di The Force Awakens, rimango in tema J.J. Abrams che si prende tutte le colpe e meriti e vi parlo di S. La Nave di Teseo. Su questo libro sono stata molto tentata di scrivere un post lungo, ma un po’ mi sembra di arrivare fuori tempo massimo, un po’ ho l’impressione di essere l’unica a coltivare un vivace entusiasmo a lettura ultimata. Innanzitutto ci terrei a dare rilevanza a Doug Dorst quello che si è smazzato tutto l’enorme lavoro di un libro game 2.0 che per essere compreso va letto su tre livelli che appaiono sulla stessa pagina: il testo stampato e un corpus di appunti scritti ai margini delle pagine in colori diversi, che corrispondono a diverse riletture dei due protagonisti della storia. Riletture che coesistono in modo che la seconda e la terza rendano man mano completa la precedente, senza mai spoilerare troppo, anzi, lasciando il lettore sulle spine mentre tenta di ricostruire la cronologia e riempire i buchi di narrazione.
Il problema principale da tutti evidenziato è che si tratta di un libro tutto stile e poco contenuto, dove la bellezza dell’oggetto (pregevolissimo anche nell’edizione italiana) non riesce a colmare una mancanza di contenuto letterario. Ecco, io non sono proprio d’accordo: è vero che il testo del libro stampato, il meta libro che però è anche il libro fisico che avete in mano, La Nave di Teseo, risulta un po’ ridicolo perché incensato dai due appuntatori di note come il grande capolavoro misterioso ma bellissimo, mentre non è mai più di una bella lettura piena di enigmi enigmatici e misteri misteriosi alla Lost, però devo dire che, una volta compreso il livello metaforico delle trasposizioni del supposto autore S. nel supposto racconto, delle immagini liriche attraverso cui rielabora i terribili accadimenti e tradimenti della sua vita…beh, mi è piaciuto un sacco. Inoltre, avendo capito per bene tutta la cronologia del romanzo e del mistero dell’identità dell’autore (enormemente complesso, anche senza contare la forma frammentata con cui vengono introdotti) senza percepire una pesantezza nella lettura o un senso di smarrimento, direi che la costruzione impeccabile di questo libro fa invidia a tantissimi altri prodotti che ruotano attorno a quello persistente alone di mistero immutato anche dopo numerose rivelazioni. Anzi, forse mi è piaciuta di S. autore e dei suoi compagni rispetto a quella quella dei due protagonisti appuntatori, e le immagini allegoriche che appunto utilizza, come il lago nero velenoso e la fuga tra le montagne, i marinai che si cuciono le labbra, il delirio di S. sulla branda della nave, gli operai che scioperano dopo che i compagni sono scomparsi nel nulla. Sono immagini che, a sorpresa, mi tornano in mente spesso.

jj

23 DICEMBRE

cover_internazionale2Antivigilia!
Ve l’ho già segnalato in tutti i luoghi e in tutti i laghi ma la redazione di Internazionale in un attacco di hipsteria portami via ha trovato un ottimo modo per andare in vacanza e mettere in pausa il giornale: un numero interamente dedicato alla narrativa breve giapponese contemporanea. Il che vuol dire inevitabilmente sovvenzionare il Malvagio, ma per tre euro tre vi portate a casa una signora antologia, peraltro correlata da bellissime illustrazioni, con un disegnatore diverso per ogni racconto (c’è anche Manuele Fior, quello di Cinquemila Chilometri al Secondo, per dirne uno).
Al momento ho avuto modo di leggere solo il racconto di Yoko Ogawa in apertura del numero. Davvero bello, davvero giapponese e soprattutto piuttosto diverso dalla sua produzione di romanzi nota anche in Italia. Molto più tradizionale sulla forma breve, la Ogawa.
Per i curiosi, per chi forse si deciderà a provare altro oltre a Murakami e per gli estimatori, per cui è assolutamente imperdibile: è l’occasione di testare le abilità di premi Akutagawa come Mieko Kawakami, da noi irreperibili.

asianwoman

24 DICEMBRE

paddingtonCi siamo, è la vigilia! Mancano poco meno di due ore al Natale e finalmente posso parlarvi del consiglio che mi preme più darvi, forse anche il più natalizio della lista, il principale motivo per cui questo post speciale è nato e arrivato fin qui (approposito: mi aspetto un feedback, come le colonnine con i pulsanti con le faccine felici o tristi all’uscita dei negozi, nei commenti).
Paddington è il film che dovete assolutamente recuperare in queste festività, uno dei film migliori che mi sia capitato di vedere quest’anno. Rimpiango ogni giorno di averlo un po’ snobbato nella ressa di uscite dello scorso gennaio, bollandolo come il solito film stucchevole con il protagonista animale pasticcione stile cane Beethoven, un genere che mi riesce odiosissimo anche solo via spot pubblicitario.
Poi leggo i tweet di Richard k. Morgan (l’autore di A Land Fit for Heroes, non esattamente un cuore tenero) descriverlo come un grandissimo film, ritenendosi fortunato di averlo intercettato grazie al figlioletto. Poi compare nelle classifiche di fine anno davvero importanti, e nelle posizioni alte. Arriva un tweet di Mark Gatiss, attore e autore di Sherlock. Decido di indagare.
È bellissimo, semplicemente. Tecnicamente è stupefacente, un plauso a Warner Bros che non ha badato a spese per la realizzazione tecnica. La storia di famiglia londinese stramba ma buona versus una cattiva alla Crudelia Demon (interpretata da Nicole Kidman) è una sciocchezzuola, ma il messaggio, il sottotesto che riesce a esprimere nei suoi non detti, nella sua metafora dell’orsetto giunto in Inghilterra al collasso della sua patria natia che si scontra con la diffidenza e l’amore di un famiglia comune, beh, è più che attuale, un messaggio lanciato da un Paese che non sembra volerlo ascoltare a un continente a cui giova sempre ripeterlo in questi anni.
Fatevi un favore: guardatelo in inglese. Non che l’edizione italiana abbia particolari pecche, ma in originale tra attori, accenti e svolte che solo sotto il Big Ben, si raggiunge un livello di britishness da trasformarvi il sangue nelle vene in tè. E poi la voce di Paddington è di Ben Wishaw, nell’unico ruolo in cui non è magro impiccato perché è realizzato in computer grafica!
Paddigton è un film che scalda il cuore in maniera semplice, profonda, autentica; racchiude in sé il vero spirito del Natale e quanti l’hanno visto concordano con me nel ritenerlo già oggi un grandissimo classico del cinema per ragazzi. Questa segnalazione ve la dovevo, assolutamente.

paddington

Buon Natale.