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Adam McKay, Autocompiacimento registico, Brad Pitt, c'è la crisi signora mia, Christian Bale, Corporazioni Malvagie, Margot Robbie, Marisa Tomei, Oscar 2016, Peter Epstein, quando arrivi al potere ti sporchi le mani, ritratto di relazioni umane prima che lavorative, Ryan Gosling, Selena Gomez, Steve Carell, tratto da una storia di poco falsa
In questi giorni non faccio che parla più che bene dei film che recensisco. Ebbene, le sviolinate degli scorsi post non sono niente rispetto alle lodi che tesserò per The Big Short, film che non è passato sulla Croisette e che uscirà domani nelle sale. Lo avrei messo direttamente al numero due del Listone, avendomi completamente esaltato durante la proiezione dicembrina, ma è tecnicamente un film del 2016, almeno in Italia. La grande scommessa nel mio cuore ha un solo avversario fuori portata, ed è quel capolavoro di Mad Max Fury Road, mentre nella corsa agli Oscar è più che altro l’avversario di se stesso, in quando il suo ritmo sfrenato e la sua intrinseca contemporaneità stilistica lo rendono ostico ai gusti ultra tradizionalisti di una larga fetta dell’Academy.
Avete presente l’ultimo fantastico film di Scorsese Di Caprio munito, The Wolf of Wall Street? Ecco, questo è decisamente meglio.
Tratto dall’incendiario libro di Michael Lewis, The Big Short non lo liquideremo come un film tratto da una storia vera, perché si tratta a tutti gli effetti del biopic della crisi economica globale del 2008. La tentazione di paragonarlo all’ultimo Scorsese è irresistibile, per via della comune tematica (il mondo economico popolato di squali della finanza) e del montaggio a folle velocità (non mi capita spesso di citare montatori, ma Hank Corwin si dovrebbe prendere almeno una nomination solo per la mole spaventosa di lavoro svolto) ma i due film in realtà sono totalmente differenti.
In quello di Scorsese l’economia è uno scenario interessante dove piazzare un film più che convenzionale, un biopic alla The Aviator che fa del suo irresistibile e inarrestabile antieroe il suo centro: c’è persino la parabola americanissima dell’ascesa e della caduta fino a una parziale redenzione, in quello che a tutti gli effetti è un racconto celebrativo dello spirito americano.
Il centro di The Big Short non è lo spirito statunitense, non è nemmeno il suo nucleo di protagonisti – il gruppo di disadattati e secchioni che subodorano la crisi e puntano forte sul crollo fino a diventare milionari – bensì è la crisi economica stessa, di cui il film è al contempo un bignami for dummies e un resoconto che rasenta il documentaristico, se per documentario intendiamo quei film fighettissimi dalla forte personalità e dal montaggio avvincente. Il primo, enorme merito di Adam McKay (in doppia veste di regista e cosceneggiatore) è quello di portarci alla fine del film con una comprensione cristallina di come si sia originata la bolla immobiliare statunitense e di come sia stato possibile rendere uno shock inaspettato un disastro annunciato i cui sintomi erano visibili ovunque. Il film è costellato di spiegazioni puntuali di termini economici e passaggi speculativi, ma è tutto meno che didascalico, anzi, fa del gran cinema in queste parentesi, lasciando che sia Margot Robbie che sorseggia champagne in una vasca piena di schiuma a spiegarvi cosa siano i mutui subprime, seguita poi da famosi chef ed economisti premi nobel affiancati da Selena Gomez. McKay non è paternalistico e anzi, non perde l’occasione di essere graffiante, anche se la sua priorità è rendere perfettamente chiaro cosa sia successo.
La riuscita del film sta tutta lì: è una commedia nerissima che rende spaventosamente chiaro il funzionamento generale dell’economia globale, schiacciata da una finanza ipertrofica che si autoalimenta in un sistema di guardiani a libro paga, governi e banche invischiati nei loro stessi raggiri, strumenti finanziari basati su strumenti finanziari basati su puro azzardo o su assunti del tutto illogici. Se avete seguito la grande crisi del 2008 con un livello di approfondimento un po’ più alto della tremenda informazione economica che i media italiani ci propongono non c’è nulla veramente di nuovo, ma a fine film l’effetto è quello di una stasi angosciante, perché la visione d’insieme non è mai stato così panoramica su un sistema cannibale che viene descritto come ancora autoalimentato dagli stessi errori, le stesse logiche, le stesse persone.
Ed è qui che forse il paragone più calzante diventa un altro film, il sottovalutatissimo ma magistrale Foxcatcher, con cui peraltro condividere lo strepitoso Steve Carrell. La seconda chiave di volta è l’utilizzo come narratori degli unici vincitori di quello che è stato un disastro di dimensioni epocali che ha distrutto vite ed economie: sei esperti di economia, operatori finanziari di medio o basso livello che non sono mai stati chiaramente tipi giusti da banca internazionale. Ognuno di questi smanettoni disadattati ci arriva in modo diverso, ma ognuno di loro scopre un pezzo del cataclisma che si sta per abbattere sul mondo bancario e finanziario. Loro di quel mondo ne fanno parte, è chiaramente la loro forma mentis, ma decidono di scommetterci contro, in un gioco che rischiano continuamente di perdere.
Perché l’amara, durissima verità è che per uscire vincenti e milionari dovranno continuamente rivedere la loro stima sulle dimensioni del fenomeno e la loro fiducia nel loro modello di nazione al ribasso, perché anche il più cinico e incazzato di tutti, Steve Carell, ha in fondo una cieca fiducia in quel sistema contro cui sta scommettendo. Vincere significa arrendersi alla completa menzogna di quel sistema, della propria patria, dei propri ideali, della propria vita. Vincere porta a perdere qualcosa di enormemente più importante del denaro e della stima altrui, come scopre Christian Bale, citato in giudizio da clienti che ha reso milionari e come aveva già scoperto l’ambientalista radicale e paranoico milionario interpretato da Brad Pitt, che in un momento di lucida e agghiacciante presa di consapevolezza di due giovani che ha aiutato a diventare milionari e che lo guardano sgomenti di fronte al disastro che si sta consumando, dice loro ora sapete cosa significa essere ricchi. Ricchi che divengono tali scommettendo sulla certezza della futura rovina altrui.
Sono film come questo o Foxcatcher a tirare fuori lo spirito statunitense, a colpirne i nervi, a toccarne la carne viva, in modalità che fanno apparire tutta la retorica e la superficialità dell’ultimo Spielberg de Il ponte delle spie. The Big Short celebra gli Stati Uniti e la loro essenza più pura e chi la vuole comprendere fino in fondo, come Steve Carell, ne esce irrimediabilmente ferito, perduto, forse per sempre. A meno di non esserne la discendenza più perfetta, quella incarnata da Ryan Gosling, l’unico davvero in grado di attenersi alla formula del sono solo affari.
L’unica nota dolente, stavolta sì in comune con Scorsese, è che un film tanto geniale e innovativo non possa che esprimersi in una dimensione maschile e maschilista: è terribilmente divertente farsi spiegare concetti economici da Margot Robbie, ma quando rifletti e pensi che i personaggi femminili principali di questo film sono due oggetti sessuali parlanti e una spogliarellista che possiede condomini, beh, ti chiedi se questa visione testosteronica non sia in fondo parte del problema. Soprattutto perché uno dei più grandi personaggi, la moglie del personaggio interpretato di Christian Bale, è forse l’unico esempio positivo fornito all’interno del film, ma ahimè, sempre fuoricampo.
Lo vado a vedere? Sareste folli a fare altrimenti. Se vi piace il cinema, è un passaggio obbligato del 2015, se il vostro riassunto di quanto successo nel 2008 è piuttosto terrificante e confuso, beh, togliete dall’equazione il confuso, per giunta ridendo biecamente e di gran gusto, salvo poi uscire acutamente consapevoli che intorno a noi si stanno erigendo nuovi palazzi finanziari sulle stesse fondamenta sabbiose.
Ci shippo qualcuno? Mhhhhh, posso dire che adoro questa versione radical hipster vegana brizzolata barbuta di Brad Pitt che fa il baby sitter ai suoi giovani amici terrorizzato che l’NSA possa scoprirlo?
Posso portarci la Progenie?
Mhh, non vorrei sottovalutare la Progenie, ma temo potrebbero annoiarsi, o peggio, diventare ansiosi.
Però ecco, nessuno sniffa cocaina dalle chiappe di una prostituta, quello no.
Sono già abbastanza ansiosi, grazie.
Un film pazzesco, semplicemente pazzesco… ❤
Un film comunque che per capire , e gustare anche visivamente, appieno deve essere visto due volte. Per me è stato così
È probabile si, inevitabilmente nella prima visione si viene fagocitati dalla mole di informazioni ma anche affascinati e si sta lì come uno scolaretto sedotto che pende dalle labbra dell’insegnante e qualche finezza stilistica scappa via. A me ha colpito molto il montaggio e questo alternarsi di stilemi televisivi e documentaristici mescolati con una chiave molto pop. In generale mi piace questa sorta di versione più mordace e meno arzigogolata e sborona della scrittura di Sorkin.
Film splendido…è piaciuto un sacco anche a me…