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the danish girl posterÈ davvero semplice sparare a zero su Tom Hopper e ormai è uno sport riconosciuto tra gli amanti di cinema. Con suo stile espositivo al limite del pedante, con la sua esasperata ricerca di coinvolgimento emotivo via reiterati primissimi piani nel puro Oscar Bait (film “esca” per attrarre l’attenzione dell’Academy) delle sue lacrimevoli storie, presta molto più del fianco a critiche ferocissime. All’insegna del commovente e non pago del successo de Il Discorso del Re, eccolo tornare con la storia pioneristica di una coppia di pittori danesi in cui lui, a disagio con il proprio sé esteriore, decide di tirare fuori la donna che si sente di essere, con tragiche conseguenze personali e familiari. Insomma, Tom Hopper è tra i pochissimi che fanno cinema da Oscar con approcci e metodologie anni ’90 e soprattutto l’unico a riuscire a cavare nomination di pregio da questa tanto vituperata pratica.

Non che io voglia in qualche modo difendere una pellicola dalla tragedia ricercata ed esasperata come The Danish Girl, che non si fa mancare nemmeno uno degli stilemi di questa particolare pornografia del dolore, nudo integrale e melodrammatica scena finale compresa (forse l’unico vero momento inaccettabile del film). Tuttavia mi fa giusto un briciolo di tenerezza Tom Hopper, uno che viene costantemente criticato a causa della suo essere rozzo nel portare avanti un discorso edonistico e lacrimevole come tantissimi altri molto più stimati colleghi, che però dal nuovo millennio hanno imparato ad essere sottili e indiretti.

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Lui invece è rimasto agli anni ’90, quelli del biopic dall’inizio alla fine della vita tragica di un personaggio assolutamente protagonista, a cui bisogna asservire il resto del film, facendoglielo girare tutto attorno, sacrificandogli tutto il resto, anche un tentativo di posizione mediata rispetto alla figura in esame, che dovrebbe essere colta più che giustificata nei suoi pregi e difetti. Eddie Redmayne è lo splendido, efebico corpo prestato alla causa, così assorbito in questo sistema che pare aver esaurito con questa interpretazione tutto il riconoscimento e la stima che si era guadagnato con un ruolo in fondo simile, quello de La Teoria del Tutto, ma gestito in maniera più raffinata e scaltra. Appunto.

Un singulto di involontaria modernità lo porta Alicia Vikander, l’attrice straniera di cui Hollywood ha sapientemente orchestrato la consacrazione nel 2015, con buone possibilità di suggellare il suo ingresso nell’olimpo statunitense con un Oscar. Se è una passerella attentamente pianificata come lo fu quella di Marion Cotillard è altrettanto meritata, per un attrice di enorme talento che gli amanti dei film stranieri coinvolti alla corsa degli Oscar (se ne esistono altri a parte la sottoscritta, intendo) hanno già imparato ad amare quando, qualche anno fa, divenne la prima stella del cinema svedese.

Nonostante le sia affidato l’ingrato ruolo della moglie ancillare, piangente e devota, la Vikander letteralmente risplende, donando un tale carisma e carattere a un personaggio originariamente sovversivo quanto il marito ma ricondotto nei ranghi da una sceneggiatura tutta concentrata sul protagonista putativo, che lei finisce per mangiarsi, letteralmente, trasformando un inno solipsista in un’epopea di coppia persino femminista.

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Lo vado a vedere? Mi piace immaginare una sala piena di coppie di una certa età (mentale o anagrafica) e personcine per bene, di cui è fatta l’Academy e una certa fetta dei frequentatori di cinema italiani, al cui sentito emozionale punta questo film. Tutti gli altri potrebbero disertare, se non fosse che vi tocca per colpa e merito di Alicia Vikander.
Ci shippo qualcuno? Non propriamente, ma non stupisce che per i rispettivi ruoli marginali, maschili e secondari siano stati reclutati l’amato Ben Whishaw e Matthias Schoenaerts, un altro straniero in terra straniera di cui Hollywood pare non aver ancora deciso cosa fare.